| Insieme nel percorso. Grazie!Sandra Carresi (Firenze)
 Che serata stupenda ho trascorso con gli amici poeti a Vigevano, grazie Ciccio, sono tornata a Novara in pomeriggio (x lo sciopero dei treni) stanca ma contenta.
 Anna Scarpetta (Novara)
 Grazie per la bella serata di ieri ; siamo stati veramente bene e mi dispiace poi di esserci persi alla fine per i saluti. Fai ancora i complimenti a tua moglie per il bellissimo intrattenimento musicale…
 Carmela Di Rosa (Alessandria)
 Grazie, Ciccio! E' stata una serata piacevolissima e fortemente educativa.Anna Maria Folchini (Milano)
 
 Davvero..da ripetere. ..dovunque!"Paola Surano (Sesto Calende (Va)
 Ieri sera a Vigevano serata di poesia, canti e racconti.Liliana Calabrese - bella e dolcissima - ha cantato in molte lingue... italiano, francese, sardo e siciliano.
 Non potho reposare dei Tazenda, tra le altre.
 Abbiamo recitato versi di amici e di grandi poeti.
 Abbiamo mangiato e bevuto, abbiamo condiviso sorrisi e risate, emozioni e pensieri.
 Abbiamo ascoltato le voci di camminatori e di viaggiatori. Abbiamo ripercorso strade antiche.
 Abbiamo parlato delle nostre speranze.
 Siamo stati bene, molto bene.
 Grazie Ciccio.
 Carla De Bernardi (Milano)
  
        A VIGEVANO PER I MERCOLEDÍ
          LETTERARI DI AVOLA IN LABORATORIO
…la
          felicità è una piccola cosa, è un bocciolo di rosa su cui si posa l’ape per  succhiare il
          nettare  e poi andar via
          
         
           
          “La nebbia agli irti colli”…già Carducci! E chi non
          conosce i versi di “San Martino”! E poi questa nebbia che lenta cala in
          goccioline appesantite dal freddo, chissà perché mi fa pensare al Goldoni, alle
          dame con la bauta a coprire il volto, le gondole che
          scivolano lievi tra i canali, ai misteri che si intrecciano tra le calli, ai sospiri della laguna.
 Quando c’è luce, con gli occhi
          riusciamo a seguire le figure che si allontano verso l’orizzonte, ma nella
          nebbia i rumori si spengono, le luci si sfumano, le impronte si perdono mentre
          le sagome sembrano dileguarsi in un oltre metafisico, quasi  irreale.  Però… aspetta un momento… oggi il calendario non ricorda
          quel soldato di Tours che divise a metà il proprio
          mantello né ci troviamo tra quelle colline dalle fronde spogliate dall’autunno.
          Siamo, invece, a ridosso di certe “aride sponde” e abbiamo “volti i guardi” alle acque del “varcato” Ticino e questa Piazza
          Ducale, come tutte le altre, agorà politico e centro di aggregazione sociale
          della vita cittadina, con questi loggiati che le fanno ala e la rendono snella
          mentre l’edificio sacro dalla linee insolite e l’andamento sinuoso, la fa
          apparire statica e ben salda nella maestà della fede, mi ricorda altri luoghi
          del cuore.   Gli aghi della temperatura che scende mi punzecchiano il
          viso e le mani, ma non mi importa…sto aspettando il mio gruppo di amici e
          questo mi rasserena e mi regala felicità. Alla spicciolata arrivano tutti  così ho
          l’opportunità di conoscere di presenza  persone che come me amano scrivere e persone esperte dei vari Cammini
          europei.
 Salutare Francesco e Liliana insieme
          alla loro figlia è rassicurante, ma mi sembra quasi strano trovarli qui, visto
          che nel mio immaginario sono abituata a seguirli in una realtà geografica ben diversa da questa. Da abili
          tessitori di trame di fraternità, socializzano cultura e amicizia partecipata e
          ben sanno che “la poesia ovunque ha la sua valenza/si esprime negli occhi della
          luce, nelle righe del silenzio” perché “l’essenza della bella poesia serpeggia
          come lieto/delicato vento” (Anna Scarpetta, “Il mondo della musa”). Sono proprio
          due anime in un nocciolo loro due, anime affini e diverse nell’intima essenza,
          ma complementari ed omologati ad un medesimo sentire giusto come quella
          “mandorla siamese” della foto di Fabio Montalto nella silloge poetica di
          Cettina Lascia Cirinnà.  Filosofi puri di vita come pure
          dell’arte della paziente maieutica mettono in atto certe upanisad,
          riuscendo anche a  trasmettere
          un tipo di insegnamento mistico.  Immersa in questo bellissimo convivio, mi
          sento tra l’Olimpo e il mare, su quel monte Pimpleo dove risiedono le muse e pur nella mia  esuberanza di carattere, nella sempre
          meno conclamata allegria, non incline alla reticenza e alla misantropia ma  più all’apertura
          verso l’esterno mi piace dare spazio agli altri, fare largo a chi ha qualcosa
          da dire, ascoltare chi ha qualcosa da proporre e da insegnare, accogliere senza
          riserva gli intenti e i desideri degli altri, pronta a percepire i battiti di
          chi come ama le lettere ed il potere multiforme della poesia. Ecco perché mi
          sento di dire che anch’io “ho visto il passaggio delle stagioni,/ho respirato le loro fragranze,/ho sentito lo schiaffo del
          vento /e il bacio del sole./…ho avuto paura e ho gioito”
            (Sandra Carresi, “Alle mie ragazze”). E mentre ascolto le  bellissime rime
          declamate in dialetto siciliano da Carmela Di Rosa e quelle proposte dalle
          altre amiche (Paola Surano, Sandra Carresi, Anna
          Maria Folchini
          Stabile),
          il discorrere di chi riesce a cogliere gli attimi dell’esistenza, i racconti di
          quanto riportano il proprio vissuto da pellegrini (Cristina Menghini,
          Alessandro Ghisellini,
          Luciano  Callegari,
          
          Lalla Fumagalli, Giuliano Mari, Ruggero Giuseppetti, Stefanino Valmadre, Riccardo Latini, Carla De Bernardi), lo
          stesso parlare dell’Editore Urso che mi fa pensare ai colori fulgenti della sua
          terra, mi salgono alle labbra i versi in cui
          la Dicknson
          dice che la felicità è una piccola cosa, è un bocciolo di rosa su cui si posa l’ape
          per  succhiare il nettare  e poi andar via. Così mi vien fatto di
          paragonare questo momento di coralità sia a quel “girasole impazzito di sole”
          immortalato da Montale sia a quello riportato sulla copertina della raccolta
          poetica “Poesie di un pellegrino”, lette dallo stesso autore (Davide Bove) e mi
          dico che stasera noi siamo i petali di quel fiore splendente ed anche api che
          aspirano nettare prezioso che si sprigiona da questa relazione umana e ci fa
          sentire parte di un magma che fluisce dai pensieri; e siamo anche chicchi di
          una “risata gialla e dura”, serbata intatta in quella pannocchia celebrata da
          Federico Garcia Lorca.  In situazioni come questa il
          sentire si condensa in sensazioni forti ed impresa ardua diviene il voler
          ingabbiare i pensieri e ordinarli in categorie già stabilite mentre le idee si
          accavallano nella mente e gli affetti galoppano nelle emozioni.
 E Liliana, donna dalle mille
          risorse e all’apparenza fragile come giunco ma in verità robusta come quercia,
          mette cuore nell’espressività del canto mentre le dita pizzicano le corde e  fermano le note
          sulla tastiera della chitarra; ogni sfumatura della sua voce cattura perché sa
          ben interpretare sillabe e parole, incanti e musica.  “L’inferno dei viventi non è
          qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che
          abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme” (Italo Calvino ne “Le città invisibili”). A noi, però, non interessa certo
          scegliere la via più facile, accettando l’inferno fino a diventarne parte
          integrante e non vederlo più solo perché nella società attuale “si è passati a
          un atteggiamento distaccato verso un mondo oggettivo, esterno che però non ha
          più in sé nessun fondamento etico” (G. Germani, “Tiziano Terzani:
          la rivoluzione dentro di noi”). A noi interessa scegliere la via più rischiosa,
          attuando “attenzione e apprendimento continui” dato che “cercare e saper
          riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare , e dargli spazio”(Italo Calvino, o.c.).  Occorre per questo tenere
          presenti i fini primari della vita umana quali interesse, amore, doveri etici e religiosi, liberazione intesa quale libertà,
          riposo, felicità e rinascita che significano trascendere gli stessi scopi della vita. Ecco perché i nostri passi  muovono verso Itaca e “…questo viaggio
          ci porta ad indagare quella cosa, in fondo misteriosa, che è la nostra mente,
          al cui interno sussistono tanto la pace, la calma aurorale e beata, quanto
          l’avvicendarsi conflittuale e bellicoso dei rapporti con il mondo” (G. Germani, o.c.). Pertanto ciò che ci aspettiamo dal nostro
          viaggio, sia esso reale, onirico, surreale, fantastico è la capacità di non
          perdere mai la speranza e mantenere la tenerezza, inventare mete e raggiungere
          obiettivi, riuscire a tenere nel palmo della mano un granello di sole e temere
          il buio, voler accettare e capire il silenzio e non aver paura del rumore della
          folla, gridare al vento parole senza senso e commuoversi per un cielo stellato
          o “un passerotto morente”. E solo quando saremo in grado di acciuffare ciò che
          da sempre andiamo cercando, potremo dire di non aver “vissuto invano” anche
          perché “La meta della vita é un viaggio di cui (noi stessi non sappiamo) un
          granché, tranne la sua direzione (che) è dal fuori verso il dentro e dal
          piccolo sempre più verso il grande” (Tiziano Terzani).
  Itaca è incertezza e certezza,  miraggio e realtà,
          sogno e risveglio, cammino e stasi e tutti i Lestrigoni e i Ciclopi tanto temuti non sono altro che gli ostacoli da noi stessi creati,
          pensando che non possiamo perché come afferma Jorge Bucay “…andiamo in giro incatenati a centinaia di paletti
          che ci tolgono la libertà” e “l’unico modo per sapere se possiamo farcela è
          provare, mettendoci tutto il cuore… tutto il nostro cuore”. E questo concetto è
          anche l’essenza di quanto di volta in volta sono andati enunciando i pellegrini  che hanno
          partecipato la loro esperienza di uomini liberi nello spirito e nei pensieri,
          uomini desiderosi di raggiungere quella meta che si è profilata in lontananza,
          quel richiamo che ha invaghito le loro menti, consapevoli che  in fondo sempre “C’è un sentimento/quando
          guardo a occidente/e la mia anima/brama/ di partire” (Led Zeppelin).
 Ma Itaca è anche ritorno, è
          riposo, è casa, è sicurezza, è serenità, è famiglia ed il talamo segreto,
          costruito e modellato sui rami del vecchio olivo, sarà sempre simbolo dell’uomo
          che  dopo aver
          esaudito il proprio bisogno di conoscenza e aver  sfidato “i mostri sulla via” e “Positone
          asprigno” torna all’isola che gli “ha dato il bel viaggio” (“Itaca”, K. Kavafis).  
  Itaca… simbolo e dannazione di
          quel viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda e che fa percepire quel senso
          d’appartenenza di cui l’essere umano ha così tanto bisogno è assai gratificante
          come recondita armonia. “Tutto ha un significato psichico,
            una casa, un luogo, un avvenimento, al di quello apparente. Infatti ad ogni immagine esteriore corrisponde un’immagine
          interiore che evoca in ciascuno di noi una realtà molto più vera e profonda e
          in questo passaggio il senso dei simboli ci aiuta ad andare oltre il visibile;
          il “vedere dentro” trascende il linguaggio attraverso certi veicoli di
          significato quali le metafore, le allegorie, le similitudini”. “Multas per gentes e multas  per aequora vectus”
          (V. Catullo) mi dico quando appoggio di nuovo i passi sul marciapiede della
          stazione di S. M. Novella e penso che non “Vi è felicità più grande…/la mente
          libera… e a casa /si torna per poi riposare nel letto sospirato” (V. Catullo,
          “A Sirmione”).
 E Itaca è anche questo: partire
          per  poi
          ritornare, cogliendo l’attimo fuggente e affidandosi al domani quanto meno
          possiamo anche perché si prova una gioia infinita quando riusciamo a realizzare
          ciò che in cuore era desiderato (dai poeti Orazio e Catullo).  Itaca è una speranza viva, una
          chimera, un sogno da destare, un faro verso cui dirigere la rotta; Itaca è una
          “valle dell’ozio”… uno spiazzo più o meno ampio, uno spazio mentale più o meno
          piccolo che ognuno di noi può trovare nel suo atlante
          psichico personale” (Salvatore Di Pietro, “Nella valle dell’ozio”). Talvolta
          nella vita ci troviamo come in quel tratto del Cammino che va da Saint Jean Pied-de-Port a Roncisvalle… il più
          impervio, il più difficile a superare, banco di prova delle forze fisiche e di
          quelle interiori di ciascun pellegrino e si ha timore di non farcela perché la
          forza d’animo viene meno, ma “poi sopraggiunge una forza, una forza strana che
          non puoi misurare o controllare, una forza sconosciuta, oscura, mai sentita che
          ti trascina di nuovo dentro (alla vita) e non sai come e perché” (Letterio Pomara, “
          La Fuerza
          del Camino”).  Così “Come le api raccolgono il
          nettare/da piante diverse e miele ne fanno/ unendo l’essenza,/
          e più non è possibile distinguere/il nettare di questa dal nettare di
          quella,/così le creature si fondono nell’Essere./… non importa ciò che sono
          sulla terra./Tornano all’essere/all’essenza
            più fine/al sé di tutto il mondo” (dalle “Upanisad”). Lucia Bonanni
             
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