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Martedì, 31 Gennaio 2012 14:47 IP: 93-46-47-81.ip106.fastwebnet.it Scrivi un commento Invia una E-mail

Salvatrice Catinello
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
a cura di Roberta Malignaggi
2011, 8°, pp. 128
Euro 14,00
Collana OPERA PRIMA n. 27
ISBN 978-88-96071-48-9


Ho letto il libro “Come potrò dire a mia madre che ho paura?” a cura di Roberta Malignaggi, edito dalla Libreria editrice Ciccio Urso di Avola, che narra la tragica vicenda personale e familiare di Claudio Macca, un ragazzo avolese tossicodipendente, morto nel 2010 di un male incurabile in conseguenza dell’uso di eroina. La storia è raccontata dalla madre di Claudio, signora Salvatrice Catinello, direttamente alla curatrice, la quale, al fine di metterla insieme secondo un registro narrativo, non si è negata la lettura delle lettere che Claudio mandava dal carcere alla madre, né l’ha preoccupata lo studio della documentazione che ha riguardato il giovane avolese nei suoi trascorsi giudiziari. Il libro si fa leggere tutto d’un fiato, cosa che ho fatto una delle trascorse sere fino alle due di notte. Il merito va ascritto, ovviamente, alla curatrice Roberta Malignaggi.
La lettura del libro mi ha suscitato alcune considerazioni che mi sembra doveroso mettere per iscritto. Anzitutto mi ha colpito la determinazione e la caparbietà di una madre che non ha mai smesso, neanche di fronte alle impossibilità, di lottare per cercare di recuperare il figlio, giungendo addirittura a denunciarlo e, quindi, a farlo trarre in arresto a causa di un furto e di alcune percosse in suo danno: sperava la signora che in carcere egli almeno non si sarebbe drogato. Alla signora Salvatrice Catinello va tutta la mia solidarietà per quanto la vita le ha riservato.
Il fenomeno della tossicodipendenza è concepito dalla società in modo banale ed è, pertanto, in altrettanto modo affrontato. Si è soliti pensare al drogato come ad un malato, mentre si trascura di considerarlo da un punto di vista esistenziale. In tutti i tossicodipendenti che ho avuto modo di incontrare, anche in ragione della mia professione, ho scorto in loro, nei loro sguardi in particolare, un senso di profondo smarrimento, una paura, e credo che quella paura sia addebitabile ad una sostanziale paura di vivere, di affrontare la vacuità della vita. Solitamente il tossicodipendente viene, invece, eluso, scansato e, dunque, emarginato. Ci si interroga poco o per niente sui motivi del drogarsi e siamo portati a giudicare secondo schemi, pregiudizi, dogmi, trascurando di ragionare partendo da una dimensione che vada oltre il tossicodipendente. Ma si sa che porsi in una dimensione meta-tossicodipendente, occorre una flessibilità di vedute, scevre da pregiudizi di sorta. E si sa anche che staccarsi dai dogmi è cosa assai ardua. La nostra forma mentis è strutturata in modo tale che qualsiasi fenomeno, prendiamo a studiarlo soggettivamente, a partire da ciò che ci appare davanti, senza curarci delle condizioni che hanno dato luogo a quel fenomeno. L’osservato e l’osservatore: chi dei due dice la verità?
Per capire il tossicodipendente occorre una rivoluzione copernicana: non bisogna osservare il drogato, ma sforzarsi di capire quali siano le condizioni che lo creano. E le condizioni sono sotto gli occhi di tutti, basterebbe osservarle: una società individualista, incapace di “curarsi” delle persone bisognose; una società assente riguardo gli emarginati; una società senza coscienza civica; una società in cui a vincere sono solo coloro che vengono rappresentati da rapporti di forza superiori; una società in cui le leggi di mercato ordinano la vita di ognuno senza che l’individuo possa avere la facoltà di decidere secondo le sue aspirazioni, la sua cultura, i suoi bisogni; una società in cui ormai neanche più il diritto riesce a regolamentare. In un modello sociale di tal fatta l’individuo più sensibile vive male, egli non sa come sfuggirgli, e cerca vie d’uscita. Va bene quando le trova, e qualcuno con un po’ di fortuna le trova; altri no. Pur cercandole in tutti i modi.
Credo, contrariamente al senso comune, che il tossicodipendente sia una persona che scopre improvvisamente una sorta di male di vivere dal quale non riesce a fuggire; non riesce, come direbbero gli analisti, a sublimare o a rimuovere, ché la sublimazione o la rimozione gli darebbe la garanzia di una vita “normale”; lui cerca una via d’uscita dalla verità esistenziale, troppo vera e troppo angosciante da accettare, una via che il poeta troverebbe nella poesia, l’artista nell’opera d’arte; il tossicodipendente la trova nell’eroina. Egli colma il suo vuoto riempiendosi di dosi. Il tossicodipendente si fa contenitore per riempire il suo vuoto.
Tra il drogato ed il poeta non vedo nessuna differenza, anzi vi scorgo una sostanziale continuità di pensiero, sebbene con modalità diverse. E mi viene in mente Baudelaire con la sua opera I fiori del male, metafora che il poeta usa per descrivere il suo fuggire dall’angoscia di vivere rifugiandosi nell’alcool e nella droga.
Oltre al problema della tossicodipendenza il libro pone all’attenzione della nostra coscienza di cittadini quello delle carceri, esperienza che Claudio Macca ha purtroppo maturato più di una volta. Il Ministro di Grazia Giustizia Paola Severino, nei giorni scorsi, dopo le visite presso alcuni penitenziari del nostro Paese, ha definito il carcere un luogo di tortura. Lo stesso ministro, nella sua prolusione pronunciata presso la Corte d’Appello di Catania, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha affermato che “dalle situazioni delle carceri si misura il livello di civiltà di un paese” e che “lo Stato non ripaga mai con la vendetta, ma vince con il diritto e l’applicazione scrupolosa di regole e legge”. Secondo l’ordinamento giuridico italiano, e precisamente in virtù dell’art. 27 della Costituzione, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una breve e sommaria esegesi della norma porta subito a considerare che il senso di umanità non può che consistere in quelle possibilità nelle quali l’essere umano possa trovare la sua totale realizzazione come persona. È ovvio, dunque, che una prima caratteristica estrinsecativa di questo senso non può che essere la necessaria condizione di libertà. Sia chiaro: non intendo dire che colui il quale commette reati debba rimanere impunito. Come dico che è giusto che il delinquente sconti la sua pena per i reati arrecati. Ma dico anche e semplicemente che la galera, vista come pena capace sia di risarcire il danno arrecato dal reato sia di rieducare il soggetto, ha pienamente fallito. E devo dire che anche in questo caso si evita di affrontare nel giusto modo il fenomeno, preferendo guardare il carcerato in quanto tale, piuttosto che le motivazioni che lo hanno indotto a diventare tale. Trascuro qui di considerarle in modo approfondito, perché le ritengo in linea di massima, fatte salve alcune specifiche eccezioni, tutte riconducibili a questioni di natura culturale ed economica; culturale perché, come i sistemi criminali insegnano, c’è una avversità ad accettare la presenza dello Stato quale unico soggetto detentore della forza, là dove per forza non dobbiamo intendere solo ed esclusivamente l’uso fisico di essa, quanto piuttosto la possibilità di applicare le regole del diritto, munite di sanzione: la mafia ha le sue di regole e per essa bastano e avanzano; economica perché, ed in questo caso è l’analisi marxiana ad insegnare, le condizioni di vita di ciascuno di noi sono dettate da fattori esogeni dalla volontà del soggetto e sono determinate sostanzialmente da lotterie economiche delle quali la persona non possiede il controllo.
Sembra emergere oggi una coscienza nuova attorno al fenomeno carcerario, una coscienza che proviene anzitutto dalle istituzioni che a quanto pare sembra abbiano assunto consapevolezza della drammaticità del problema. Mi preoccupa, tuttavia, il fatto che si tenti, come sempre, di affrontarlo con espedienti di contingenza, quali scarcerazioni facili, amnistie, detenzione domiciliare e quant’altro, e mai attraverso un proposta che prenda in esame, in modo coraggioso, la possibilità di un cambio culturale che si ponga l’obiettivo di creare modi di espiazione della pena diversi dal carcere. Come può un carcerato, che vive per anni insieme ad altri carcerati condannati per reati più o meno gravi, redimersi, interiorizzare le sue responsabilità e, dunque, capire d’aver sbagliato e proporsi un reinserimento nella società? Il più delle volte il carcerato avverte la pena detentiva come conseguenza ingiusta dei reati commessi e molto spesso il carcere, soprattutto quando è alla prima esperienza, diventa una sorta di iniziazione; molti mafiosi e non, dopo qualsiasi periodo di detenzione breve o lungo che sia, plaudano all’esperienza fatta perché ritenuta nel loro ambito culturale altamente formativa per il loro delinquere. È una specie di corso formativo riservato a chi decide di continuare su quella strada.
Chi è dunque il malato? Il tossicodipendente, il carcerato, o la società nel suo complesso di uomini cosiddetti normali, che non s’avvede, o preferisce non avvedersi, ché la verità fa male sentirsela dire?
Ecco allora che, attraverso la pubblicazione della sua tragedia familiare e quella del figlio Claudio, la signora Catinello, sebbene motivata ritengo da un inconsapevole bisogno di rimozione del senso di colpa per non essere riuscita a strappare il figlio alla morte, credo che abbia voluto rivolgere alla collettività un invito alla riflessione sul fenomeno della tossicodipendenza, stimolandoci a guardare oltre, e sul sistema penitenziario, che così concepito e strutturato annulla ogni possibilità di rieducazione del condannato, annientandolo come persona.
Il coraggio di questa madre è rappresentato dalla scelta consapevole di rendere pubblica la sua tormentata e tragica esistenza e quella del figlio tossicodipendente, nella speranza che ciò possa sensibilizzare la comunità nella quale la gente sana, normale e socialmente accettata crede di vivere.
“Come potrò dire a mia madre che ho paura?”
Nella crescita di ogni uomo la presenza della madre è determinante, perché è grazie alla madre che la persona diventa soggetto. È una brutta parola quest’ultima, che non mi piace, sa di tecnico e, quindi, di artificiale. Ma così è. Nel regno animale, sappiamo che il cucciolo appena nato è immediatamente accudito dalla mamma, che lo lecca, gli trasmette con il suo fiato un senso di sicurezza come a dirgli “non ti preoccupare, ci sono qua io, gli sciacalli staranno alla larga”. Il cucciolo appena nato ha paura della vita, perché ancora non la conosce ed anche quando inizierà a conoscerla avvertirà sempre quel senso di insicurezza, di disagio, di paura. Ma ci sarà sempre sua madre a proteggerlo, a difenderlo.

Avola, 29 gennaio 2012

Leonardo Miucci
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