…Dico questo perché volendo io fare una riflessione sul tempo mi sono ricordato che
nell’Ecclesiaste ci sono delle bellissime riflessioni sul tempo. Vi ricordate?...C’è un tempo per
vivere e un tempo per morire, c’è un tempo per piantare e uno per sradicare, etc…etc.
Adesso i ragazzi non leggono
neppure più l’Ecclesiaste, ma possono
sempre scoprire, per esempio, a proposito di tempo, i versi di Ivano Fossati. Dicono che c’è un tempo per seminare/e uno
che hai voglia di aspettare/un tempo sognato che viene di notte/e un altro di giorno teso/come un lino a sventolare/…Dunque una
riflessione sul tempo: è importante parlare del tempo e per introdurre un po’
questo discorso sul tempo ho pensato che forse valeva la pena affidarci a Italo
Calvino.
Italo Calvino ha scritto questo che è il suo primo romanzo: Il sentiero dei nidi di ragno. Mi piace
questo brano, mi piace questo brano perché è molto significativo.
Comunque per dire qualche cosa su
Calvino e su cosa mi ha spinto a pensare a questo libro, dico che questo libro, questo romanzo, questo romanzo iniziale di Calvino è
un inno, un inno al tempo.
Soprattutto un inno al tempo in
cui dei giovani si videro costretti probabilmente senza essere eroi a recitare
un ruolo degli eroi…Invece costoro non sanno pensare ad altro, come innamorati, e quando
dicono certe parole tremano nella barba, e gli occhi luccicano e le dita
carezzano l’alzo dei fucili. A Pin non chiedono che canti loro canzoni d’amore,
o canzonette da ridere: vogliono i loro canti pieni di sangue e di bufere,
oppure le canzoni di galere e di delitti che sa solo lui, oppure anche canzoni
molto oscene che bisogna gridare con odio per cantarle. Certo, essi riempiono
Pin d’ammirazione più di tutti gli altri uomini: sanno storie di autocarri
pieni di gente sfracellata e storie di spie che muoiono nude dentro fosse di
terra.
Sotto il casolare i boschi diradano in strisce
di prato, e là dicono che ci sono spie seppellite e Pin ha un po’ di paura di
passarci alla notte, per non sentirsi tirare i calcagni da mani cresciute in
mezzo all’erba…Ora io francamente non so se sono capace di cantare le
canzoni d’amore che riesce a cantare Pin, sicuramente non potrei essere capace
di fare questi gorgheggi amorosi, ma spero di non farvi perdere tempo con dei
semplici raschiamenti di gola e, tuttavia, è qui il punto: noi dobbiamo
ritornare a perdere tempo.
Perdere tempo per non perdere tempo.
Non si tratta di annullare il
nulla, ma è certo che il nichilismo di oggi è un distrattore assoluto di tempo:
tempo in quanto vissuto.
Nella nostra Weltanschauung non
c’è più il tempo, cioè il tempo della psiche: il tempo
che non si separa dallo spazio.
Scusate se mi permetto questa
piccola divagazione.
Sembra che…parlavo di questa
divagazione che mi sono permesso a proposito di scienza. A proposito di scienza, relativamente alla opportunità di associare la scienza
ai comportamenti umani.
Bene: diciamo che in fondo la
scienza ogni tanto qualche suggerimento utile ce lo dà, soprattutto se a praticare l’ambito scientifico è un genio. Beh! In questo
caso è stato il genio di Einstein: il genio di
Einstein che ci ha spiegato la curvatura dello spazio-tempo.
La curvatura dello spazio-tempo è
il vissuto.
Più la materia del vissuto ha
consistenza più è incurvato lo spazio-tempo.
Cioè, se c’è tensione emotiva il
vissuto appare come uno spazio-tempo incurvato.
Un po’ come fa la forza di
gravità a incurvare lo spazio-tempo.
Senza tensione emotiva lo
spazio-tempo è ritornato piatto.
Ecco credo che questo sia uno dei
mali di oggi: mancanza di tensione emotiva.
Spazio e tempo dunque si
separano.
Ma lo
spazio ha bisogno del tempo: spazio e tempo sono le coordinate del racconto.
Dal racconto vengono le emozioni.
Viaggiano le emozioni scivolando
sulle curvature dello spazio-tempo: ogni volta che scopriamo qualcosa che è nel
mondo una forza si agita dentro di noi.
Una gravità che piega la psiche
in modo da far oscillare le emozioni.
Su una superficie piatta le
emozioni non viaggiano.
C’è bisogno che il nulla riprenda
a fluttuare (caro Ciccio): abbiamo bisogno delle increspature.
A partire dalle increspature lo spazio-tempo riprende a curvarsi.
Ma perché questo nulla? Cosa è mancato?
La parola è venuta a mancare: la parola del racconto.
Nel racconto fluiscono le parole
capaci di increspare il nulla.
Domenica…Domenica questa scorsa…So che molti di voi comprano Repubblica…e, insomma, c’era un
articolo Roma, studenti neofascisti
contro il partigiano etc. etc.
Ho letto l’articolo; penso che
tanti di voi l’hanno letto. A me è piaciuta la risposta che ha dato il
partigiano…Questi attivisti di estrema
destra trovano sempre pretesti per negare la Resistenza, che è alla base della
Costituzione Italiana…Ecco mi pare che la parola calda, la parola cardine di
tutto questo sia pretesti:
pretestuoso. Cioè, credo che…credo che questa parola debba offrire a noi la
possibilità di diventare più attenti, di diventare più…insomma diventare…diventare degli esecutori di linguaggio, ma in maniera
militante direi.
Ecco noi dobbiamo essere attenti, dobbiamo rifare la Resistenza attraverso le questioni che afferiscono al linguaggio.
Questa cosa è fondamentale, perché se proprio vogliamo parlare del nulla di
adesso (buttiamola sul piano speculativo), non
c’è molto da dire: ma cos’è il nulla di adesso se non il nulla delle cose che si dicono, la banalità dei discorsi che si fanno?
Insomma, la radice profonda della
nostra istituzione democratica è l’antifascismo.
Dunque la radice profonda dell’antifascismo attiene alla nostra comunità.
Da un punto di vista generale
l’atto fondativo della comunità giunge al culmine di un processo
storico-politico capace di determinare o, meglio, di definire, nel contesto territoriale su cui ricade, il destino di chi in
quel contesto si trova gettato. (Gettato…è un virgolettato che vuole essere una
sorta di riferimento ad Heidegger).
Dunque è la storia che ha questo
compito: aiutare la comunità non ad adempiere ad un
destino già segnato, ma a cercare la sua identità.
Dal riflesso della identità della
comunità va riverberando in ognuno il riflesso della identità del singolo: ogni
singolo ha una identità o, per meglio dire, c’è
un’interfaccia in cui elementi intrinseci ed estrinseci si fronteggiano: natura
umana da una parte ed evento storico dall’altra.
Tutto questo serve a definire
nella coscienza del gentile una stratificazione di contenuti.
Attenzione: sto dicendo del gentile perché, è importante questa
precisazione, perché nella comunità non necessariamente ci devono stare
individui che cercano Dio o che hanno bisogno di Dio; nella comunità non necessariamente
ci devono stare individui che se hanno Dio possono rinunciare alla conoscenza.
Nella comunità c’è il gentile, cioè la gente: nella comunità
c’è la gente.
Dunque il gentile appartiene alla gente: deve appartenere alla gente.
Il senso autentico del far parte
di una comunità è esattamente questo: appartenere alla gente.
A partire dal gentile, perché la comunità è fatta
di gente, cioè di persone che spinte da un desiderio profondo, viscerale (per
dire quello che diceva Aldo Lanza poco fa: viscerale, usava lui questo termine),
esprimono un bisogno non privato ma pubblico che è quello dell’appartenenza.
E per dar voce a questo bisogno
sono pronte a testimoniarlo.
Qual è il modo migliore per
testimoniare questo bisogno di appartenenza?
Il racconto.
Non certo il chiacchiericcio di
questi giorni per esempio. (Ma questa casomai è una
questione che affronteremo in altra sede e in altra circostanza).
Dunque il racconto, perché nel
racconto fatto di un linguaggio che evoca vengono rievocati gli eventi che hanno determinato una scelta o le scelte.
Il venir meno del racconto ha
portato alla crisi della comunità.
Io adesso non vorrei usare le
solite parole banali o le solite frasi fatte; insomma
le solite argomentazioni. Non vorrei, come si dice, sfondare
porte aperte, ma insomma, questo è.
L’interruzione del racconto ha
avuto conseguenze devastanti.
Basta dire che la nostra comunità
oggi deve lottare per bloccare le forze revisioniste: le forze revisioniste che cercano di strappare quella radice profonda che è
l’antifascismo.
Nella prefazione a La letteratura partigiana in Italia,
Natalia Ginzburg…Natalia Ginzburg ha scritto più o meno queste cose…Le strade e le piazze delle
città, teatro un tempo della nostra noia di adolescenti e oggetto del nostro
altezzoso disprezzo, diventarono i luoghi che era necessario difendere. Le
parole «patria» e «Italia», che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della
scuola perché sempre accompagnate dall’aggettivo «fascista»,
perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così
trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un
tratto alle nostre orecchie risultarono vere. Eravamo
là per difendere la patria e la patria erano quelle
strade e quelle piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente
che passava. Una verità così semplice e così ovvia ci parve strana perché
eravamo cresciuti con la convinzione che noi non avevamo patria e che eravamo
venuti a nascere, per nostra disgrazia, in un punto gonfio di vuoto. E ancor più
strano ci sembrava il fatto che, per amore di tutti
quegli sconosciuti che passavano, e per amore di un futuro ignoto ma di cui
scorgevamo in distanza, fra privazioni e devastazioni, la solidità e lo
splendore, ognuno era pronto a perdere se stesso e la propria vita…Raccontare
per parlare dello spazio e del tempo perché spazio e tempo si coappartengono.
Non c’è spazio che il tempo non riesca a definire, il tempo che abbiamo vissuto: un vissuto. Ecco il senso. Un portato dell’esistenza. Non
importa se la vita si incarna in un bambino che si
appresta a scoprire il mondo. E io qua vorrei
abbandonarmi a un racconto che mi riguarda personalmente.
Cioè vorrei raccontare di un bambino che ad un
certo punto si lascia incuriosire da una sedia. I bambini ogni giorno che passa scoprono sempre qualcosa e ora si
tratta di una sedia. Questo bambino guarda con più attenzione di come abbia
potuto fare prima e con la curiosità che cresce (nel bambino), dunque con più attenzione di come abbia
potuto fare prima e scopre che questa è una sedia in acciaio o in ferro, diversa dalle altre
sedie. Il bambino non sa capire che differenza c’è fra ferro e acciaio, però
capisce che non è in legno la struttura della sedia oggetto d’una nuova scoperta. Poi il bambino diventa un po’ più curioso e scopre che attaccate a
questa sedia, che, tra l’altro, è sagomata in un modo strano, ci sono dei rettangoli colorati pieni di
scrittura e di figure: lui non ha mai visto una sedia di questo tipo
insomma, e poi in ferro per giunta, comunque qualcosa che non è in legno, il solito legno delle sedie, e dunque
scopre che attaccate in più punti a questa sedia ci sono delle targhette e poi
andando a guardare più attentamente scopre che queste targhette recano delle
scritture in una lingua che lui non conosce. Quando lui scopre le
scritture in una lingua che lui non conosce il bambino già frequentava la
scuola, insomma aveva imparato a leggere però la scrittura che riempiva le targhe attaccate alla sedia lui non la sa leggere.
Non è semplice: ha delle scritte in inglese. Ma questo il bambino poi lo ha capito molto tempo dopo. Beh! Allora, a quel punto,
era ovvio che il bambino diventasse curioso. Quando si diventa curiosi si fanno
domande. Allora il bambino chiede: ma perché questa sedia? E poi, oltre a
queste targhette attaccate alla sedia c’erano pure dei buchi che prima erano serviti ad ospitare dei bulloni. Allora qualcuno ha pensato di raccontare al bambino il
motivo di quella sedia: la storia di quella sedia.
La storia di quella sedia è la Storia con la esse maiuscola.
Le case dei contadini sono piene di oggetti rimediati alla meglio, ma
in questo caso era intervenuta la Storia perché quella sedia era stata
letteralmente staccata da un aeroplano, non
più in grado di volare, che stazionava nei pressi
di quella casa. La casa dove c’era il bambino la sedia
e chi ha raccontato la storia non era una casa normale, era una casa di campagna
ubicata in una certa zona, anch’essa
toccata dalla Storia: il luogo di cui varrebbe la pena parlare. Insomma, a
pochissima distanza da questa casa c’era un campo: era un campo di aviazione leggera. (Non immaginatevi un aeroporto
come quelli di adesso). Perché quando gli alleati sbarcarono si insediarono in tutta questa zona, che con molta
difficoltà è stata individuata dagli storici.
Ma più che gli storici a creare
confusione altri hanno agito: storici contro pseudo-storici.
Noi purtroppo abbiamo la sfortuna
di vivere in mezzo a pseudo-tuttofare che molto spesso riescono a oscurare
l’importanza e la bravura di quelli che in effetti meriterebbero di essere diciamo ascoltati in esclusiva. Bisogna dire che, seppure con non poca fatica e tempo, la Storia ha
recuperato molti contesti spazio-temporali che l’hanno
posta in essere. Insomma, diciamo che il luogo più o meno è stato localizzato con una certa precisione, ma per modo di dire e allora il
bambino scopre che lì dove lui diciamo trascorreva gran parte del suo tempo, sicuramente tutto il
periodo estivo, insomma, lì, erano accaduti dei fatti molto importanti: dei
fatti molto importanti. E, allora, è stato, è stato, diciamo così,
conseguenziale, il fatto che si scoprisse anche il fatto che Liliana ha anticipato: l’otto settembre, che poi non era l’otto settembre
ma il tre settembre.
Devo dire che poi quando ho
cominciato a interessarmi seriamente di queste cose qua sono riuscito a vedere
anche una ricca documentazione fotografica dell’armistizio. Insomma, diciamo
che la zona è quella: noi stavamo in una contrada, Torretonda, ed era esattamente quello il luogo, cioè il
campo di aviazione era a neanche cento metri dalla casa in direzione mare. In direzione ovest verso Avola c’era
l’ospedale, era l’ospedale da campo. In direzione Siracusa c’era lo Stato Maggiore e già andavamo verso
San Michele.
Qualche anno fa io ho preso
questo libro; ma, voglio dire, non è un’impresa comprarsi questo libro, basta
entrare in una libreria, sono riportati Massae,
massari e masserie siracusane: a
pagina 43 San
Michele: il maniero fortificato. Bene!
Questa masseria diciamo è circondata, ma solo in direzione Cassibile, da un vecchio uliveto, considerate che siamo un chilometro
prima di Santa Teresa, forse neanche. Quindi, questo per
chiarire questa storia Cassibile non Cassibile: ecco, lì, lì, a San Michele, a
cento metri dal fabbricato, va bene, lì c’erano le tende, chè erano attendati, dello
Stato Maggiore Alleato: a cento metri dal fabbricato, lì hanno fatto
l’armistizio.
Io ho avuto anche la fortuna
vedere queste famose pietre che sono state divelte: tutta una leggenda anche
sulle pietre. Insomma mi sarebbe piaciuto parlare di queste cose in maniera più
storicizzata, però capisco che dobbiamo stringere, tuttavia, tuttavia l’avete
capito di cosa ho dovuto parlare: di un tempo e di un luogo. Ho dovuto perché dovevo impegnarmi in questo racconto etico che è la descrizione di un percorso
immaginifico, come Il sentiero dei nidi
di ragno di Calvino: alla ricerca di un luogo che è dentro di noi.
Solamente affidandoci al pensiero mistico possiamo essere consapevoli di tutto
ciò: da cinque millenni i mistici si godono tutta la storia rimanendo seduti
alle soglie dei loro abituri. Poi, magari in un’altra occasione,
approfondiremo e chiariremo. Però consentitemi di chiudere con le parole di Vittorio Foa.
Vittorio Foa lo sapete no? Ha fatto nove anni di carcere tutti di fila: è uscito nel ’43, fatevi
i conti quando c’è entrato se è uscito nel ’43: ha fatto nove anni.
Vittorio Foa io l’ho conosciuto
che già lui era uno dei più grossi intellettuali del ‘900.
Questo è un libro molto
importante e molto bello Il cavallo e la torre: risale a una quindicina di anni fa, ma forse
di più. Chiudo: fatemi chiudere con Vittorio Foa…Io non so fino a che punto la mia :condizione
personale influenza il mio giudizio sulla vita e sul mondo. La mia è una
vecchiaia serena accanto a una donna, Sesa, che è una fonte di calma e di invito a prendere il mondo come viene senza pensarci
troppo su. Essa ha la capacità di spianare le rughe del suo prossimo e anche
quella, altrettanto preziosa, di spianare le rughe della sua fronte e quindi di
essere in grado di aiutare gli altri. Essa ha l’intelligenza delle gioie e
delle sofferenze degli altri, la capacità di lenire le sofferenze come di
partecipare alla gioia. Negli ultimi anni ha avuto per me molta importanza la
casa di campagna di Sesa a Castelforte, di fronte al golfo di Gaeta, luogo per
me carico di amicizie, di affetti. Non so se questo mio stato d’animo mi porti
a vedere il mondo più bello di quello che esso è. Può darsi. Io so che il mondo
non è bello, so anche che io sto perdendo le mie forze. Ma un vecchio non deve scambiare la sua debolezza con la debolezza del mondo: se
egli non è più capace di sperare altri ne sono capaci. Credo che la nostalgia,
che è un sentimento naturale della vecchiaia, non deve volgersi solo al
passato. A me non dispiace che non ci sia più il passato, mi dispiace di non
vedere più il futuro, di cui sono curioso…
Questo contributo rappresenta nella sua forma integrale l’intervento da
me svolto nel recente convegno organizzato dalla locale sezione dell’ANPI
tenutosi il 24-04-2012 presso il Salone Comunale di Avola per il
67° Anniversario della Liberazione. Grazie ad una faticosissima e
dispendiosissima operazione di sbobinamento dell’audio (tutti gli interventi
sono stati registrati) mi è stato possibile tirare fuori questo documento. Ma
la vera ragione per cui mi sono sottoposto a questo
snervante lavoro che è durato, credetemi, molto tempo (non dico quanto ma
tanto) è che ad esso volevo far seguire un post
scriptum per riportare qualcosa che mi ha molto colpito. In particolare mi
voglio riferire agli interventi successivi al mio che sono stati proposti da
due giovani attivisti del movimento culturale Ales: parlo di Sara e di Mauro
(spero di ricordare correttamente i loro nomi). A un certo punto ho temuto che m’avessero fatto uno scherzo: lo so, mi lascio andare a una
freddura, ma la sorpresa non è stata poca a sentirli parlare l’una di spazio e
l’altro di tempo. Non so quanti (ad eccezione di Ciccio Urso e di Gaetano
D’Agata, che coi loro racconti hanno proposto ottime
interpretazioni del tempo) siano riusciti ad agganciare i temi dello spazio e
del tempo, ma io non potevo non vedere nelle cose che Sara e Mauro hanno detto
l’ermeneutica del tempo: un tempo che si lascia interpretare solamente da chi
ne sa riconoscere la forma. Non è il tempo ingabbiato che ha una forma, ma
quello fuori da ogni gabbia, quello che è nello spazio che può spiegare le sue
ali rivelandosi ad ognuno. Un po’ per gioco, un po’
perché quella è la mia cifra stilistica (mi pottu sta sbintura), c’è qualche fumosità,
qualche metafora di troppo nel mio discorso: ma è veramente un male, una cosa
da non farsi, usare troppo la metafora? Una parte importante
dell’intervento di Sara è stato il cinema: quando Sara parlava di cinema faceva
letteratura (io, ascoltandola, facevo letteratura): la letteratura è l’epifania dell’esistenza ha detto recentemente
Claudio Magris. Personalmente al cinema devo molto perché dal cinema ho avuto le chiavi di lettura che mi servivano:
Nel giorno aureo della settimana
la vita dei fanciulli è meno retta.
Il gruzzolo serrato nella stretta
farà della magion meta sovrana.
Dal lenzuolo la trama si dipana
ai marmocchi che hanno fatto incetta.
L’occhio li rifonde e li assoggetta
al canto epico della durlindana.
Razziator degli orti e delle stalle:
son predatori spinti dal bisogno,
trafugator di merci e altri pegni.
Son vermi che diventerai farfalle:
pargoli perduti nel bel sogno,
miti spettator d’astuti ingegni.
Coniugando il cinema e l’esistenza, coniugando l’esistenza e la storia, coniugando la storia con la vita, fare in modo che
tutto si ponga su un piano letterario, come ha fatto Mauro che parlando degli
ultimi parlava in realtà di eroi. Ecco perché le mie riflessioni si fermano
qua: questo mi accade ogni volta che mi capita di scrivere la parola eroi.
Nino Muccio
Avola, 01-05-2012
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