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PER DON LORENZO MILANI

PRETE E MAESTRO,

di Nello Lupo

Questa che segue e la Premessa di Nello Lupo,

al libro sulla figura e l'opera di don Milani

(luglio 2001, 8°, pagine 208, ill., € 14,46)
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Era l’ottobre del 1976, anno particolare, di quelli che lasciano il segno. Coronavo un bel sogno, raggiungevo l’agognato posto di lavoro. Un posto ambito: fare l’insegnante, per me che venivo dall’associazionismo cattolico scautistico, diveniva realtà. Presi servizio con incarico a tempo indeterminato quale docente di Applicazioni tecniche alla scuola media statale "Marconi" di Torino.

Quartiere della Torino-bene, come si diceva un tempo. Ma scoprii, ben presto, di essere stato destinato non al plesso centrale, bello, accogliente, organizzato, con grandi spazi per l’operatività, ma alla sua succursale, che si trovava nella vicina collina di Sassi, proprio sotto Superga, la tomba collettiva del grande e mitico Torino di Valentino Mazzola.

La scuola era statale, allocata in un collegio di preti, si chiamava "Città dei Ragazzi". Ospitava, a convitto, fanciulli che provenivano dalle esperienze più amare che la vita potesse riservare a un essere umano.

Michele era un ragazzo di 15 anni, alto e robusto, divenuto completamente calvo in seguito al trauma per la morte violenta del padre, due anni di ripetenza.

Giuseppe, figlio di separati, minuto, gracile, frequentava la seconda media. Irrequieto, continuamente in movimento, era affetto, come si direbbe oggi, da sindrome da iperattività.

Felice, prima media, silenzioso e taciturno, viveva appartato, ricurvo su sé stesso, era sostanzialmente incapace di relazionarsi agli altri.

Tre bambini, tre diversi mondi, tre diversi "prodotti" di quella medesima causa sociale che fu l’emarginazione economica, civile e culturale susseguente al boom economico degli anni ’60: sradicamento violento dalla propria terra di origine, deprivazione culturale dei quartieri dormitorio della periferia torinese.

L’impatto con quella realtà fu duro e difficile. Non mi restò che chiedere aiuto. Un giovane aspirante insegnante, alle prime armi, cosa poteva fare se non sottomettersi all’autorità indiscussa e indiscutibile di una collega di lettere?

Anziana, alla fine della sua carriera scolastica, discusse con me amorevolmente per ore intere. Non sciolse i miei dubbi, accrebbe, in me, la consapevolezza delle responsabilità che ci si assume quando si sceglie di fare l’educatore. Mi consigliò un libro, Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana, mi strinse la mano e mi augurò "buona fortuna".

Fu così che "conobbi" Don Lorenzo.

Avevo dimestichezza con preti e suore. Ero cresciuto tranquillamente in mezzo a loro, in un paesino di cultura contadina, nella quiete di una vita serena, lo scorrere lento del tempo, la gioia dei rapporti autentici e veri, lontano dai rumori e dalle tensioni della violenza verbale e materiale dello scontro sociale nella Torino degli anni ’70.

Ero abituato al contatto fisico, faccia a faccia, con i miei altri significativi: mio padre, mia madre, mia sorella, il parroco e l’amorevole suora della mia felice infanzia, modelli di socialità e di educazione religiosa.

 

Ora il quadro cambiava. Non modelli reali in carne ed ossa, ma un libro. Da leggere, da interpretare, da calare nella realtà della quotidianità e rutinarietà di un insegnamento, che fin dal principio tendevo a interpretare come strumento, mezzo per dare risposte, non demagogiche ma reali, a quell’infanzia "reietta e abbandonata" che il Signore mi aveva messo davanti, quasi a ricordarmi che il periodo delle "castagne" era finito, che cominciava quello ben più importante delle responsabilità.

Lessi e rilessi, due, tre volte quel libro. Non vi trovai le regolette pratiche che a quel tempo, erroneamente, cercavo. Vi scoprii cose ben più importanti, le ragioni del mio impegno professionale: servire gli ultimi, gli emarginati, gli "ignoranti", quelli che la scuola rifiutava, bocciava, allontanava, escludeva.

Fu così che il priore entrò prepotentemente nella mia vita, non solo professionale.

A ventiquattro anni da quell’incontro, don Lorenzo rimane, ancora oggi, in una società e in una cultura così diverse da quelle in cui operò, la stella polare, il maestro che guida e orienta, che alimenta, che rinnova l’amore per la scuola, il difensore dei diritti inalienabili di ogni bambino.

Ci ha insegnato che la scuola è, e deve essere, strumento di "mediazione collettiva dell’amore", che il suo fine non è preparare le classi dirigenti del paese ma colmare il divario tra le sue finalità formali che sono, lo ricordiamo, dare cittadinanza e dignità a tutti, nessuno escluso, elevandone istruzione e cultura e le sue finalità reali.

Don Milani ci ha trasmesso che alla base di ogni azione che pretenda di essere educativa c’è l’amore per il bambino, il rispetto della sua dignità di persona, c’è il coinvolgimento e la "scelta". Ci ha insegnato la libertà, ci ha dato la consapevolezza che la vera cultura non è quella che si trasmette ma quella che la coscienza produce.

Don Lorenzo mirava a costruirla questa coscienza, come prodotto finale di un’educazione che deve mirare all’acquisizione degli strumenti logico-concettuali che rinforzano abilità che egli riteneva essenziali come il pensiero critico, ciò che egli chiamava "ragionare con la propria testa", perché senza queste ogni assenso di fede è mito, superstizione, formalismo, abitudine.

Ma ragionare con la propria testa non era per il priore un vuoto tecnicismo, puro esercizio metodologico. E’ invece, l’insieme di conoscenze, ragione e valori morali, i soli presupposti su cui può fondarsi una risposta libera e cosciente alla chiamata di fede.

Oggi nasce questo libro. E nasce dal bisogno di esternare un amore filiale per il maestro che esercitò "la sua paternità sacerdotale", come felicemente la chiama Liana Fiorani, certamente sui suoi allievi di ieri, ma la estende, da sempre, ai tanti allievi disseminati nelle tante barbiane del mondo, educatori cattolici e no, che sentono don Lorenzo Milani maestro di fede, di riscatto, di libertà e di solidarietà, esercitare una decisiva influenza sul modo di essere e di vivere l’insegnamento.

Sono passati più di trent’anni dal quel 26 giugno del 1967 in cui il priore di Barbiana, vinto dal suo incurabile male, lasciò la vita terrena.

La figura e l’eredità di don Lorenzo sono oggetto, ancora oggi, di accese dispute.

L’odio viscerale della destra per questo prete che aveva osato sfidare la tradizione è già noto.

La sinistra, che negli anni della sua martoriata esistenza lo osannò, facendone il simbolo della riscossa dei poveri, nel trentennio della sua morte ha manifestato un atteggiamento ambivalente: oscillante tra tentazioni di annessione (la visita del segretario dei D.S. Walter Veltroni a Barbiana) e rifiuto (si trattava pur sempre di un prete).

La Chiesa, quella stessa che lo mise ai margini, ora finalmente ne scopre la natura profetica, con tanti singoli pronunciamenti, fra gli ultimi un articolo sull’Osservatore Romano nel giugno del 1997 e le interviste più recenti su Famiglia Cristiana

 

Ormai lontani dal clima incandescente della fine degli anni ’60, caratterizzato dallo scontro ideologico e politico fra le due culture egemoni, quella cattolica e quella marxista, si può tentare, oggi, una lettura del pensiero e dell’opera milaniani con maggiore obiettività.

In quegli anni fu fatta una lettura in chiave essenzialmente socio-politica che presentò il priore come "il prete rosso", il "contestatore" "il rivoluzionario" e il suo scritto più famoso, Lettera a una professoressa, come il "libretto rosso" del ’68 italiano, definizione che dobbiamo all’attuale ministro alla pubblica istruzione Tullio De Mauro congiuntamente al noto pedagogista di scuola marxista Lucio Lombardo Radice.

Dalla cultura marxista, priva di una dottrina pedagogica sistematica ed organica, e per questo molto attenta a cogliere tutte le occasioni possibili per un’elaborazione dottrinale e teoretica di prassi educative coerenti con i nuclei tematici di pensiero pedagogico engelsiani e marxiani, furono messi in evidenza gli aspetti che più si presentavano funzionali al suo disegno di egemonia sulla società italiana: la denuncia anti-borghese del sistema di sfruttamento e di oppressione delle classi lavoratrici, la critica alla funzione di classe svolta dalla scuola, il disvelamento dei meccanismi di selezione, le istanze pacifiste, il tutto disgiunto dalle motivazioni cristiane da cui profondamente sgorgavano.

La tesi di questo libro è che quella lettura, che non a caso misconobbe l’opera prima di don Milani Esperienze pastorali, fu interessata e di parte.

Il pensiero e la prassi educativa di don Lorenzo Milani, infatti, non possono essere ridotti alla sola pars destruens, alla categoria della pura e semplice contestazione. V’è nel suo pensiero una pars costruens che può essere desunta da una lettura comparata dei suoi scritti più famosi: Lettera a una professoressa e L’obbedienza non è più una virtù, con la sua opera prima Esperienze pastorali, la sola che può fornire le coordinate umane, culturali, ma soprattutto religiose, senza le quali ogni pretesa di comprendere il Milani prete-maestro risulterebbe del tutto fuorviante.

La stessa collocazione del pensiero pedagogico milaniano nella storia della pedagogia andrebbe rivista.

Alle indiscutibili istanze sociali e libertarie riteniamo vada aggiunta una dimensione teoretica spiritualistica o più precisamente personalistica, che don Milani espresse certamente sul piano della prassi educativa concreta, che fa del priore di Barbiana, a pieno titolo, un autorevolissimo rappresentante del personalismo cattolico contemporaneo.

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