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L'ufficiale avolese Francesco Giangreco
che scoprì Ungaretti sul Carso
di Gianpiero Chirico

UngarettiInizia sul Carso messo a ferro e fuoco, l'avventura dell'uomo di penna naufragato nel «porto sepolto»; l'amicizia tra un poeta da scoprire e unvvvv generale pigmalione si apre su un'età, quella della Grande Guerra del 1915-'18, che segna la nascita alla poesia di Ungaretti, soldato di trincea, assegnato al fronte, nella brigata Brescia, 19º reggimento, compagnia comandata dal tenente Francesco Giangreco, siciliano.

Giangreco è un ufficiale inflessibile e un uomo incline alla cultura: sin dal primo momento capisce che quel giovane è diverso dagli altri. Tutto inizia quando un suo sottufficiale ritiene opportuno riferire su alcuni episodi che si ripetono con una certa frequenza. Racconta di un soldato assente e assorto che più di una volta ha attirato le schioppettate austriache a causa della sua mania di accendere un fiammifero o una lampada tascabile per annotare misteriose parole su fogli di carta.

La storia la racconta Antonio Brancaforte, già docente di filosofia all'Università di Catania, (IBN), che ha raccolto la testimonianza del generale Giangreco, suo suocero, prima che morisse.

Il tenente Giangreco incuriosito dal foglio matricolare del ventisettenne soldato dalle origini italoegiziane e formazione francese, lo fa chiamare e ne rileva l'intelligenza: il fante Ungaretti parla «impulsi incoercibili. a fissare immagini affioranti da oscure profondità». Ungaretti rischia la corte marziale e la fucilazione: i commilitoni del poeta lo credono una spia per l'atteggiamento, per il suo silenzio, per la sua diversità.

Il tenente decide di non farlo processare per spionaggio, così come segnalato dai subalterni.

È l'inizio di un'amicizia e di uno scambio di idee. il tenente ha trovato un interlocutore, anche se non capisce la poesia rivoluzionaria dell'allora sconosciuto Ungaretti, il quale ha solo pubblicato qualche lirica sulla rivista fiorentina «Lacerba», spregiudicata e combattiva, che sulla testata riporta un verso programmatico di Cecco d'Ascoli: «Qui non si canta al mondo delle rane».

Giangreco prende anche la decisione di toglierlo dalla trincea e lo assegna ai servizi nelle retrovie, dove può svolgere solo mansioni d'ufficio. Questo non impedisce, comunque, ad Ungaretti di partecipare, quando è proprio necessario, ad azioni di guerra, ma gli concede il tempo per coltivare i propri interessi.

Il giovane può adesso accendere tutte le luci che vuole e scrivere lontano dalla trincea.

Senza rendersene conto l’ufficiale aveva predisposto quelle condizioni ottimali per favorire la nascita di un poeta.

Giangreco confidò anche di essere stato il primo ad ascoltare la stesura di «Stasera». Al fronte, nelle gelide notti del Carso, Ungaretti leggeva e il tenente ascoltava: «Balaustra di brezza per appoggiare la mia malinconia stasera», ma versione che sarebbe diventata altrimenti: «Balaustra di brezza per appoggiare stasera la mia malinconia».

I versi ascoltati dal tenente vengono pubblicati in una plaquette di ottanta copie a cura di un altro amico letterato e militare per caso, Ettore Serra, dal titolo emblematico di «Il porto sepolto» del 1916: fu lo stesso Giangreco a far incontrare i due.

Tomba GiangrecoUngaretti ha conosciuto diversi scrittori che lo hanno educato al gusto per l'avanguardia, come Mallarmé, Laforgue, Apollinaire, Fort, Léger, Soffici, Papini, Prezzolini, Braque e Serra. Ma è Giangreco, sconosciuto ufficiale di fanteria, silenziosa figura di amico, a incoraggiare il poeta: semplicemente levandogli la baionetta e mettendogli nelle mani la penna. Ha capito forse prima di tutti qual è la natura che anima l'uomo Ungaretti. Che infischiandosene della guerra e delle fucilate, sentiva di dover accendere fiammiferi, come scriverà nella «Vita d’uomo» edita da Mondadori nel 1974.

Quale influenza ebbe il Giangreco su Ungaretti? La risposta è nelle stesse confessioni di Ungaretti. «Sono nato poeta in trincea». In guerra dice di «aver trovato il linguaggio: poche parole piene di significato che dessero la mia situazione di quel momento. Quest'uomo solo in mezzo ad altri uomini soli, in un paese nudo, terribile, di pietra, e che sentivano, tutti questi uomini, ciascuno singolarmente la propria fragilità».

Del carteggio Giangreco-Ungaretti non rimangono che due lettere; una del 1942, l'altra del 1963. La prima è una risposta a una lettera di felicitazioni per la nomina a membro della Reale Accademia d’Italia. La seconda è invece lo stanco rifiuto del poeta all'invito di recarsi nuovamente sul Carso.

Forse senza quell'uomo il poeta avrebbe avuto maggiori probabilità di morire nella roulette della guerra.

(in La Stampa, Tuttolibri 13.3.'04)

*Nelle foto in alto Giuseppe Ungaretti e i luoghi del Carso.
Nella foto a colori in coda all'articolo la tomba del gen. Francesco Giangreco, morto nel 1980 (Cimitero di S. Martino del Carso). Siciliano di Avola (Sr), il generale Giangreco ha voluto essere inumato sul San Michele, dove aveva combattuto da giovane.

LA SICILIA

 

fotoUN SOLDATO D'ALTRI TEMPI

DI ANTONIO BRANCAFORTE (1978)

Il generale Francesco Giangreco nacque nel 1891 ad Avola. Ufficiale di complemento, richiamato per mobilitazione nel maggio 1915, combatté nel 19mo Reggimento Fanteria, Brigata "Brescia", prendendo parte a tutte le battaglie dell'Isonzo. Da tenente al Comando di compagnia, durante la battaglia di Gorizia, fu tra i tre conquistatori del Monte San Michele del Carso. Sul fronte francese, nel 1918, combatté nelle Argonne, a Bligny e sulla Marna. Più volte decorato al valor militare. Trasferito nel servizio attivo per merito di guerra, alla fine del primo conflitto mondiale era capitano da due anni.
Dopo un breve servizio in Libia, frequentò la Scuola di Guerra in Torino. Nel 1925 fu l'unico vincitore del concorso per la promozione a maggiore per scelta eccezionale. Tra i vari incarichi, svolse per sei anni quello di insegnante di Arte e Storia Militare nell' Accademia della Regia Guardia di Finanza. Da tenente colonnello comandò un battaglione dell'88mo Fanteria. Prestò anche servizio presso l'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito. Da colonnello comandò il 20mo Reggimento Fanteria, la Scuola Militare di Roma e la Scuola Allievi Ufficiali di Fano. Generale nel 1942, fu destinato alla Divisione "Zara", in Dalmazia, e comandò il settore Spalato, Traù e quello di Knin, ove ebbe alle sue dipendenze anche i "cetnici del Dinara".
Qui venne colto di sorpresa dalla crisi dell'8 settembre 1943. Mentre i rappresentanti del Comando Supremo italiano ritenevano di condurre le trattative dell'armistizio con gli angloamericani nella massima segretezza, i tedeschi - come la storiografia ha accertato - erano al corrente di tutto e predisponevano adeguate contromisure con accortezza e precisione.
Pochi giorni prima dell'8 settembre il generale Giangreco, informato tempestivamente di un inspiegabile movimento di truppe corazzate tedesche in direzione di Knin, chiede insistentemente ordini al Comando Superiore di Zara e a quello di Fiume. Finalmente riesce ad ottenere quest'ordine, la cui logicità si commenta da sé: "Se chiedono di passare con le buone, lasciateli passare. Se fanno ricorso alla forza, opponetevi con la forza, evitando spargimento di sangue".
Il generale Giangreco, che aveva appreso con ritardo ormai irrevocabile la notizia dell'armistizio dalla radio croata, venne invitato dai tedeschi con le lusinghe e con le minacce ad allearsi con loro per combattere le truppe di Tito. Avendo opposto un deciso rifiuto, fu arrestato. Ebbe appena il tempo di impartire agli ufficiali l'ordine di non consegnare i fucili senza prima aver gettato gli otturatori nel fiume. Reo di "aver svolto azione contraria agli interessi del Reich", dal settembre 1943 al settembre 1944 fu internato nel Lager 64Z di Schokken (attuale Skoki) in Polonia. Successivamente venne trasferito a Posen nelle carceri delle SS e finalmente per sei mesi nel campo di sterminio di Flossenburg.
Riuscì a sopravvivere agli stenti ed alle sofferenze, di cui parla nel memoriale, sfuggendo infine in maniera avventurosa alla sorveglianza delle SS.
Nel giugno 1945 costituì e comandò per primo il Comando di Fanteria della Sicilia a Palermo. Due anni dopo fu collocato in Ausiliaria: l'Italia "democratica" del dopoguerra, ovviamente, non aveva più bisogno di uomini come il generale Francesco Giangreco.
L'8 ottobre 1980 il Generale Giangreco morì a Catania.

Alle vicende del generale Giangreco hanno dedicato attenzione vari storici e saggisti del nostro tempo. Si possono utilmente consultare:
E. Museo: “La verità sull'8 settembre”, Garzanti - Milano, 1965 – pag. 165. A. Jacobucci: Neve Rossa a Shelkow - SEI - Torino, 1963.
R. Zangrandi: “1943. 25 luglio - 8 settembre”, Feltrinelli, 1964 – pagg. 578-979.

 

I fanti ricordano il generale Giangreco
MESSAGGERO VENETO 30 maggio 2005
pagina 09 sezione: Gorizia

SAGRADO. Soddisfazione per la riuscita di una serie di manifestazioni è stata espressa dall’Associazione nazionale del fante, sezione mandamentale di Gradisca d’Isonzo e Mariano del Friuli, che in occasione del 24 maggio, festa dell’arma della fanteria, ha organizzato una mostra documentale - fotografica relativa agli eventi bellici del 1915 e un percorso storico - letterario principalmente dedicato a Ungaretti e alla guerra.
La mostra è stata allestita nei locali dell’ex scuola materna della frazione sagradina di San Martino del Carso, via Bosco Cappuccio 8.
L’inaugurazione è avvenuta la mattina del 21 maggio scorso. L’esposizione è rimasta aperta al pubblico proprio fino al 24 maggio, con orario continuato (9.30-18.30) e con l’ingresso libero e gratuito. L’iniziativa ha registrato un notevole afflusso di visitatori, superiore alle stesse aspettative degli organizzatori.
Domenica 22 maggio, dopo la messa in suffragio ai caduti, nel locale cimitero di San Martino Carso sono stati resi gli onori ai caduti ed è stato deposto un omaggio floreale sulla tomba del pluridecorato (due medaglie al valore militare e una di bronzo) generale Francesco Giangreco, deceduto a Catania.
Per disposizione testamentaria, il generale Giangreco ha voluto essere tumulato a San Martino del Carso dove, allora giovane tenente di fanteria del regio esercito, vide molti propri commilitoni cadere.
Alla cerimonia era presente il figlio del generale Giangreco, proveniente per l’occasione dal Lazio, al quale sono state consegnate una targa commemorativa, per conto del generale Soave, consigliere nazionale per il Friuli Venezia Giulia, e una toccante lettera.
Il presidente di sezione, a nome di tutti i soci del gruppo gradiscano e marianese, si è impegnato di accudire la tomba e ripetere ogni anno questa significativa cerimonia, resa più austera per la presenza di numerosi labari e bandiere delle associazioni combattentistiche e d’arma della Provincia di Gorizia e da una squillante tromba, con le toccanti note del “Silenzio”.
Il presidente della sezione gradiscana e marianese dell’Associazione nazionale del fante ha voluto ringraziare gli intervenuti alla cerimonia, i collaboratori e quanti hanno sostenuto l’iniziativa, fra i quali i Comuni di Sagrado, Gradisca d’Isonzo e Mariano del Friuli per avere concesso il loro patrocinio.

L'8 SETTEMBRE 1943 DEL GENERALE FRANCESCO GIANGRECO

Il giornalista Domenico Bartoli, già corrispondente di guerra in Africa settentrionale nel 1941-42 e poi di “La Stampa” e del “Corriere della Sera” aveva interesse a ricostruire alcuni aspetti dell’8 settembre 1943. Gli venne consigliato dal generale Musco di contattare il generale avolese in pensione Francesco Giangreco, definito “come uno dei pochi superstiti del campo di concentramento di Flossenbürg e vicino di cella dell’ammiraglio Canaris” e così fece Bartoli, che il 17 agosto del 1963 gli scrisse da Roma.
Il giornalista chiese al Giangreco:

floss.Potrebbe avere la cortesia di farmi sapere 1) In quali circostanze venne catturato e per quali ragioni fu condannato a questo trattamento così duro, mentre la maggior parte degli ufficiali e delle truppe fu confinata in campi di prigionia presso a poco normali? 2) Com’è riuscito a sopravvivere a quella ingiusta e inumana prigionia? E naturalmente mi sarà preziosa ogni altra notizia che lei creda opportuno farmi sapere su questo tragico avvenimento.
Il generale in quel mese di agosto del 1967 si trovava ad Avola e così gli rispose:
campoIllustre Bartoli, nel 1945 poco dopo il mio ritorno dall’internamento in Germania, un mio amico ora morto (il col. Adabbo) mi chiese le notizie che Ella mi chiede, per conto di tal prof. Pace che doveva curare una pubblicazione in materia. Scrissi un fascicolo abbastanza particolareggiato che commosse il caro Adabbo e che avrebbe potuto essere materia di un libro.
… La vita nel "Konzentrationslager" di Flossenbürg era vita di terrore; e fra gli ospiti di esso regnava profonda diffidenza , anche perché non mancavano gli agenti provocatori (un giorno un internato tedesco – un ergastolano che aveva ucciso i genitori – mi chiese se, “insomma”, io fossi per Mussolini e il Fascismo oppure per Badoglio e la Monarchia. Ed io me la cavai salomonicamente rispondendo: «Sono contro Mussolini, perché ha fatto una guerra che non ha saputo preparare; contro Badoglio, perché ha fatto una pace che non ha saputo preparare; e contro il re, che ha consentito l’una e l’altra cosa». Non ero vicino di cella dell’ammiraglio Canaris, per il semplice fatto che, come per la quasi totalità degli internati, stavo in uno di quei “block” che – destinati a contenere 150 galeotti in tempo di pace – ospitavano poi 1000 e più internati politici.
Della presenza e della fine di fine di Canaris (strozzato con le mani dalle SS) si sentì sussurrare più tardi, con gran mistero e circospezione, così come tempo prima si era sussurrato che era stato sgombrato il postribolo destinato alle SS, per alloggiarvi – per qualche giorno – re Leopoldo dei Belgi e alcuni suoi familiari.

Il 5 settembre 1943 comandavo il "Settore Knin" (la veneta Tenin) a 100 km da Zara, verso il Dinara. Vi comandavo un "assortimento" di truppe italiana e un battaglione di "Domobrani" croati (che però potevo impegare solo in operazioni fuori del Settore), oltre ad una sedicente "Divisione del Dinara", agglomerato di volontari (Cetnici) serbi e montenegrini comandati dal "Pope Juic", che stavano fuori dalle mura e che erano nemici inconciliabili dei Titini e dei Croati, oltre che dei Tedeschi. A completare il quadro "balcanico", aggiungo che i Cetnici prendevano anche ordini da... Londra, dove risiedeva il loro generale Mihailovic, fatto impiccare poi – com'è noto – da Tito.
Dagli informatori cetnici appresi che unità germaniche scendevano da nord (Zagabria?) verso Knin, unico punto obbligato di passaggio verso sud attraverso il fiume Krka. Chiesi direttive al Comando del Corpo d'Armata di Zara (gen. Spigo) sul contegno da tenere qualora i Tedeschi chiedessero di attraversare Knin. Mi fu risposto (sgranai bene gli occhi) quasi testualmente così: "Farli passare, se lo chiedono con le buone maniere; in caso contrario, rispondere alla forza con la forza, EVITANDO SPARGIMENTO DI SANGUE".
Io, che già da molti anni mi dilettavo di enigmistica, pensai che neanche Edipo avrebbe saputo risolvere quel rompicapo. Ma è storico!
Il giorno 6 le truppe germaniche (Una Divisione "Cacciatori", mi disse il suo comandante) attraversarono Knin diretta, ufficialmente, a Drvar per – dicevano – presidiare quelle miniere di bauxite. In realtà si mantennero in buona parte vicine a Knin, mentre una considerevole aliquota – col consenso del nostro Corpo d'armata – era andata a piazzarsi nell'aeroporto di Zemonico, del vecchio campo trincerato di Zara.
L'8 sera appresi, dalla radio croata (Knin era sede di Prefettura del cosiddetto Stato Libero di Croazia) che l'Italia aveva firmato l'armistizio. Incredulo e stupito, chiesi chiarimenti al C. d'A. di Zara, per ponte radio. Mi si rispose che non ne sapevano nulla e che avrebbero chiesto notizie al Comando della 2ª Armata (che però sembra si fosse già "squagliata"). Chiesi peraltro – se la notizia fosse confermata – l'autorizzazione a sgombrare la notte stessa Knin, frapponendo il Krka tra me e i Tedeschi, a raccogliere i piccoli presidi sparsi in funzione antititina e concentrare le forze nel campo trincerato di Zara. Mi fu risposto di non prendere iniziative senza gli ordine dell'Armata.
...
Il mattino del 9, dinanzi le nostre postazioni verso Drvar si presentò un gruppo di ufficiali germanici, chiedendo di conferire con me; autorizzai per telefono l'ufficiale che comandava il nostro posto a farli proseguire. Come si siano svolti i fatti da questo momento in poi, non mi è stato possibile ricostruire esattamente
...
Ammetto di essere stato sorpreso dagli eventi, ma è evidente che sono stato soprattutto tradito: e più dall'alto che dal basso. È arcinoto l'assoluto segreto in cui Badoglio avvolse l'operazione di "sganciamento" dai Tedeschi. Questo segreto fu reso, dalla paura sua e dei Comandanti più elevati, tanto, tanto ermetico da nascondere la notizia dell'armistizio ai comandanti più esposti, anche se Generali, come nel caso mio, mentre è chiaro – anchl'e solo da quanto ho sopra esposto – che i Tedeschi ne erano già edotti: e anche solo per questo messi in condizione di superiorità.
Dopo qualche giorno, assieme al generale Paolo Grimaldi (portato a Knin da Sebenico, dove era stato catturato), fui trasferito in Germania e poi nella località di Schokken (Posnania), dove erano stati concentrati circa 200 generali italiani prigionieri, fra i quali i generali d'armata Geloso e Gariboldi, e alcuni ammiragli (tra questi ultimi, gli ammiragli Campioni e Nascherpa, fucilati poi a Verona).
Da alcune "voci" incontrollabili sembra che Grimaldi ed io avremmo dovuto essere fucilati a Spalato, assieme ai generali Pelligra e Cigala Fulgosi e ad una cinquantina di altri ufficiali superiori; ma l'ordine, proveniente da Himmler, sarebbe arrivato laggiù dopo il nostro "smistamento" sulla Posnania. Secondo tali voci, raccolte poi a Flossenbürg, la prigionieripratica relativa a Grimaldi e a me sarebbe dispersa in un bombardamento della Centrale di Polizia di Berlino e ricostruita dopo circa un anno, quando la situazione politico-militare tedesca era diventata disperata. Ciò spiegherebbe perché solo dopo un anno di "internameno" con gli altri generali italiani a Schokken e trasferiti in stato di arresto a Posen (fine settembre 1944) in celle separate – privati della qualifica di "militari" e assegnati a quella di "detenuti politici" – fummo trasferiti nelle carceri di Polizia di Berlino e successivamente (sempre ammanettati e promiscuamente con delinquenti comuni) in altre carceri – Lipsia, Halle, Hof, ecc... e infine a quelle di Widen – finché il 5 novembre fummo internati nel "Konzenntrationlager" di Flossenbürg.
Rinunzio a descrivere gli orrori di quel campo, simili – del resto – a quelli descritti da tanti altri. Le dirò solo delle prime ore.
Arrivati di sera tardi in 64 (di cui solo noi due italiani), fummo introdotti nei locali delle caldaie della lavanderia del campo e poi, finito il coprifuoco alle 4 del mattino, in un grande locale adibito a docce, dove fummo denudati, tosati e rasati per tutto il corpo e, mentre le grandi finestre erano aperte e fuori nevicava, sottoposti a getti d'acqua alternativamente calda e fredda. Alle ore 10, quando questo supplizio ebbe termine, eravamo ridotti a 30: Più della metà erano morti di collasso cardiaco. Continuavano le scudisciate che gli aguzzini infliggevano a quelli che si stringevano gli uni agli altri cercando di scaldarsi come pecore allo stazzo.

Orribile e incredibile: quegli aguzzini erano anch'essi internati come noi (quasi tutti russi e polacchi) che si prestavano alla parte di manigoldo per entrare nelle grazie delle SS e averne per sé un trattamento meno disumano.
Per il resto, fame, percosse, freddo e durissime fatiche spiegano l'enorme mortalità (sembra superiore al 95%). Su circa 12.000 internati, gli Italiani erano 300 o poco più. I vuoti venivano periodicamente colmati con nuovi contingenti provenienti dai rastrellamenti eseguiti nelle vie e dai prelevamenti nelle carceri dei Paesi occupati.
Come siamo sopravvissuti Grimaldi ed io, non so dirlo. Certo, ci ha sostenuto molto il morale e la "volontà" di tornare. La mortalità era palesemente maggiore tra i giovani (c'erano due "blocks" destinati a bambini e ragazzi fino ai 14-15 anni, quasi tutti ebrei), forse perché maggiormente bisognosi, trovandosi nell'età dello sviluppo.
...
pietreGrimaldi e io, dopo un paio di settimane di lavoro in una cava di pietre, eravamo stati adibiti a... ricavare pezze da rattoppo dagli stracci ritirati ai morti. Il lavoro si svolgeva in un magazzino che conteneva il vestiario in ottime condizioni sottratto agli internati a mano a mano che arrivavano. Qualche volta mi riuscì di "rubare" qualche capo di pregio, trafugandolo sotto i cenci di cui ero vestito, col pericolo – se scoperto – di essere impiccato la sera stessa. Lo passavo ad un tale Minnalà, siracusano e ancora vivente, il quale – poiché lavorava fuori del campo – riusciva a barattare la roba con qualche patata. Beninteso, anch'egli correva il rischio d'essere impiccato immediatamente. Malgrado codesti "arrangiamenti", all'atto della liberazione (avvenuta in modo romanzesco, che meriterebbe più ampio racconto) Grimaldi e io eravamo ridotti intorno a 46 chili di peso.
Da parecchi anni non mi tornano in sogno scene di quella vita da incubo. Ma se padre Dante ne avesse avuto sentore, avrebbe aggiunta al suo "Inferno" un'altra bolgia, certo la più feroce, non fosse che per il fatto che era abitata da innocenti...

Francesco Giangreco

Giangreco
Francesco Giangreco decorato di:

Cavaliere della Corona d'Italia
n. 2 medaglie d'argento al VM
n. 1 Croce al VM
Croce al merito di guerra
Campagna di Libia
Croce per anzianità di servizio
Guerra Italo-Austriaca 1915-16-17-18
Interalleata della vittoria
Unità d'Italia 1918

FOTO DI MARIA ANTONIA FORTE

sagradofoto

fotofoto

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25 APRILE 2014
AVOLA RICORDA L'8 SETTEMBRE
DEL GENERALE GIANGRECO

L'8 SETTEMBRE 1943 DEL GENERALE FRANCESCO GIANGRECO
nell'intervento di Francesco Urso, coordinatore di "Avola in laboratorio"

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