Itaca ti ha dato il bel viaggio: che
cos'altro ti aspetti? ...
Vigevano, 16 novembre 2011
(Incontro di poeti, scrittori, pellegrirni dei vari cammini europei)
Contributo di Luciano Callegari
Vorrei dare un contributo partendo
naturalmente del Cammino di Santiago accogliendo però il tema di questa serata,
accettando e seguendo anch'io le suggestioni di Itaca.
Oggi nel programma delle medie non s'è più
lo studio dell’Odissea, ma ai miei tempi c'era: si faceva in seconda media Mi ha
quindi accompagnato un intero anno, e poi ancora al ginnasio, nel programma di
greco, se ne traducevano alcuni brani.
Se l’Iliade mi aveva portato in un mondo
popolato di grandi uomini, di guerrieri, di eroi malinconici con il destino
segnato, l’Odissea mi portava sulla nave di Ulisse, a vagare per il
Mediterraneo, in un viaggio estenuante fra donne affascinanti, magie, dei che si immischiavano continuamente, creature crudeli e
mostruose. In compagnia con
questo fascinoso Ulisse, sempre insoddisfatto, sempre inquieto, curioso,
impiccione, sempre pronto ad innamorarsi di donne ed a
cacciarsi nei guai, sempre pronto a seguire ogni sirena che gli si presentava
davanti, e tuttavia con l’idea fissa ma mai davvero prioritaria di ritornare
nella sua Itaca.
Era un mondo straordinario, favoloso, anche
perché, parlo della metà degli anni 60, il mio mondo era la provincia: molti
sogni ma ben poche esperienze eccitanti vissute.
Con Ulisse quindi ho sognato e viaggiato, e
come tutti gli eroi dell’infanzia mi è rimasto nel cuore.
E’ rimasto in me negli anni convertendosi
però da eroe mitologico a simbolo, a idea, a modello di una vita che avrei
voluto vivere, di un modo di affrontare le incertezze e i rischi, di accettare
con coraggio e con fatalismo le esperienze e gli stimoli della vita.
Proiettavo insomma in Ulisse le mie insoddisfazione per una vita che mi appariva sempre
troppo grigia rispetto ai sogni. La mia Itaca rimaneva lontana, ancora indistinta: ci sarebbe stata anche
per me ma ancora non aveva un profilo definito. Insomma, a quell'epoca navigavo a vista, guardando e
conoscendo via via il mondo che mi si presentava, i
porti che toccavo durante il viaggio.
In realtà per un periodo breve, a cavallo
degli anni 60/70, Itaca sembrava aver preso una identità
riconoscibile e possibile. Era il sogno di una generazione, e quindi anche il mio che ho vissuto
quel periodo con una adesione assoluta ed
entusiastica: era il mondo migliore in cui la mia generazione credeva, era la
società egualitaria, la fine dei privilegi, un mondo dove ognuno sarebbe stato
migliore perché liberato dal bisogno.
Ma presto erano tornate le nebbie, anche se quella esperienza aveva lasciato a bordo della mia
nave strumenti utili per riconoscere le correnti, le rotte da seguire, per
tenere la direzione anche nelle notti stellate. Strumenti che ho utilizzato lungo tutta la vita e che
ancora adesso funzionano bene.
Faccio poi un gran balzo e salto dai miei venti anni direttamente ai cinquanta: a quell'età ho scoperto, in
modo molto causale, il cammino di Santiago.
Qualcuno potrebbe chiedersi: ma che c’entra
il Cammino di Santiago con Ulisse, con Itaca?
Forse c'entra: vediamo.
Chi vuole arrivare alla sua Itaca cerca una
rotta, il percorso più rapido e semplice, che lo porti ad una meta, ad un approdo, stabile possibilmente, se non eterno. Se impostiamo così il discorso
allora sarebbe fin troppo facile fare una similitudine con il pellegrino che,
per arrivare a Santiago, cerca la sua rotta, prepara il suo viaggio, si mette
in cammino, affronta fatiche, supera imprevisti e alla fine, almeno lui, arriva
alla sua Itaca.
Questo discorso potrebbe anche reggere, è
vero, ma diventerebbe, secondo me, un po' troppo semplice, e alla fine banale.
Più utile e interessante credo sia cercare
di seguire e riconoscere il percorso che porta una persona della nostra epoca a
tornare indietro di secoli vestendo i panni del pellegrino medioevale.
Un tempo chi lasciava la
propria casa diretto ad un lontano luogo di culto acquisiva uno status
sociale tutto particolare, meritevole di tutela da parte delle comunità nelle
quali passava, Una lettera di presentazione, la credenziale, lo affidava alla
pubblica carità e generalmente era rispettato. C'erano anche ordini cavallereschi che lo proteggevano
durante il cammino.
Poi, nei secoli, il gesto di pellegrinare è
andato via via in decadenza fino a scomparire quasi nella
nostra epoca. O meglio, si è
trasformato in un viaggio, singolo o più frequentemente collettivo, fatto con
modalità pressoché turistiche. La cura del pellegrino era insomma considerato un dovere sociale.
La parola pellegrino ha acquisito in seguito una accezione negativa, evocando la figura di un
vagabondo, sporco, poco affidabile; una persona senza lavoro e quindi
tendenzialmente ladro, un tipo di cui diffidare.
Un'idea "peregrina", si dice
ancora. "Ma dove vai,
pellegrino" si diceva (e si dice ancora) per indicare un modo di
presentarsi dimesso, trascurato ...
Ora invece questa parola è stata
riabilitata, quasi quasi sta tornando di moda.
Fin da quando sono andato a Santiago per la
prima volta (era il 2001) io non ho avuto vergogna ad usarla. Anzi la dicevo con
orgoglio sfidando le ironie di chi mi conosceva laico e mi riteneva ora
"convertito e penitente". In questi anni moltissimi italiani sono andati a Santiago a piedi o in
bici (ho fatto un calcolo: dovrebbero essere all'incirca 80.000) e quindi
questa parola non crea più scandalo come prima.
In questa sede mi interessa
esaminare il profilo della persona "normale", che laicamente parte
per il cammino spinto non tanto e non solo dalla devozione ma da un'ansia di
ricerca che molto spesso non sa decifrare, non sa spiegare agli altri e neppure
a se stesso.
Non voglio generalizzare: so bene che le
motivazioni di chi parte sono le più varie tra queste ce ne sono di ben poco
"spirituali”. Ma la percezione che il cammino può essere un'esperienza
importante, e forse decisiva, è molto diffusa, molto più di quanto non si
ritenga.
Ho parlato di "percezione":
quindi di una cosa largamente indefinita, che si può difficilmente
razionalizzare, di una intuizione, di una speranza.
Quanti pellegrini, se gli rivolgete la
domanda diretta "ma perché hai deciso di partire" non danno una
risposta precisa, preferiscono addirittura non rispondere, oppure oppongono un
semplice "non lo so bene"!
Speranza, dicevo: ma di cosa? Di ritrovare
se stessi, dicono molti usando questa frase generica ed anche un poco retorica
forse ma certamente vera perché utilizzata in mancanza di altre
definizioni. Necessità di
staccarsi in modo forte dalla vita di tutti i giorni, di prendersi una pausa
nella vita, un periodo nel quale una volta tanto pensare
a se stessi, ascoltarsi, mettersi alla prova.
E allora si parte. Ma prima ancora ci si organizza, si
comprano i materiali, ci si allena, si passano ore a valutare cosa portare, a
pesare lo zaino, a interrogarsi: ce la farò? riuscirò ad arrivare in fondo?
Si consultano i siti, si leggono le
esperienze degli altri, si curiosa nei forum, si leggono e rileggono le guide.
L’informazione ora non manca: anzi, forse
ora è eccessiva. E tuttavia
chi parte difficilmente riesce a rimuovere le proprie insicurezze,
difficilmente riesce ad accantonare l’ansia che la decisione di fare questa
esperienza gli porta dentro.
Alcuni scrivono anche a me, e spesso dietro le domande si nasconde il bisogno di rassicurazione,
il desiderio di ricevere un incoraggiamento, di sentirsi dire "ma sì,
certamente ce la farai".
Tutti sanno che il cammino comporterà
fatica fisica e tutti, più o meno, si allenano. Ma basterà l’allenamento? Ben
pochi alla partenza ne sono sicuri anche ci sono persone che arrivano a salire
su sentieri di montagna con zaini pieni di sassi …
Si parte dunque dopo aver progettato da
soli il proprio cammino, dopo aver fatto da soli le proprie scelte, portando
con sé solo il proprio zaino, che contiene tutto quello che nei giorni del
cammino ci servirà.
Ma lo zaino pesa, attenzione. Decidere cosa portare non è una scelta banale: il peso eccessivo può
stroncare il fisico, rovinare le ginocchia, le caviglia, provocare tendiniti ...
Allora si deve scegliere cosa portare. Oppure, se già si è partiti e ci
si è resi conto che così non si può andare avanti, si deve scegliere cosa
buttare o cosa rispedire a casa. Ma non basta scegliere fra quello che può o non
può servire: quello lo facciamo sempre ogni volta che andiamo in viaggio. Qui la scelta è più radicale;
dobbiamo scendere di peso, il più possibile.
E allora la scelta si deve fare tra quello
che è o non è indispensabile. Solo così si arriva al minimo. Sembra un processo da poco, ma non è così. Viviamo in una società basata sul
consumo e invece facendo lo zaino cerchiamo l’essenzialità, neghiamo il
superfluo. E' un
ribaltamento dei comportamenti consueti.
E’ un gesto importante, e tuttavia
rischioso, perché comporta delle rinunce, dei rischi. E se lasciamo a casa una cosa che poi ci servirà?
Quante donne mi hanno chiesto: "ma ci sono i phon negli ostelli? ....
Poi bisogna arrivare all’inizio del
cammino: Saint Jean, Roncisvalle, Burgos, Leon. Dobbiamo cercare i mezzi per arrivarci. Anche questo può sembrare banale
ma non lo è per molti. Un
giovane magari sa come fare ma molti non sono mai andati in giro per il mondo
da soli: di solito hanno usufruito di viaggi organizzati, di una agenzia che ha pensato a tutto.
E dove si dormirà? Negli ostelli naturalmente. Ma tutti insieme, non ci sono
stanze singole o doppie, i bagni sono in comune, non si può prenotare. Per molte persone questi sono
problemi reali: molti non hanno mai dormito vicini ad estranei, molti non hanno mai condiviso i servizi igienici con sconosciuti. E l’idea di camminare dirigendosi
verso un luogo preciso senza avere la sicurezza di un posto letto pronto, a noi
riservato, è dura da accettare.
Ma poi alla fine si parte: ora ci siamo davvero. Il primo giorno, i primi incontri, il
primo timido approccio con il mondo del cammino. La scoperta di tanti
piccoli problemi ai quali magari non abbiamo pensato o che nei nostri
allenamenti quotidiani non si erano presentati. I primi dolori, un arrossamento, una vescica, lo zaino
che sega le spalle. La
fatica che ci presenta i primi conti, la materialità del cammino che in certi
momenti prende il sopravvento.
Si cominciano a contare i giorni trascorsi,
a fare i primi bilanci provvisori.
I primi giorni quasi
sempre sono i più duri. A
volte prende lo scoramento, scopriamo la nostra debolezza. Ci guardiamo attorno, ci
chiediamo se i nostri compagni di cammino hanno gli stessi nostri problemi,
cerchiamo a volte un aiuto, un conforto. Viene spontaneo farlo, perché siamo tutti uguali,
tutti impegnati nella stessa prova, ad affrontare gli stessi problemi.
Ho parlato sinora di problemi, di incertezze, di ansie, di fatiche, di difficoltà.
Non c’è solo questo naturalmente. Ma non mi interessa qui parlare
delle scoperte che il cammino ci riserva, delle illuminazioni, dei momenti in
cui il cuore si allarga, di come piano piano, giorno
per giorno, ci sentiamo portati in una dimensione che sempre più si allontana
da quella della nostra quotidianità, dalla scoperta di come riusciamo a
stabilire con facilità amicizie con gli sconosciuti che ci camminano accanto,
di come sia facile parlare dei nostri problemi, di come con naturalezza ci si
fidi degli altri, di come piano piano si acquisti
fiducia in noi stessi, di come assieme al tono muscolare si rafforzi la percezione
che ce la faremo.
Non mi interessa
descrivere i tanti momenti di commozione che nei giorni del cammino ci
capitano, dei flash improvvisi, delle coincidenze incredibili, delle esperienze
magiche che ci capitano.
Non mi interessa
ora parlare del calore e della commozione che si prova quando si viene accolti
in qualche particolare ostello in cui si pratica la vera accoglienza
pellegrina, quando si prega o si mediata tutti assieme, si canta, si parla
attorno ad una tavola, in una chiesetta, si riceve la benedizione pellegrina
...
Eppure accade che i tiepidi credenti,
specie sempre più diffusa, vivano con molta più adesione la loro
religiosità. E quanti atei
partecipano senza alcun imbarazzo, ma anzi spesso con commozione, alle preghiere
comunitarie, alle messe. Perché accade questo?
Tra l'altro anche questa considerazione
rafforza la mia convinzione che abbiano davvero poco senso le distinzioni fra
chi ha la fede in Dio e chi non ce l’ha, perché alla
fine si capisce che quello che conta davvero sono i valori condivisi, non le
appartenenze dichiarate.
Non mi interessa
insomma raccontare quello che il cammino ci può dare. Chi ha fatto questa esperienza lo sa bene, chi non
l’ha fatto potrebbe pensare che noi pellegrini siamo persone un
poi’ “strane”, esaltate, fanatiche. Lasciamo perdere quindi.
Quello che voglio invece sottolineare è come l’esperienza del cammino, da quando matura in noi la convinzione che
vogliamo farla a quando lo prepariamo, a quando effettivamente la realizziamo
diventa una nostra piccola Odissea personale.
Non sembri esagerato definirla tale. Il cammino è davvero è
un’esperienza originale, unica. Alcuni motivi ho cercato di raccontarli. Qualcuno l’avrò anche tralasciato. E’ un’esperienza importante, forte, a volte decisiva per la
nostra vita.
Santiago non è certo la nostra Itaca. E’ una meta provvisoria del
nostro cammino, una tappa intermedia, un porto nel quale fare rifornimento, un
crocevia nel quale poter ritrovare la giusta direzione.
Dopo riprenderemo il viaggio verso la
nostra Itaca. Ma lo faremo
più consapevoli, con qualche strumento in più perché in quella esperienza ci
siamo messi alla prova, abbiamo rischiato, abbiamo dato del nostro, abbiamo
camminato con le nostre gambe, abbiamo sofferto e superato i momenti di
debolezza, le incertezze, i momenti di sconforto. Abbiamo contato sulle nostre forze ma l’abbiamo fatto
all’interno di una comunità , condividendo il nostro
cammino con decine e decine di sconosciuti, scoprendo con sorpresa come sia
facile relazionarsi, fare amicizia, condividere, dare e ricevere fiducia, come
spesso sia più bello, più esaltante vivere assieme le esperienze. Cose che nella vita quotidiana
diventano invece così difficili …
Ulisse era spinto dalla curiosità,
dall’inquietudine, dall’ansia di conoscere, di sapere. Ha rischiato molto ma ha sempre
pagato di persona. Sì, aveva
qualche dio alle spalle, che però non è intervenuto più di tanto e anzi qualche
volta si è messo di traverso.
Anche noi, nella nostra piccola odissea,
abbiamo fatto da soli: nessuno ci ha organizzato nulla, non abbiamo comprato
nessun pacchetto preconfezionato. Siamo stati attori protagonisti. Non capita spesso nella nostra vita. Chi ha compiuto
l’esperienza del cammino può anche non avere piena consapevolezza di questo aspetto, ma io credo che invece sia fondamentale.
Neppure peraltro è automatico che tutto
quello che vi ho raccontato si realizzi davvero.
Il cammino, lo ripeto ancora, è una esperienza individuale e quindi ognuno lo vive a suo
modo. Non si possono stabilire
regole valide per tutti. E
ogni pellegrino che interrogherete vi farà un racconto diverso della sua
esperienza.
Io vi ho raccontato cose che ho
personalmente vissuto durante la mia esperienza di pellegrino e che tante volte
ho sentito confermare dai tantissimi pellegrini con i quali nei miei 11 anni di attività ho avuto modo di corrispondere.
All'inizio di serata Ciccio Urso ha letto
due versi di Itaca di Kavafis. Ora vorrei concludere leggendovi tutta
la bellissima ultima parte.
...
Conserva sempre nella tua anima l’idea di
Itaca:
arrivare lì, è quello il tuo
destino.
Ma non aver fretta nel
tuo cammino:
sarebbe meglio che durasse
molti anni
e che tu potessi
arrivare, già vecchio, nella piccola isola,
ricco di quanto avrai
conosciuto nel cammino.
Non sperare che Itaca ti arricchisca:
Itaca ti ha già concesso un bel viaggio.
Senza di lei, mai saresti partito, altro non
ha da offrirti.
E se la troverai povera, non per questo Itaca
ti avrà deluso
Ormai sei diventato saggio, con tutta l'esperienza
che hai fatto
sicuramente avrai capito quel che
Itaca vuol significare
Registrazione audio dell'intervento di Luciano Callegari (Introdotto da Francesco Urso)
Il video con Luciano e Liliana in ''Non potho reposar'', di Andrea Parodi e Al di Meola |