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Martedì, 30 Maggio 2017 14:51 IP: 176.32.21.6 Scrivi un commento Invia una E-mail

Giuseppe Pignatello
Il dialetto della mia terra natia
(Il Siciliano della mia Avola)
2017, 8°, pp. 616, ill.
€ 27,00


Considerazioni su “Il dialetto della mia terra natia…” di G. Pignatello


L’opera postuma, complessa e corposa, “Il dialetto della mia terra natia al vaglio dell’esperienza critica e dell’assimilazione personale (il Siciliano della mia Avola)” di Giuseppe Pignatello esige, per chi vi si accosta, un chiarimento preliminare. Anzitutto, il ripetersi già nel titolo dell’aggettivo possessivo “mia terra natia” e “mia Avola” rivela una incondizionata adesione emotiva e un amore senza misura per la sua città natale da parte dell’Autore, che ad essa ha dedicato il più e il meglio della sua produzione letteraria. Basti fare, a tale riguardo, un semplice riferimento ai due volumi di “Avola degli Anni Trenta” (Catania, Istituto Siciliano di Cultura Regionale, 1978), alla “Guida di Avola” (Ispica, Martorina, 1980, seconda edizione 1993) e ad “Avola dalla Preistoria al Duemila” (Rosolini, Santocono, 2007), per rendersi conto di questo suo viscerale attaccamento al suolo natio.
In secondo luogo, va subito evidenziato come il suddetto titolo sia fortemente riduttivo rispetto alla copiosa materia trattata con sicura competenza e meticolosa applicazione, dopo lunga e meditata preparazione. Non siamo dinanzi a una semplice lista di vocaboli tratti dal vernacolo avolese, a una fredda raccolta di termini in ordine alfabetico del patrimonio lessicale locale.
“Il dialetto della mia terra natia al vaglio del’esperienza critica e dell’assimilazione personale (il Siciliano della mia Avola)” è il risultato di un vasto progetto di lavoro articolato, multiforme e originale nella sua impostazione: una summa, una trattazione organica dei modi di essere, elaborati, praticati e passati al vaglio di molti secoli di esperienza dalla 'gens hyblensa', da sempre distintasi per la sua laboriosa operatività, che le ha consentito di affrontare con dignità fasti e nefasti della sua comunitaria avventura esistenziale.
Siamo dinanzi al frutto di una fatica certosina che solo la curiosità intellettuale e la dedizione costante di un innamorato dell’avolesità poteva concepire e portare a compimento, lumeggiando il genio della comunità sociale di Avola, che si esprime attraverso il suo particolare dialetto, rigorosamente autonomo rispetto alle parlate dei centri viciniori.
La plurisecolare saggezza e l’identità culturale e umana degli avolesi trovano, secondo il Pignatello, la loro sedimentazione più convincente in quello che egli identifica come “sermo cotidianus”. Egli è persuaso che il “parrari a carcarara” vada praticato nella quotidianità, proprio per evitare alle nuove generazioni di avolesi il rischio della perdita della ricchezza delle proprie radici. Della suddetta espressione, “parrari a carcarara”, lo scrittore offre con immediatezza la spiegazione, chiarendo che l’espressione deriva da “carcara”, fornace calcinatoria dove “u carcararu” cuoceva la calce viva, “caucina virgini”; pertanto in dialetto stretto equivale a parlare alla buona. Si tratta insomma della rivalutazione del “sermo humilis” che, secondo lui, “s’avissa a sturiari ni li scoli” (si dovrebbe studiare nelle scuole).

Ecco perché esterna il proprio compiacimento nel constatare come il suo desiderio non sia un’utopia. Con ogni probabilità egli si riferisce alla legge regionale n. 85 del 8 maggio 1981 sull’insegnamento del siciliano nelle scuole di ogni ordine e grado, che, peraltro, non ha mai avuto reale applicazione. Allo stesso modo, più di recente, un ulteriore disegno di legge in tal senso, approvato dalla Commissione Cultura del Parlamento Regionale nel 2011, è rimasto lettera morta. Il che non mortifica ma potenzia il valore del suo voluminoso lavoro linguistico-filosofico-letterario-sociale: un dono alla comunità avolese e non solo.
Una così meticolosa attenzione alla parlata locale della città dell’Esagono si spiega anche con il timore che si voglia toglierle diritto di cittadinanza in nome di una malintesa emancipazione culturale, che si esprime nel pregiudizio secondo cui il dialetto, posto incautamente per ignoranza alla stregua di una rozza deformazione della lingua nazionale, profanerebbe l’inviolabile tempio del sapere accademico. È questa anche una frecciata contro gli ammalati di snobismo, che vorrebbero confinare nell’oblio la ricchezza culturale e umana di cui il dialetto è veicolo privilegiato.
Gli si farebbe torto, però, se la sua ricerca di modelli comportamentali che costituiscono il modus essendi degli avolesi fosse interpretato come invito a una sorta di chiusura paesana: un’incongruenza al tempo del “villaggio globale” teorizzato da Marshall McLuhan. In realtà, la sua particolareggiata incursione nel cuore della avolesità è un appello a battersi “per la crescita morale e civile della comunità avolese” e un invito a non trascurare “il sermo cotidianus” perché “molta parte della nostra vita trova in esso riscontro”.
Un’opportuna precisazione chiarisce il taglio specifico della sua densa trattazione: “Non essendo opera di un glottologo o filologo – dichiara – (questo lavoro) non ha la pretesa di una rigorosa ortodossia nell’analisi etimologica di tutti i termini, ma di evidenziare il senso in essi racchiuso, talora il più recondito”. Ciò non toglie che egli abbia consultato svariati e autorevoli dizionari del siciliano dall’ “Introduzione allo studio del Dialetto Siciliano” di Corrado Avolio (Noto, Zammit, 1882) al “Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano” di Vincenzo Mortillaro (Palermo, Vittorietti, 1971), al celebre “Vocabolario Siciliano” in cinque volumi di Giorgio Piccitto, portato a compimento dopo la prematura scomparsa dell’entusiasta iniziatore da Giovanni Tropea e infine da Salvatore Carmelo Trovato (Catania – Palermo, Centro di Studi Filologici e Linguistici Siciliani, 1997 – 2002), al “Vocabolario Etimologico Siciliano” di Alberto Varvaro (Palermo, C.S.F.L.S., 1986) e a tante altre opere che hanno curato particolarmente l’aspetto dell’etimologia. Certamente notevole è l’aiuto che il Pignatello ne ha ricavato. Va precisato tuttavia che, il più delle volte, quanto all’etimo dei termini, egli ha adottato il criterio della verosimiglianza, “fondandosi sull’intuizione, sulla critica, sull’esperienza, sull’assimilazione personale, aiutate e confortate dalle (sue) reminiscenze classiche”.
Queste qualità troviamo agevolmente nell’impegnativa introduzione su “La facoltà del parlare ed il linguaggio”, trattata dal punto di vista filosofico, fisiologico, psichico e sociale, senza escludere le sue convinzioni religiose. Che cosa rappresenta per lui il cervello? “E’ il ponte di coniugazione fra la realtà spirituale e quella materiale, che, nel loro complesso armonico, formano l’uomo; è lo strumento delle operazioni dello spirito umano”. Non ci stupisce dunque che l’Autore citi a questo punto San Tommaso d’Aquino, là dove il doctor angelicus affermava che l’anima, pur essendo ovunque nel corpo con la sua piena essenza, si manifesta con potenza diversa nelle varie parti di esso. Tale premessa gli serve per affermare che la “mirabile sintesi di senso, intelletto e movimento, ricca di quell’altissima carica psicologica che solo la natura possiede, si attua nella funzione del linguaggio”.

Queste espressioni richiamano irresistibilmente alla memoria le elaborazioni filosofiche di Louis de Bonald (Millau, 1754 – 1840), fondatore della sociologia ben prima di Emile Durkheim (Epinal, 1858 – Parigi, 1917) e precursore dello strutturalismo. Come è noto, lo studioso francese, specialista dei meccanismi della facoltà del parlare, individuava nel linguaggio, non solo la radicale differenza ontologica tra l’uomo e l’animale, ma anche la prova più evidente dell’esistenza di Dio. Il che è implicito anche nel Pignatello, allorché non esita a sostenere che “per l’uomo il linguaggio esprime tutta la sua natura razionale, la sua potenza spirituale, la sua ricchezza interiore, quel quid imponderabile che trascende la materia”. Che cosa sia per lui, cristiano-cattolico convinto e praticante, quel quid è facilmente intuibile dalla seguente conclusione: “La parola è veramente λόγος (logos)”. Il che Louis de Bonald avrebbe sottoscritto senza indugio.

Di fondamentale importanza per penetrare all’interno dello spirito dell’opera e riviverne l’avventura è il primo capitolo: “Il Dialetto della mia terra natia al vaglio dell’esperienza critica e dell’assimilazione personale”. L’Autore esplicita il ruolo e il significato che la parlata popolare assume nella vita di ciascuna persona: “Il dialetto è il linguaggio che occupa il posto predominante nella vita di relazione e quindi ha strettissimi rapporti con parecchi momenti del nostro curriculum vitae”. Il Pignatello ricorda con particolare commozione “che le nostre mamme ci hanno trasfuso il dialetto assieme alle cure e all’alimentazione infantile”. Irresistibilmente allora il suo pensiero vola al periodo pre-scolastico e alla scuola elementare dove apprese “il sillabario ed i primi rudimenti della nostra lingua nazionale assieme alla lettura e allo scrivere”. Da quel momento il dialetto fu per lui, come, d’altra parte, per la totalità dei fanciulli suoi coetanei, veicolo di conoscenza diretta ed immediata dell’anima popolare, degli usi, costumi e folclore locale. Nel corso della sua esistenza, in nessun momento considerò l’espressione vernacolare come una limitazione o una profanazione del tempio del sapere. Al contrario, lo studio dell’italiano, del latino e del greco gli permise di scoprire e di porre in evidenza le ricchezze nascoste nel “sermo humilis”.
Una volta fatte queste precisazioni, l’Autore si impegna in una full immersion nel vernacolo avolese, che, insieme a indubbie e sostanziali affinità con le altre parlate siciliane, ha caratteristiche sue proprie, nella terminologia, nella pronuncia, nell’intonazione, nella scrittura.
È a questo punto che, segnalando il mutamento della d in r (dente – renti), della b in v (banco – vancu) ecc., prendendo a modello l’italiano, si sofferma sul cambiamento della doppia ll nella doppia dd, vale a dire nella cacuminale DD, il cui suono si articola appoggiando la parte anteriore della lingua al palato (quello – chiDDu, capello – capiDDu, stella – stiDDi e così via). In tutta l’opera egli trascrive la cacuminale DD appunto con due d maiuscole. Si tratta, beninteso, per intenderci, della famosa doppia d sonante, tipica della maggioranza dei vernacoli siciliani, assai vicina nella pronuncia alla d della lingua inglese, per es. del verbo “to do” (fare).
Il resto del primo capitolo è una puntuale analisi degli aspetti grammaticali e sintattici del dialetto avolese, su cui il lettore potrà indugiare per le sue personali riflessioni in merito a certe particolarità e diversità rispetto ai dialetti dei centri vicini. Per quanto ci riguarda, ci soffermiamo soltanto sull’imperfetto indicativo dei verbi della prima coniugazione, le cui desinenze sono completamente diverse da quelle riscontrabili in tutti gli altri dialetti di Sicilia. Se prendiamo ad es. il verbo “cantari”, notiamo che l’imperfetto in avolese è il seguente: “Iu cantàia, tu cantàitu, iddu cantàia, nui o nuiàutri cantàimu, vuiàutri cantàivu, iddi cantàinu”. In vernacolo netino, pachinese, rosolinese ecc., invece, così suona: “Iu cantava, tu cantàvutu, iddu cantava, nuiàutru cantàvumu, vuiàutri cantàvutu, iddi cantàvunu”.
Un’altra annotazione di sicuro rilievo per la collocazione geografica e le particolarità del dialetto avolese riguarda il fatto che Avola costituisce la città-soglia nella quale il chiù tipico del dialetto siracusano e degli altri centri del nord della Sicilia si trasforma in ciù. In una parola, “a chiavi appizzata o chiovu” diventa nella città dell’Esagono “a ciavi appizzata o ciovu”, come avviene in tutti gli altri centri del sud-est siculo.
Altra particolarità della parlata avolese è costituita dall’uso molto moderato delle dittongazioni: l’esatto contrario di quanto avviene nella Perla Barocca a sette chilometri di distanza, dove in dittongazioni si abbonda al punto che ivi Noto nel dialetto locale si pronuncia Nuotu. Ma su questo punto gli esempi potrebbero essere centinaia. Ci limitiamo soltanto ad alcuni termini avolesi come ventu, sentu, serra, vegnu, tempu, che, a Noto e in tutto il sud-est diventano vientu, sientu, sierra, viegnu, tiempu. Altra specificità linguistica esclusiva della città esagonale è la trasformazione di stra e stru in scia e sciu, per cui minestra diventa minescia e mastru masciu. Ben nota l’espressione siciliana che recita: “O ti mangi sta minestra o ti jetti ra finestra” che, ad Avola, così suona: “O ti mangi sta minescia o ti jetti ra finescia”.
Ma eccoci pervenuti al capitolo centrale, il secondo, che rappresenta circa i quattro quinti dell’intera opera e riguarda il “Dizionario Dialettale Comparato”, che ha pure un sottotitolo “Demopsicologia (Endoscopia Popolare)”. Va subito precisato che il suo Dizionario non si esaurisce in un comune vocabolario, “ma si propone il fine di far conoscere, nei suoi vari aspetti, il mondo della gente che parlava la lingua che costituisce l’argomento di questo modesto lavoro”. Va rilevato che il dizionario non si limita alla elencazione alfabetica dalla a alla zeta di vocaboli dell’avolese, ma contiene detti, proverbi, locuzioni proverbiali, adagi, massime, sentenze, espressioni tipiche popolari, motti, aforismi, facezie, arguzie, anch’essi alfabeticamente trascritti utilizzando la lettera iniziale della prima parola di ciascuno di loro per stabilirne la collocazione in seno al Dizionario.
Una puntigliosa verifica delle voci registrate nell’opera ci pone dinanzi alla presenza di circa 4200 termini, a cui bisogna aggiungere un migliaio di detti, precisando che con questo termine indichiamo l’insieme dei suindicati proverbi, adagi, sentenze ecc. Dunque, nel complesso siamo dinanzi a circa 5200 voci, a cui vanno annesse 100 locuzioni proverbiali dialettali che il Pignatello ha collocato in un capitolo a parte, dal titolo “Antologia di cento locuzioni proverbiali dialettali fuori testo”, prese dalle miriadi – così asserisce espressamente – esistenti nel dialetto di “Avola di ieri” e ancora fiorenti ai nostri giorni.
A tutto ciò, bisogna associare un altro migliaio di detti, riportati e il più delle volte tradotti e comunque spiegati in italiano. Numerose sono anche le citazioni di termini arabi, greci, latini, italiani, francesi, spagnoli, turchi ecc. che, a suo avviso, aiutano a spiegare l’origine e la presenza nel vernacolo avolese delle parole e locuzioni da lui registrate nel Dizionario. Non di rado, poi, quando il risalire all’etimo è dubbio o non convincente, l’Autore si affida al suo fiuto di uomo di cultura, alla sua erudizione e alla sua esperienza di vita.
A questo punto non possiamo eludere alcune considerazioni che ci vengono imposte dai conteggi numerici effettuati e sopra riportati. Il Pignatello registra dunque circa 4200 vocaboli del dialetto avolese che arricchisce con i numerosi detti. Malgrado tutto ciò, se consideriamo che un normale vocabolario – italiano, francese, tedesco, spagnolo, ma anche siciliano – contiene da 20000 a 30000 voci e oltre, ci chiediamo quale sia stato il criterio dell’Autore nell’escludere gran parte dei vocaboli peraltro di uso comune. Ci limitiamo a qualche esempio per meglio intenderci. Non c’è traccia nel suo Dizionario di termini di uso quotidiano come “maestru”, “prufissuri”, “bidellu”, “divanu”, “segretariu”, “caccia”, “cacciaturi”, “miningiti o meningiti”, “pleuriti”, “tila” (tela), “sacristanu o sarristanu”, “sogghiru/a” (suocero/a), “jenniru” (genero), “nora” (nuora), “cucinu/a” (cugino/a), “ziu/a”, “ottobri o utturuu”, “ricembri o ricemmuru”, “novembri o novemmuru)”, “campusantu”, “firraru” (fabbro ferraio), “pinnula” (pillola) et cetera et multa cetera.
Non avendo la possibilità di confrontarci con lui per ottenere una chiarificazione plausibile, non possiamo esimerci dall’obbligo di formulare alcune ipotesi esplicative. In primo luogo, è probabile che egli abbia limitato il suo interesse ai vocaboli che maggiormente caratterizzavano il dialetto stretto avolese degli Anni Trenta del Novecento. Se così fosse, verrebbe potenziata la convinzione, che poi è un dato di fatto, che suo obiettivo nel redigere il Dizionario è di sostenere la memoria storica dell’essere avolese in forma simpaticamente estremista, fornendoci una summa della condizione esistenziale dei suoi concittadini con particolare riguardo a quelli di modesta condizione, prima che il vento di una dubbia emancipazione e di uno sviluppo schizofrenico, disordinato e senza progetto ne scuotesse dalle fondamenta i valori umani conquistati nei secoli, esponendo l’essenza della avolesità al rischio di estinzione, tutt’altro che peregrino nell’epoca della globalizzazione.
Ad ulteriore conferma di questa ipotesi osserviamo l’esclusione di vocaboli come “radiu”, “televisioni”, “schermu”, “canali”, “comodinu”, “settimanili”, “terrazza”, “albergu”, “nuvula”, “cassettu”, “immagini”, “cuperta”, “linzolu”, “tavulu”, “vacca”, ma l’elencazione potrebbe continuare con centinaia, anzi migliaia d’altre voci mutuate dalla lingua italiana e non originariamente sorte in seno al dialetto né sottoposte alla sua mediazione. A maggior ragione, l’assenza totale di termini attinti o desunti dalla cibernetica, dall’informatica, dalla telematica e dalle neuroscienze non ha bisogno di alcuna spiegazione. Nulla essi hanno a che vedere con il dialetto stretto che, negli anni pre-bellici e fino a buona parte degli anni Cinquanta, era predominante ad Avola, come in tutto il resto della Sicilia, rispetto alla lingua nazionale che già subiva, a sua volta, le prime contaminazioni dall’inglese e dai linguaggi scientifici internazionalizzati. Non si tratta – è bene chiarirlo – di opposizione acritica ai fenomeni della modernità e post-modernità, ma di semplice fedeltà alle finalità che egli si proponeva nel suo vastissimo e impegnativo lavoro, da cui emerge la palpitante identità culturale e la ricchezza spirituale del popolo avolese e del suo molto colorito vernacolo.
L’impegnativo lavoro di Giuseppe Pignatello, modello esemplare dell’avolese laborioso, tenace e determinato nel portare a termine ogni fatica a qualunque costo, contiene un capitolo, il quarto, intitolato “Le Denominazioni”, che elenca in ordine alfabetico ben 226 toponimi del territorio avolese, assicurando sempre un’adeguata spiegazione della loro origine e significazione.
Al punto b del capitolo quarto troviamo una lista di 92 nomi propri di persona, ma con tutta evidenza volontariamente non esaustiva, al punto da escludere, solo per attestarci a un solo esempio tipico, il nome di Sebastiano, “Vastianu” o “Janu”, che è di gran lunga il più comune ad Avola grazie al fatto che il compatrono locale, accanto alla patrona Santa Venera, è San Sebastiano. L’Autore sceglie e riporta, in realtà, i nomi propri sovente con i diminutivi caratteristici se non esclusivi del luogo e precisa che ha considerato l’onomastica avolese “nell’uso, nel costume e nell’humour popolare della Avola di ieri”. Ecco perché nomi propri come Vastianu o Armandu, così per dire, non avrebbero aggiunto alcunché a quanto già metabolizzato linguisticamente dalla popolazione avolese.
Pregevole infine è l’appendice con componimenti di tre poeti dialettali locali. Struggenti i versi che il contadino analfabeta Antonino Inturri, inteso Lucerta, analfabeta, cieco e abbandonato dai figli, compose in memoria di sua moglie Angela Cassibba, morta tragicamente il 1° novembre 1881 in contrada Cavalata, in seguito allo straripamento del torrente a causa delle incessanti piogge.
Ne trascriviamo alcuni: “Arma di lu mè pèttu Angilìna/ a lu to spùsu mmèmzu ‘e vài lassàsti,/ n-n’avìssi agghiurnàtu mai ssa matìna/ jòrnu ri tutti li Santi ‘nnuminàtu” (“Anima del mio cuore Angelina/ il tuo sposo hai lasciato in mezzo ai guai,/ ah se non si fosse fatto giorno quella mattina/ giorno di tutti i Santi nominato”).
Ci sembra questa una conclusione idonea per porre in evidenza, più che l’opportunità, la necessità storica del voluminoso trattato di Giuseppe Pignatello, che, con scienza, coscienza, umiltà e sapienza ha rappresentato con grande efficacia la straordinaria vitalità e i notevoli pregi del dialetto avolese, del “sermo humilis” della sua amata terra natia.
Un tesoro che spetta agli avolesi, ma anche ai linguisti e agli appassionati di demologia, custodire rispettosamente e con amore.

Angelo Fortuna
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