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Leonardo Miucci  |
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PER ''RANDAGI'' DI BENITO MARZIANO
Ho appena terminato di leggere il libro “Randagi” (sei racconti) di Benito Marziano, edito dalla Libreria Editrice Urso, di Avola. Preliminarmente desidero scusarmi con l’autore per non averlo ringraziato d’avermi fatto dono del prezioso volume all’indomani della sua uscita editoriale. Lo faccio ora, affidando a queste righe sia il mio ringraziamento sia il pensiero di ciò che ho dedotto leggendo il libro.
Benito Marziano non è nuovo in questo genere di impresa letteraria, avendo già pubblicato con la medesima casa editrice sue precedenti opere: “Don Agostino Salvìa e altri racconti”; “Juliette cara”; ed altre opere poetiche tra cui “Sisifu” e “Altri anni”.
Come recita il sottotitolo messo in parentesi si tratta di sei racconti che ritengo possano tutti ricondursi attorno ad una tematica che un po’ sprigiona fastidio: gli ultimi. Anch’io, come è stato detto da più parti e per ultimo sulla stampa, voglio, ma solo per il momento, affidarmi al conformismo e, quindi, dirò che in questo libro si parla degli ultimi. Almeno per il momento, come dicevo. Tornerò su questa nota polemica alla fine della mia recensione.
Il primo racconto, dal titolo “Ciccio e Lucia”, parla di due barboni che l’ipocrisia mediatica chiamerebbe clochard. Si tratta di due ubriaconi, marito e moglie, che trascinano la loro esistenza chiedendo elemosina, improvvisando strip per racimolare centesimi da spendere in qualche bettola a bere vino, unico scopo della loro vita. Un tempo erano stati giovani, belli, soprattutto Lucia, ed anche felici; la loro vita è precipitata nel baratro a causa della miseria che li ha costretti a vivere di stenti e, quindi, a darsi al vino. Colpisce in questo racconto l’antiteticità della visione esistenziale: se da un parte l’autore rivela tutto il sospetto marxiano attorno alle vicende umane e dunque la certezza che l’esistenza è determinata dalle condizioni materiali e, pertanto, non v’è via d’uscita dalla sua ineluttabilità; dall’altra, egli fa trasparire, tuttavia e ancora, tutta la speranza di poter cambiare il sistema che avvolge e costringe l’essere umano, che c’è ancora un margine di progettualità heidggeriana dell’esistenza, anche quanto la vita sembra essere lì lì per scivolare via e chiudere la sua partita. L’opera di Marziano, d’altronde, non è nuova alle concezioni di progettualità dell’essere: così anche nel romanzo Juliette cara. Ciccio “si ricordò di quando si erano sposati. Era bella allora. Miseria infame! Se non fossimo nati poveri, sarebbe stata altra cosa la nostra vita. Forse saremmo andati a scuola … saremmo stati felici. Come tanti”. “In quelle brevi pause che il dolore gli concedeva … lo prendeva più forte il desiderio di vivere, di cambiare vita … Tale è la natura umana che, per quanto possa essere triste e vuota la vita, misera, infelice, se è minacciata, ci si attacca disperatamente ad essa e con essa alla speranza che qualcosa possa pur cambiare in meglio”.
Leggendo il secondo racconto, “termini pasqualino detto lino”, mi è sembrato di scorgere ad un tempo un libro di Calvino ed una poesia di Montale. Il personaggio “viaggia”, infatti, con la sua mente tra l’inarrivabile, la solitudine e, per ultimo, la paura. Una paura che si manifesta nel procedere razionale del personaggio: partendo da domande che definiremmo esistenziali, quali sono quelle legate alla solitudine umana, egli perviene a risposte che sembrano più un paravento alla sua paura di vivere; ecco, credo che un tratto distintivo di questo personaggio sia proprio quello della paura, della paura di condividere la sua esistenza. Poi, attraverso una prosa atipica, in quanto non corredata di segni di interpunzione, che ricorda un po’ il grande scrittore e premio Nobel per la letteratura José Saramago, l’autore racconta in una sorta di monologo l’intera esistenza di questo soggetto traendo il pretesto da un fantomatico – o forse vero, ma ciò ha poca importanza – incontro di questi con la celebre attrice Monica Bellucci. Termini pasqualino detto lino si racconta così tutto d’un fiato, senza soluzione di continuità, attraverso mille pensieri che sembrano gettati l’uno dietro l’altro senza sosta, che fanno emergere una sostanziale solitudine rispetto all’accadere del mondo e alla sua indifferenza. La nostalgia del passato per un attimo sembra fare capolino attraverso i ricordi, che ai suoi occhi appaiono tutti brutti, anche quelli che un tempo furono belli.
La considerazione è implicita: i ricordi belli suscitano la nostalgia per i tempi andati che mai più torneranno; i ricordi brutti riaprono ferite che sembravano cicatrizzate. Il rimosso che inesorabilmente riemerge. Una vita consumata tra soggetti tipicamente freudiani: la madre oppressiva; il padre assente; la mancata realizzazione matrimoniale – esistenziale .
La solitudine che emerge dal personaggio ricorda un po’ la poesia di Montale, mentre la sua inarrivibilità un libro di Italo Calvino, “Gli amori difficili”, dove ogni personaggio di quei racconti, nel doversi confrontare con una sua fatica (il soldato nel tentativo di amare una donna; il lettore nel tentativo di leggere un libro, e via dicendo), mai vi riusciva. Rispetto alla fatica era, appunto, inarrivabile. Anche termini pasqualino detto lino è stato lì lì per riuscirci a raggiungere l’obiettivo, ma poi qualcosa o qualcuno ha impedito che ciò accadesse.
Il terzo racconto, Bolero, è – a mio avviso – quello più commovente, più tragico. E qui, mi sia consentita una nota di rimprovero a quanti hanno recensito il libro senza averne fatto cenno.
Racconta la storia di un ragazzo che per caso conosce e si innamora, dopo averla amata, della danzatrice Coruna Diaz.Tutto si esaurisce nel volgere di una sera: si incontrano, lei danzerà solo per lui nello spazio di una stanza, si ameranno; lui le confesserà il suo amore, dopo che le gli ha dato la forza di ribellarsi al padre violento e di liberarsene. Ma. C’è sempre un ma che travolge tutto. C’è sempre il caso che sconfessa il caso. Il ma consiste anzitutto nella differenza di età; lei è già sposata ed ha un figlio della stessa età del ragazzo fattorino e poi la tournée. Si lasceranno. Anzi lei lo lascerà e a lui non rimarrà che una musicassetta con su incisa la musica del Bolero, quella registrata dalla Coruna Diaz proprio quella sera che lei danzò solo per lui, e riascoltarla stando seduto davanti all’ufficio postale con degli stracci addosso, dimentico di tutti e di tutto e rispondendo al saluto sempre e solo con la solita parola: Bolero. “Visse tutta la sua vita in quella sera, gli sembrò di esaudire tutte le cose belle della vita in una serata”. Siamo di fronte ad una storia d’amore autentica e impossibile cui il caso ha voluto che finisse fisicamente ma che la mente umana ha voluto continuasse attraverso una musica, Bolero, che il ragazzo, ormai divenuto vecchio, ascolta ogni giorno, perpetuando così l’amore nei confronti della donna, l’unica donna che avesse mai amato.
Il quarto racconto narra la vicenda di un ragazzo tossicodipendente che in preda ad un’overdose viene ritrovato mezzo morto per strada. Falena, questo il suo soprannome per via della velocità con cui si muove, e Duccio il suo nome. Nel momento di cadere in terra in preda all’overdose, egli ripercorre tutta la sua esistenza in una sorta di flash back ricordano i momenti che lo hanno trascinato nell’eroina. E qui tutto si è verificato per “colpa” del caso: un incontro con una ragazza in discoteca, una serata d’amore che lo porterà alla rovina. Un paradosso soggiace a questa storia: l’amore che conduce alla morte; Eros e Thanatos. Ogni considerazione ulteriore la lascio alla sensibilità dei lettori.
Il quinto racconto, “Caro fratello”, ci racconta la vicenda di un uomo, Paolo il muto, un clochard, che un tempo lavorava alle dipendenze di un ingegnere che lo licenziò in tronco lasciando lui e la sua famiglia in mezzo alla strada. Paolo da allora dimenticò tutto, dimenticò il mondo e si “ritirò” in strada tra gli altri clochard vivendo di stenti. Aveva completamente dimenticato sua moglie e i suoi figli. Non ricordava niente: “non ascoltava nessuno e non parlava, perché non parlava più con nessuno da quel maledetto giorno, da quel maledetto giorno quando aveva dimenticato tutto: di cosa era stata la sua vita prima di allora non sapeva più niente … ciò che ignorava era perché lui vivesse a quel modo … né sapeva chi fosse lui”. L’ingegnere, suo carnefice, capitò che volle lavarsi la coscienza e lui, Paolo il muto, nell’intento lucido di salvaguardare la sua dignità di uomo, rifiutò di accordargli questa possibilità.
Il sesto ed ultimo racconto, “Marocco”, parla dell’indifferenza degli uomini. Un extracomunitario. Mi tocca, doverosamente per senso della mia coscienza, fare una precisazione. Non ho mai amato il termine extracomunitario perché, sebbene appartenga ad un registro lessicale coniato più dai media che dalle istituzioni, mi fa pensare a qualcuno che è oltre la comunità. Ma quale comunità? L’Unione Europea. E come dovremmo chiamare la comunità mondiale a cui tutti – senza nessuno escluso – apparteniamo? La domanda vuole essere provocatoria ed aprire ad un dibattito che ritengo non debba avvenire qui all’interno di questa recensione al libro di Marziano. Tuttavia sarebbe il caso di aprire una discussione sulla “possibilità” degli altri, sull’alterità, partendo proprio dalla dimensione “spaziale”. Ma questa è un’latra storia. In questo racconto dobbiamo parlare dell’indifferenza degli uomini, che ritengo sia la cattiveria più grande di cui sia capace un essere umano. Marocco, questo il soprannome affibbiato al ragazzo extracomunitario per identificarlo quale proveniente da un’altra terra, l’Africa (Africa e Marocco nell’immaginario collettivo è un’equazione), anche se lui precisava di venire dall’Eritrea. E questa è già la prima indifferenza: privargli della sua identità. Capita, poi, che il ragazzo è informe perché è affetto da una patologia alle gambe che non gli consente di camminare bene, né tantomeno di correre ed è così che una sera, mentre si trova a percorrere una strada trafficata, cade e non riesce a rialzarsi ed una macchina lo investe. Il conducente lo riconosce e si infastidisce perché gli farà passare dei guai e, soprattutto, gli farà fare tardi alla cena con alcuni suoi amici. Tamir, questo il suo nome, abbandonato da sua madre quando aveva pochi mesi di vita, era stato allevato da una famiglia nomade dell’Eritrea che lo aveva considerato sin dal primo giorno come suo figlio. Egli aveva deciso di venire in Italia perché era stanco di vivere nella miseria, era venuto in Italia per cambiare vita. E c’è da credere che ci sia riuscito per davvero.
Torno a riassumere ora alcune mie brevissime considerazioni a riguardo della nota polemica ad inizio recensione, quando ho fatto riferimento al significato del libro che parlerebbe degli “ultimi”. Che il libro parli degli ultimi non ho dubbi, il dubbio, però, mi avanza quando li definiamo ultimi in modo conforme. Sono veramente ultimi? Ma ultimi, poi, rispetto a cosa o a chi?
Si dice che queste persone siano state allontanate o abbandonate o ancora che siano emarginate dalla società. Ma mi chiedo: abbandonati o allontanati dal mondo, dalla società, o, piuttosto, essi, per loro intima scelta, non se ne siano allontanati, preferendo di vivere una vita di stenti piuttosto che vivere in un mondo di tal fatta?
Quante volte ci siamo chiesti perché uomini e donne scelgono di distaccarsi dalla società e quante altre volte, troppe, le risposte sono state sempre banali, superficiali, quando non offensive?
Personalmente ho avuto sempre una sorta di sentore che in realtà queste persone abbiano capito tutto troppo in fretta della vita e di ciò che noi convenzionalmente chiamiamo società: preso atto del lerciume cui è affetto il mondo, esse hanno preferito rinunciarvi. Hanno preferito dimenticare, proprio come Paolo il muto, che non sapeva più niente di quella vita. La miseria sì, indubbiamente gioca il suo ruolo, come pure le delusioni d’amore. Ma cosa è che determina la miseria e le delusioni d’amore se non il caso? E di fronte al caso, cosa può l’uomo se non assoggettarvisi? Il caso ed il vuoto, secondo Lucrezio nel Rerum natura, consentono l’esistenza. Assoggettarsi al caso, rinunciare alla progettualità è da folli. E la follia è l’unica razionalità possibile per Ciccio e Lucia, per termini pasqualino detto lino, per Tito, per Falena, per Paolo il muto, per Marocco. Una follia dettata dal caso, perché è stato il caso a farli nascere ed a farli volgere così.
La letteratura di Benito Marziano è di stampo alto, perché parla di cose “basse” di “bassifondi”, che infastidiscono il vivere civile, ma che al tempo stesso scuotono la coscienza e ci interrogano come uomini. Forse nessuno conosce risposte e pochi, molto pochi, si pongono domande.
----- Leonardo Miucci
San Severo (FG), 3 marzo 2012
Benito Marziano, "Randagi" (Sei racconti)
2011, 8°, pp. 88, Libreria Editrice Urso, Collana "Mneme" n. 35, ISBN 978-88-96071-52-6
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