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...IN ATTESA DELLA SCADENZA
DEL CONCORSO
"LIBRI DI-VERSI IN DIVERSI LIBRI"
(prevista il 31 luglio 2013)

UNO DEGLI APPUNTAMENTI DEDICATI ALLA POESIA – E DA NON PERDERE –
SARÀ QUELLO DEL 25 LUGLIO 2013 AD AVOLA:

"POESIAVOLA"


Potete già prenotarvi, per aderire, mandando un messaggio a libridiversi@libreriaeditriceurso.com, preferendo fra le poesie da leggere quelle dedicate ai mestieri di una volta, alla gioia di vivere e alla bellezza della vostra terra.
Abbiamo appena concluso l’evento di Scicli dedicato alla Madonna e alla donna, dove sono state lette poesie di Daniele, Giulia e Domenico Giansiracusa, Corrado Bono, José Félix Olalla, Esther Fernandez Gonzales,
Maria Antonia Forte, Sebastiano Burgaretta, Carmela Di Rosa, Mary Di Martino, Sebastiano Artale, tutti poeti del gruppo “Libri di-versi”, o a noi vicini.

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AVOLA 19 maggio 2013
Parrocchia di S. Antonio Abate

MADONNA-DONNA
LA SPIRITUALITÀ CHE SI INCARNA NELL’ATTUALITÀ
ATTRAVERSO LA POESIA E IL CANTO

a cura di Francesco Urso, Maria Piccione, Sebastiano Bottone
Forum dei Cammini Europei del pellegrino e Abola Chorus
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Abbiamo cominciato con preparare lo spazio per i coristi e la verifica dei microfoni. Poi tutto è andato con leggerezza e con sobrietà, con parecchi momenti di forte emozione.
Daniele Giansiracusa di sette anni ha aperto gli interventi con una sua poesia dedicata alla Madonna, dando testimonianza, con la sua dirompente creatività, che la poesia ci sarà anche dopo di noi. ... E non può essere che così!
Corrado Fazzino col suo discorso spirituale ha anche favorito l'individuazione del sacro in mezzo a noi (la cosiddetta "ierofania"), Sebastiano Artale con la parola in dialetto tanto applaudita, la relazione madre-figlio e i dolori della perdita di un figlio nell'intervento della signora Salvatrice Catinello protagonista assieme al figliolo Claudio del libro "Come potrò dire a mia madre che ho paura", Liliana Calabrese Urso con la sua voce e chitarra nel "Cantico dei drogati" di De Andrè, Nina Coletta ancora una volta con i suoi versi per una donna forte e dolce al contempo, Corrado Bono e il dialogo, Domenico Giansiracusa nell'esercizio in versi della sua relazione col sacro, "Maruzza" protagonista senza colpa di una violenza subita dal marito qualche secolo fa a Cava Grande del Cassibile, nella lettura dei versi di Domenico Giansiracusa fatta da Simona Di Pietro, Teresa Bono e Maria Rizza, tutti componenti del Gruppo teatrale avolese "Dilettanti allo sbaraglio"...
E poi, dall'inizio alla fine della serata, i canti della corale "Abola Chorus", magistralmente diretta da Maria Piccione. I canti eseguiti tutti a cappella ("Madre, per le tue grazie", "Laude Novella", "Celebre Ave Maria", "Un'ala di riserva", "Madre io vorrei" e infine il "Magnificat") si sono intercalati tra gli interventi, sviluppando l'articolazione del tema all'ordine del giorno "Madonna-donna, la spiritualità che si incarna nell'attualità attraverso la poesia e il canto".
Abbiamo dato prova tutti quanti di semplicità e di umiltà, collaborando tutti quanti alla coralità.
Non poteva mancare nel corso della serata il riferimento a don Tonino Bello (nell'intervento di Fazzino e nel canto "Un'ala di riserva"), per come il vescovo di Molfetta ha saputo interpretare il tema trattato in quest'incontro e, inoltre, per la coincidenza col ventesimo anniversario della sua morte.
Come coordinatore dell'iniziativa ringrazio quanti siano stati con noi nella serata del 19 maggio 2013 e per come, ognuno a suo modo, ha collaborato alla riuscita della serata.
La nostra (!) competenza cresce superando naturali limiti di approssimazione che tutti abbiamo nel mostrarci agli altri...
Quindi, andremo lontano, con la nostra progressione culturale e con le buone maniere!
Quel che è importante è crescere assieme agli altri senza che abbia la meglio l'ovvia spinta narcisistica che è in ciascuno di noi.
...Non ci è dispiaciuto che anche questa volta non ci sia stata la stampa, né la Tv locale, perché nessuno di noi ama le luci ingannevoli e fuorvianti della ribalta.

Francesco Urso
Avola 20 maggio 2013

Libri
in corso di stampa

della
Libreria Editrice Urso

in stampa
copertina
ANTONELLA SANTORO
NELL'ARIA COME VELA
POESIE
2013, 8°, pp. 56
Collana
ARABA FENICE
n. 122
€ 9,50acquista

ISBN 978-88-98381-40-1

PRENOTA IL LIBRO

Antonella abita a Genova, città natale.
Una vita, la sua, divisa tra la famiglia e l'insegnamento.

Delle raccolte “Carta d'arance” e “Aspettando notte”, entrambe edite a sua cura nel 2011, ha tradotto in francese una cinquantina di poesie, creando il volumetto in lingua – con testo italiano a fronte – “Mélodine” (2012).
“Racconti tronch...i” (2011) sono, insieme al romanzo “Fascination” gli unici esempi della sua prosa.

PELLEGRINAGGI IN SICILIA

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Ieri, domenica 26 maggio 2013, in occasione dell’evento Donna-Madonna nel Terzo Millennio, organizzato dall’editore Francesco Urso, Elisabetta Ventura e Marianna Buscema, in collaborazione con il Museo del Costume di Scicli, sono stato invitato a percorrere sommariamente con un intervento verbale la storia dei pellegrinaggi nella nostra area. Trascrivo qui di seguito l’intervento stesso:

Per cercare di affrontare uno studio sui percorsi, i cammini di congiungimento ai siti chiave del pellegrinaggio medievale – almeno per quello che riguarda l’area iblea e in particolare il territorio sciclitano – si può probabilmente procedere solo a tentoni e con metodo deduttivo. Ma ho il dubbio che si tenda più all’induzione, essendoci insicurezza sull’individuazione di ciò che è “universale” e di ciò che è “particolare”. Ad ogni modo, la difficoltà maggiore in questa ricerca è causata della scarsezza di documenti cartacei e sostanziali. Con documenti sostanziali intendo riferirmi a tutto ciò che documenta in sostanza l’ipotesi che si vuole accreditare. Ad esempio un monumento, una chiesa, una iscrizione, e così via. Uno dei punti di partenza, nella questione che ci riguarda, potrebbe essere il dato storico che certifica, sino alla seconda metà del settecento, un caricatore riservato ai Cavalieri di Malta, presso il porto di Scicli (Marsa Shiklah) in Sampieri, ed uno stesso Cavaliere risiedente in Città con funzione di Ricevitore dell’Ordine Gerosolimitano. Così ne scriveva nell’ottocento il Canonico Pacetto, riprendendo a sua volta la descrizione fatta dal settecentesco cronista Carioti, arciprete sciclitano:

“Sin da quando l’illustre Ordine Gerosolimitano si stabiliva nell’Isola di Malta, mantenne sempre in Scicli uno de’suoi Cavalieri, col titolo di Ricevitore, a somiglianza delle primarie Città del Regno, per tosto occorrere a’bisogni dell’Ordine dell’Isola; avendo sempre a sua disposizione una Feluca, da servirle per dare sicuro ricapito a’grossi Plichi della Posta, che da varie parti della Sicilia, ed anche dall’estero, pervenivano a questo Ricevitore.”

Che il porto di Scicli fosse un punto strategico, crocevia di merci e popolazioni disparate, se ne ha contezza storica, oltre che mitologica. Per quest’ultima categoria si può riportare il passaggio sciclitano di Ercole (la cui prova era vantata dai cronisti partendo dal leone impresso sul vessillo cittadino), di Dedalo, e poi successivamente di San Paolo e Sant’Antonio. Leggende interessanti, e persino credibili nel caso di San Paolo. Intendo dire che per una questione di rotte il passaggio da Malta alla Sicilia, specie nella parte sudorientale, era facilitato in direzione di Sampieri e non di Pozzallo o di Siracusa, come oggi si potrebbe erroneamente dedurre. Il che rende dunque credibile la leggendaria storia che accredita la suola paolina calcante per prima la terra siciliana in area sciclitana. In effetti bisogna pur dire che, per quanto la mitologia rimandi metaforicamente alla realtà e la leggenda possa risultare persino credibile, questi esempi ricordano i sin troppo frequenti soggiorni di Garibaldi in tutto lo Stivale. Ma se l’eroe dei due mondi riposava ad ogni città, tra le tante che ne annoverano il passaggio, quando avrà trovato il momento di unificare l’Italia?

Occorrerà evitare di suffragare l’ironia conseguente, e cominciare le indagini dai documenti storici (per quanto anch’essi spesso vadano a coincidere con la poesia). Uno di questi è la descrizione di Scicli che rende Idrisi nel famoso “libro di Ruggero” (intorno al 1150 d.C.). Ne riporto alcuni tratti, che fanno il paio con quanto già trascritto dal canonico Pacetto:

“Distante dal mare tre miglia circa, è paese di singolare prosperità, popolato e rigoglioso, dotato di una campagna fiorente, di mercati a cui affluiscono prodotti di ogni paese.”

E poi ancora:

“Ci si arriva via mare dalla Calabria, dalla Tunisia, da Malta e da altri territori.”

È il caso di ricordare che all’indomani della riconquista normanna dell’Isola, il Gran Conte Ruggero aveva deciso di lasciare Scicli alla Corona, come territorio demaniale. Mentre feudali divennero Modica e Ragusa, anche se quest’ultima in mano a Goffredo, figlio dello stesso Gran Conte. A motivo di tali decisioni, lo stesso Ruggero sembrava addurre l’importanza generale del porto sciclitano. Si coglie immediatamente il nesso tra questi dati e i pellegrinaggi. Poiché è proprio da tale periodo che prende avvio un rinnovato interesse per il cammino di fede verso i luoghi sacri della cristianità: Gerusalemme, Roma e Santiago. Tutti luoghi che come punto di partenza, in Sicilia, non potevano prescindere dall’avvio in Messina. Ma andiamo con ordine: Dal centro al nord della Penisola, alle Alpi, sin dal XIII secolo si cominciò a parlare di via francigena. Si trattava di una serie di percorsi, che avrebbe accompagnato il pellegrino sino al punto di avvio del cammino vero e proprio, quello prescelto per il proprio pellegrinaggio (appunto Gerusalemme, Roma o Santiago). Atto dovuto, almeno una volta nella vita di ogni credente, in maniera del tutto analoga al pellegrinaggio musulmano verso La Mecca. Per quanto si viaggiasse più per mare che per terra, non è vano ricordare che esisteva una via Francigena anche in Sicilia, francigena nella denominazione ovviamente solo per la funzione di collegamento, appunto, al porto di Messina. Il porto siciliano, come già detto, era punto di arrivo e di ripartenza. La via francigena di Sicilia si presentava come un percorso circolare, ricoprente l’area dell’entroterra siculo, lambiva in quattro punti le zone portuali più importanti dell’Isola: Gela, Siracusa, Messina, Palermo. Si collegavano a questa ulteriori percorsi, vie, e proprio su una di queste ultime si trovava Scicli. Anzi, a voler essere precisi, una di queste vie di collegamento alla via di collegamento principale (la via francigena di Sicilia), partiva da Marsa Shiklah, risalendo poi verso Scicli. Un documento sostanziale, un ricordo, lo si può ravvisare volgendo gli occhi verso la collina della Croce, ivi ancora si staglia in alto una Croce di Malta, sul campanile della chiesa del Calvario, e non lungi dal Convento di S. Maria la Croce, fondato da Francescani di ritorno dalla Terra Santa. Poi da Scicli il tragitto si muoveva verso Modica, dove è ancora presente una trecentesca chiesa templare intitolata in modo magniloquente a San Giacomo (link, rimando ad un altro mio articolo per ciò che riguarda) e infine giungeva a Ragusa dove è attestata una chiesa in passato appartenente all’Ordine dei Cavalieri di Malta, dedicata al culto della Madonna Odegitria. Chiesa riedificata sul’Ospitale dell’Ordine di San Giovanni, notoriamente succedaneo di quello Templare. Nella stessa Ragusa, ancora oggi è testimoniabile l’esistenza di un Ordine di San Giacomo della Spada, presso l’omonima chiesa all’interno dei giardini iblei, ed è possibile scorgere i segni monumentali e grafici che rimandano al culto del Santiago Matamoros.

Sembra quasi che ogni stazione, ogni ospitale sia situato appositamente alla distanza necessaria per il riposo quotidiano del pellegrino in cammino. E probabilmente è proprio così, accertato che questa era la metodologia viaria perseguita sia sul vero e proprio Cammino di Santiago, quanto lungo la via per Gerusalemme.

Mi sembra poi credibile il pensare la via francigena di Sicilia come collegamento alle vie che conducevano al mare, e non il contrario. Tra queste appunto quella per Scicli. Questi sono i miei dubbi in merito all’individuazione dell’universale e del particolare. Mi rendo più chiaro, come già preannunziavo, il sistema prediletto per il viaggio – almeno sino a tutto l’ottocento – in Sicilia, era quello marittimo. Ciò per più motivi, che vanno dalla velocità alla sicurezza. E perciò deducibile che una via interna, per quanto “santa”, poteva infine risultare poco sicura per un pellegrino. Immaginiamo un pellegrino sbarcato a Palermo, o meglio ancora a Trapani, esso si sarà mosso in parte attraverso la cosiddetta via francigena, e solo per raggiungere la via del mare che maggiormente lo interessava, ad esempio quella verso Marsa Shiklah. Quello che intendo dire è che statisticamente i flussi di pellegrini dovevano essere più diretti verso i porti che viceversa.

Il problema della sicurezza del pellegrino, è noto, fu il motivo scatenante alla base della nascita dell’Ordine Templare. Non c’è il tempo per affrontare il tema della presenza dei Frati-Cavalieri nell’Isola, i successivi Ospedalieri e Maltesi, o gli antagonisti Teutonici. Si dovrebbe cominciare ad approfondire sul forte legame sussistente tra le Priorie Benedettine di San Filippo d’Agira e quella Sciclitana di San Lorenzo. Ricordando che quella di San Filippo era collegata all’abbazia di S. Maria dei Latini a Gerusalemme. Una donazione (di fantasia quanto quella di Costantino) citata in un documento del 1168, “trasformava una bolla papale, secondo cui da allora in poi tutte le proprietà della fondazione palestinese dovevano dipendere da S. Filippo di Agira” (Il Monachesimo Latino nella Sicilia Normanna, di Lynn Townsend White Jr.). L’importanza che aveva assunto San Filippo è resa chiara nel 1187 allorquando Saladino prese Gerusalemme e i monaci di S. Maria dei Latini fuggirono in gran parte presso la Casa di Agira.

La forte presenza gerosolimitana nel territorio, il connubio che si generò per mezzo della agiografica descrizione più o meno storica dei cronisti normanni, probabilmente diede avvio ad un sistema iconografico che legava imprese belliche e santi. Non ho usato volutamente il termine “milizie” (al posto di “imprese belliche”) per evitare di suffragare più del dovuto una dubbiosa dicitura come quella di Madonna delle Milizie. Mi propongo cioè di restare al sicuro dato dialettale che si ferma a quel “milici” dai rimandi pagani (link ad alcune informazioni su Bacco Milichio). Seppure, in pieno spirito scettico, non nego la possibilità che quel “milici” possa davvero essere la trasposizione di “militi” (link ad un argomento in favore). In ogni caso la leggenda sciclitana della Madonna che appare per coadiuvare le esigue forze normanne, mentre si stanno per scontrare mortalmente contro l’infedele, non solo ha degli analoghi sulla stessa zona iblea: dalle vaghe similitudini con San Giorgio, a quelle esemplari con il Santiago Matamoros campeggiante sulla facciata di San Giacomo in Ragusa inferiore. Le analogie sono infinite in tutto il territorio che fu dei Normanni, nel sud Italia. La volontà di quei cronisti, primo tra tutti Goffredo Malaterra, era quella di accreditare religiosamente e da un punto di vista latino, la crociata normanna contro i mori di Sicilia. Così le apparizioni sono molteplici: a Ravanusa la Madonna appare a Ruggero durante l’assedio della città, fornendogli acqua per dissetarsi; a Cerami sono addirittura in due a partecipare alla battaglia, San Michele e San Giorgio; gli esempi e le apparizioni – mi verrebbe da dire – sono infinite. In realtà, con poco afflato mistico, il numero si restringe ai luoghi e le città oggetto della riconquista normanna. Su queste figure salvifiche, il posto d’onore lo va assumendo Santu Iacu. Ed è da questo dato che deve essere ripreso il cammino, con fede o con interesse laico e storico, per intraprendere comunque un percorso di riabilitazione dell’io. Bisogna riavvolgere il cosiddetto nastro, e riprendere da dove si è sbagliato. Occorre ridiventare poeti. Riporto, per concludere, un passo tratto da un racconto di Daudet:

«È vero, pastore, che siete un po’ stregoni, voialtri?»
«Niente affatto, signorina. Ma qui si vive più vicini alle stelle e si sa meglio della gente di pianura quello che vi succede».
Guardava sempre in alto, con la testa appoggiata sulla mano, avvolta nella pelle di montone come un pastorello celeste:
«Quante! Che bello! Non ne ho mai viste così tante! Per caso, pastore, sai come si chiamano?».
«Ma certo, padrona. Guardi, proprio qui sopra c’è la Via di San Giacomo (la via lattea). Parte dalla Francia e va dritto sulla Spagna. È stato San Giacomo di Galizia che l’ha tracciata per indicare la strada al prode Carlomagno quando faceva guerra ai Saraceni…».

Gaetano Celestre

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