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opinionisti

I MENDICANTI BEFFEGGIANO I BORGHESI
Sebastiano Gernone

The BeggarTHE BEGGAR’S OPERA la celebre ballad - opera di John Gay scritta nel 1727, si è arricchita dall’ottobre 2005 a Bari degli apporti al testo di Tyrone Guthrie e dell’innovativa regia di Moni Ovadia, con la versione musicale di Benjamin Britten che già nel 1948 ne diresse la versione modernizzata a Cambridge.
La nuova rappresentazione conferma l’amore per la vita nella sua cruda istintività, durezza delle periferie malfamate: “ I ladri rubano a chi accumula soldi e non sa goderseli…”recitano i delinquenti, in una spudorata e sincera derisione delle usuraie finanze della borghesia con i suoi capitali in accumulo e al servizio dei nascenti stati nazionali. La vita in questa mise en scène sale sul palco con le sue doppiezze, astuzie, trappole, non ingabbiate in alcuna retorica ma avvolta nei piaceri dei sensi e del vino, nello sbeffeggio dell’ordine sociale.
thebeggarE’ il punto di vista dal “basso” che sfronda la mediocrità misurata del teatro borghese: l’Opera del Mendicante è autentica nella sua aggressività che nasce dall’esperienza quotidiana.
Una gran bella presenza scenica e d’allestimento, con corpi sensuali, esuberanti, movimentati in abiti colorati, in una coreografia curatissima; con canti d’opera, arie e melodie popolari a braccetto armonioso con cori e musica orchestrale, mai ordinati meccanicamente ma ispirati e coinvolgenti (irridono a ragione il noioso senso della perfezione di maniera).
Inoltre, i leitmotiv che incidono la presenza e il recitato or aspro or poetico degli accattoni, prostitute, ladruncoli, borseggiatori in un arcobaleno stilistico ed estetico di costumi, spostamenti scenici illuminati in un’atmosfera da truce osteria e lampi invernali.
Canti melodici, recitato, corpi, emozioni, poesia, invettive, sbeffeggio, lingue e dialetti che si contaminano e si amalgamano nello svolgersi dell’opera che ci coinvolge.
Mrs. e Mr. Peachum, Polly, Captain Macheath, Filch, Lochit, Lucy, Mrs. Trapes sono i nomi dei papponi, ruffiane, mignotte, ladri presenti sulla scena con il narratore Beggar - Ovadia, travolto egli stesso dalla banda seppur sempre testimone in ogni scena e spesso silenzioso: quasi ad ordinare lo svolgersi della trama in una centratura artistica teatrale, che ricorda le cerimonie dei maestri sufi che al volteggiare dei dervisci rimangono fermi, o si spostano or qui or là a dare energia ed equilibrio all’inno di danza e musiche, scomparendo infine tutti insieme nel richiamo stesso dell’Armonia.
Sebastiano Gernone

OMAGGIO A CARMINE CROCCO

Il 18 giugno 2005 ricorre il centenario della morte di Carmine Crocco "Donatelli", il maggiore brigante che si oppose alla conquista del Sud nel decennio 1860 - 1870.
Nato a Rionero in Vulture nel 1830 Crocco da bambino fu privato con gli altri famigliari dalla madre rinchiusa nel manicomio di Aversa a seguito dello shock dovuto alla perdita del figlio che attendeva in gravidanza, perché presa a calci da un nobile borbonico locale, al quale aveva maltrattato il cane che disturbava e impensieriva la famiglia Crocco. Il "nobile" delinquente rimase impunito dalle autorità locali.
Ritrovai negli anni 80' il registro di ricovero della poveretta a testimonianza reale, inoppugnabile del fatto. Crocco iniziò di lì a qualche anno il suo percorso di vendette e furti, si arruolò finanche nell'esercito borbonico e mentre Ferdinando II presenziava alla sfilata, chiese al re di porre rimedio alla povertà della sua famiglia orfana della madre altrimenti gli avrebbe dato filo da torcere. Ferdinando II lo fece arrestare e rinchiudere in carcere. Continuò a delinquere e a rifugiarsi da brigante nei boschi, fin quando i latifondisti e i borghesi della Lucania e di Rionero in particolare alleati locali dei gruppi insurrezionali al servizio del progetto moderato - democratico di conquista delle Due Sicile lo coinvolsero con il suo fidatissimo compagno Summa soprannominato "Ninco Nanco" di Avigliano nelle file garibaldine, promettendo loro di assolverli dalle condanne subite; e Crocco con i suoi uomini si schierò con Garibaldi nella determinante battaglia del Volturno. Ritornato a Rionero e conquistato il Sud la promessa di redenzione non fu mantenuta e i carichi penali furono riaccesi nei confronti di Crocco e dei suoi uomini. Coinvolto questa volta dallo schieramento sconfitto dei clerico- borbonici - capeggiato nella sua zona dalla famiglia Fortunato - si schierò per il ritorno di Francesco II. La lunga guerriglia contro i Savoia lo vide protagonista con una formidabile banda come lui stesso scrisse che arrivò anche a duemila uomini.
Fu affiancato nelle scorrerie e attacchi guerriglieri nell'ex regno borbonico da numerosi capibanda ma soprattutto da Augustine De Langlais, un francese che si presentò come ufficiale legittimista al servizio di Francesco II, ma in realtà spia di Napoleone III con il compito di controllare e pilotare l'insurrezione contadina.
La corte borbonica a Roma e Francesco II in prima linea rinunciarono nonostante l'insistenza di Maria Sofia a capeggiare la guerriglia partigiana anche perché controllati da spie piemontesi, francesi e dall'abbate di Montecassino. Si preferì - decisione discutibile - delegare al generale carlista di fama internazionale Borges la riconquista del Sud.
Sbarcato in Calabria il Borges e raggiunta la Basilicata trovò l'ostilità di Crocco - che non voleva cedere il comando popolare, ed inoltre il guerrigliero riteneva perdente la tradizionale tattica militare dello spagnolo; e fu naturalmente avverso al Borges l'impostore De Langlais.
In pochi mesi Borges si accorse dell'inutilità dell'impresa e volle ritornare a Roma per informare Francesco II della reale situazione nel Sud. La lunga risalita del Borges con un drappello dei suoi spagnoli e d‚alcuni meridionali fu bloccata in Abruzzo a pochi chilometri dal confino pontificio nei boschi di Tagliacozzo, in seguito a numerose segnalazioni e spiate: circondati nella masseria Mastroddi a Luppa dai bersaglieri comandati dal maggiore Enrico Franchini e da alcune guardie nazionali di Sante Marie agli ordini del capitano Vincenzo Colelli, decisero di arrendersi anche per evitare l'incendio appiccato al loro rifugio. Per ordini superiori furono condotti a Tagliacozzo e sbrigativamente dopo che recitarono una toccante litania in spagnolo furono fucilati. Solo il corpo di Borges fu restituito a Roma e omaggiato da Francesco II, dalla corte in esilio e dal clero romano con una cerimonia solenne.
Crocco e De Langlais continuarono le loro scorrerie ma il francese ormai sabotata l'impresa del Borges riuscì con la collaborazione francese - italiana a rientrare in Francia dove fu assunto nella nascente ferrovia francese e lavorò per anni nella stazione di Lione, senza pagare alcun prezzo a saldo del suo ruolo d‚infiltrato.
Crocco continuò fino al 1864 a resistere ma, soprattutto grazie al tradimento del capobrigante Giuseppe Caruso, il generale Pallavicini -criminale di guerra e della gente meridionale - era vicino a catturarlo.
Riuscì con pochissimi a sfuggire ad ogni imboscata e a raggiungere lo stato Pontificio con una lettera di presentazione di un latifondista che gli fu ritirata, insieme con un ricchissimo bottino di guerriglia, da un cardinale che gli assicurò l'impunità e un sicuro rifugio nello Stato Pontificio.
Nulla di ciò accadde, Crocco fu imprigionato e rinchiuso in orride carceri, ormai pedina inutile alla lotta di potere tra clerico - borbonici, moderati e democratici. Non fu mai visitato in sei anni di prigionia né da Francesco II né tantomeno da Pio IX ma consegnato imprigionato ai piemontesi nel 1870 alla conquista di Roma.
Condannato a morte la sua pena - anche per evitare confessioni pericolose per i latifondisti meridionali ormai alleati con il gruppo vincente moderato di Cavour - fu trasformata in ergastolo che scontò in gran parte a Santo Stefano e negli ultimissimi anni a Portoferraio dove morì poverissimo per atonia senile il 18 giugno 1905.
Le sue memorie raccolte dal capitano Massa e quelle non "italianizzate" da Cascella,
queste ultime purtroppo incomplete ma toccanti nella loro autenticità, sono state pubblicate e sono riportate nel sito www.eleaml.org.
Sebastiano Gernone, giugno 2005

Bari, 20 aprile 2005

LA LIQUIRIZIA DELLE DUE SICILIE

di Sebastiano Gernone


Un popolo senza orgoglio del proprio passato non ha futuro
Fiodor Dostoievski

Il colonialismo non ha significato soltanto dominio militare,  politico,  economico, 
ma anche  “spossesamento” culturale, privazione della propria individualità,
riduzione ad uno stato servile della coscienza…
Jacques Berque

Non se n’abbia a noia il cortese lettore se questa nota ha qualche cenno biografico, mi viene spontaneo scriverla per introdurre qualche considerazione su quel che osserviamo in questi giorni

Fatto sta che scrivo quel che stamani mi è capitato.

Uscivo da casa ubicata nel quartiere Libertà che mi originò in quel di Bari, diretto verso il negozio di tabacchi, articoli postali & altro per far pesare e affrancare un plico postale indirizzato a Gino Giammarino, direttore editoriale del periodico per il Sud “ il Brigante”.

L’umore era quello solito quando ritorno nella mia città: ci si sente consolati e rassicurati dal luogo familiare ma un po’ uggiosi per la quotidiana imbecillità che dà spettacolo su questo pianeta e nella nostra estrema provincia imperiale, ma un po’ d’esperienza si è fatta, ed essa ci consola nel passaggio relativo di noi mortali al cospetto dei milioni d’anni e della vastità incommensurabile degli universi.

Per raddolcirci dalle amarezze, l’occhio malandrino meridionale è stato attirato dalla confezione di liquirizie posto giusto appunto tra il tabaccaio e il sottoscritto.

Tutto a un tratto abbiamo dimenticato il gran rumore delle settimane trascorse, con l’onnipresenti facce omologate dei candidati politici alle regionali tappezzate in ogni dove, il loro gran gridare, la polemica per la conquista del potere senza alcun serio e chiaro programma propositivo, e insomma la loro scostumata invadenza nelle nostre vite per improbabili e minimi cambiamenti in meglio: alla fine del gran chiasso si è votato per il male minore come dovrebbe essere per la Politica che è in tutte le culture antiche, orientali e occidentali pratica delle più mediocri legata al Mercato mentre i veri creativi e i saggi non ne fanno la loro ragion d’essere, sdegnandola o al più servendosene.

Ai politici invadenti si è associato il lungo corteo dei cardinali ingioiellati, la gran folla dei cattolici da spettacolo e del “ Io c’ero”, dei laici rumorosi, dei giornalisti sistemati a compiangere in mondovisione e con la presenza di tutti i potenti la dipartita di un papa, tifando le masse irresponsabili della propria parola per la presunta santità del defunto, e di lì a qualche giorno pronti ad applaudire l’arrivo di un altro inviato a parer loro dallo Spirito Santo: quando si dice la profondità e la silenziosità dell’anima…

Ma tutte queste riflessioni tra me e me appesantite da qualche acciacco recente, sono scomparse quando, come scrivevo dianzi, sono apparsi davanti ai miei occhi le scatolette con la scritta:

LIQUIRIZIA
DUE SICILIE
tronchetti di liquirizia purissima

E nel dettaglio il prodotto si presenta e si pubblicizza in:

LIQUIRIZIA PURA - specifiche tecniche 


Descrizione

estratto acquoso di radice di liquirizia, concentrato a consistenza di pasta e diversamente formato in bastoncini, tronchetti e rombetti, ed aromatizzato nei prodotti rombetti di liquirizia all'anice e alla menta.


Pregi

il succo di liquirizia utilizzato proviene dalla Calabria [evviva! evviva! evviva! Mi rallegravo!], ed è noto per essere uno tra i più pregiati sul mercato. Questa linea di prodotti oltre ad avere un potere calorico molto basso, non vi sono infatti zuccheri aggiunti, può esporre il marchio Dente Felice, in quanto ha superato con successo tutti i test telemetrici atti a dimostrare che il loro consumo non favorisce lo sviluppo della carie.


Ingredienti

estratto di radice di liquirizia, anetolo e olio essenziale di menta nei rombetti di liquirizia aromatizzata.

Il cuore si è gonfiato di gioia perché finalmente vedeva realizzarsi – nel mio quartiere periferico per di più - uno degli obiettivi della campagna COMPRA E VIAGGIA SUD che ci vede impegnati da tempo, convinto - come lo sono in tutte le regioni di buon senso - che occorra acquistare soprattutto e innanzi tutto i prodotti locali se si vogliono conservare e aumentare i posti di lavoro.

La gioia visiva delle gialle scatolette era d’un colpo trasmessa alle mani e si voleva mettere mano al portafoglio – anche incoraggiato dal commerciante che s’intrometteva garantendomi la qualità del prodotto – per acquistarne con piena solidarietà duosiciliana una confezione: ma, grazie a Dio, l’occhio leggeva in alto, sotto la scritta in rosso della ditta Leone,  a caratteri minuscoli la città di confezione finale e sede dei padroni:

Torino!

E’ addirittura stato pubblicato un libro d’autori vari su questo marchio torinese: “LEONE DOLCE LEONE - Leggenda italiana di un gran marchio” grazie al quale sappiamo che “Leone, dal 1857 il re della dolcezza. Il gusto Leone nasce nel 1857: nel Piemonte che guidava l'Italia a essere libera, una piccola bottega guidava i buongustai subalpini sotto la bandiera della bontà. Poco per volta, le delizie di Casa Leone conquistano Torino, la Casa Reale, l'Italia e si spargono nel mondo degli intenditori.”

Si sa, caro e paziente lettore,  che la regione Calabria prima di essere conquistata con tutto il Sud dalla tirannia dei Savoia capeggiata da Vittorio Emanuele II e sotto la regia di Cavour e dell’utile idiota Garibaldi –anche in Calabria all’indomani della corruzione dei generali borbonici e dopo aver falsamente promesso terra ai contadini alleandosi con i poteri forti locali dei latifondisti -, la nostra Calabria, appunto, annoverava nel regno delle Due Sicilie insieme con altri stabilimenti fabbriche di liquirizia e che, guarda caso, la piccola bottega Leone di Torino nacque nel 1857… mentre le fabbriche di liquirizia in Calabria scomparvero dopo la conquista del Sud da parte dei Savoia.

Dalle nostre parti la liquirizia era conosciuta da oltre 35 secoli e divenne, “ a partire dal 1715 (anno in cui il Duca di Corigliano impiantò la prima fabbrica del genere in Calabria),  fonte di progresso economico per la gente… Dal XVIII secolo ebbe inizio la vivace azione produttiva tramite industrie di trasformazione della radice di liquirizia che cresceva spontaneamente nelle zone pianeggianti della Provincia di Cosenza… La coltivazione della liquerizia, un arbusto alto oltre un metro, era diffusa intorno alla vasta piana di Sibari, nelle zone del litorale ionico della Calabria settentrionale e nel basso versante ionico delle Serre e dell'Aspromonte. Un sistema di stabilimenti provvedeva alla lavorazione della radice che, dopo l'estrazione, veniva macinata e polverizzata, oppure ammollata e fatta macerare in acqua bollente fino ad ottenere un impasto denso e rigido. La pianta nasceva in zone scarsamente popolate o addirittura soggette a fenomeni di impaludamento, in terreni acquitrinosi e freddi, prossimi al mare, e verso la metà di ottobre schiere fitte di lavoratori, ricorda ancora Placanica, scendevano dalle pendici della presila e dai casali di Cosenza verso le marine ioniche della Calabria per andare a lavorare come coglitori e cavatori della radice, ed il ciclo si concludeva con la fase dell'impasto e della confezione del prodotto, affidata alle donne.” (cit. Armando Orlando, vedi nota).

In uno studio di Andrea Pesavento “Il commercio e la produzione di liquirizia nel settecento“ leggiamo:

 “I primi documenti sull’esportazione dal Crotonese di liquirizia risalgono alla seconda metà del Seicento. L’undici luglio 1679 il genovese Battista di Scormè, patrone di una tartana, dichiarava di aver noleggiato la sua barca al napoletano Vincenzo Volpicella per andare a caricare 200 cantara di pasta di liquirizia, 150 a Cassano ed il resto a Crotone…”

Dello stesso autore leggiamo sempre sulla nostra liquirizia il “Commercio e primi tentativi di produzione”:

Attivi nella commercializzazione ma anche con tentativi di produzione è l’aristocrazia cittadina. Nel luglio 1692 Mutio Bernale ed il figlio Ottavio prendono in prestito da Alessandro Mazzeo, del casale di Mangone, quattro "caccavi di rame per uso di far pasta di regolitia"

Alla fine del Seicento i nobili di Crotone sono già ben inseriti nel commercio della liquirizia. Essi fanno da cerniera tra i produttori dei casali silani ed i mercanti di Napoli. Agli inizi del settembre 1696 Stefano Perretta di Albi, casale di Taverna, incaricava il reverendo Giuseppe Locanto di vendere in Napoli della "pasta di regulizia sistemata con fronde di alloro e "le boglie" dovranno essere "ben lavorate, liscie, distaccate e sciolte l’una dall’altra".

Per tutto il Settecento nel porto di Crotone si susseguono gli imbarchi di pasta di liquirizia, prodotta dai produttori silani ed acquistata dai mercanti napoletani.

[…]

Raccoglitori, produttori e mercanti

 Lo scavo della radice di liquirizia era fatto da squadre di "cavatori" provenienti dai casali silani durante l’autunno e l’inverno. Particolarmente adatti si dimostrarono i terreni cespugliosi e argillosi del Crotonese, che fornivano un prodotto di buona qualità per l’alto blank di glicirrizina. Domenico Vecchio ed il socio Giovanni Antonio Mauro, entrambi di Grimaldi, nel mese di ottobre dell’anno 1724 stipulano un contratto con il signor Ignazio Monaco di Cosenza presso il notaio Francesco Antonio Stello di quella città. Essi si impegnano a condurre una squadra composta da sessanta uomini alle marine di Cotrone, a Casalnuovo ed a Poligrone a cavare radica di liquirizia.

[…]

Particolarmente attivo in questa prima metà del Settecento è il produttore Gregorio Niceforo. Egli vende pasta di liquirizia al mercante napoletano Andrea di Sarno. Nel maggio 1727 arriva al porto di Crotone la nave "Il Dispaccio" del capitano inglese Giovanni Peake per imbarcare 323 cantara e rotola 40 di pasta di liquirizia…

Imbarchi di pasta di liquirizia oltre che da Crotone avvengono anche da altre località costiere del Crotonese. Il capitano olandese Cornelio Strop noleggia la sua nave. Egli deve recarsi da Leone Vercillo di Policoro per poi andare a Fasana nella marina di Strongoli a caricare una partita di pasta di liquirizia da portare a Livorno.

[…]

Nascita dell’industria della liquirizia nel Crotonese

La redditività del commercio della liquirizia, anche in rapporto alla crisi che sta investendo il mercato cerealicolo, spinge alcuni nobili crotonesi ad investire in questo settore.

Traendo forza e potere dall’ingente capitale di cui dispongono, proveniente dalla speculazione granaria, utilizzano la rete commerciale, da tempo funzionante per il commercio del grano, che li collega con i mercanti di Napoli. Essi associano i produttori silani e si inseriscono da protagonisti anche nel mercato della liquirizia.”

Una ultima citazione è d’obbligo perché precede di poco la conquista del Sud e la fortuna della piccola bottega della ditta Leone di Torino: “Dieci fabbriche di liquirizia, che si estrae dalla radice della pianta detta da Linneo Glycirrhiza glabra spontanea produzione di que' terreni, ne mandano all'Inghilterra ed alla Francia circa ottomila cantara, che rendono ai loro proprietari più di dugentomila ducati” (F. Stancarone, Calabria Citra, in Viaggio nel Regno delle due Sicilie, Napoli, 1848, p. 4)

Le fabbriche di liquirizia in Calabria non esistono più ma a Torino hanno deciso che visto il lavoro culturale che ci vede impegnati – noi ed altri – nel ridare orgoglio al nostro Sud e alla nostra storia era loro utile intitolare il succo estrattivo di liquirizia della Calabria:

LIQUIRIZIA DUE SICILIE

Mille Grazie a Loro Signori! Che continuano a prendere e depredare, la Colonia dà sempre i prodotti e le idee…

Adesso è ora di finirla con quest’andazzo, dobbiamo essere noi del Sud capaci di acquisire una reale consapevolezza del valore autonomo del patrimonio politico, economico, culturale della nostra Terra calpestato e strumentalizzato dalla nazione italiana

e per l’intanto compriamo Sud e viaggiamo nel Sud e… occhio al marchio!

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NOTA - Sitografia

http://www.laprovinciakr.it/lequirizia.htm
http://www.pianetacalabria.com/dicola/Show-room-iltempoelamemoriatesto.htm
http://digilander.libero.it/armandoorlando/index5.htm
http://www.eleaml.org/sud/storia/ressa2004.html
http://www.duesicilie.org/calabria-trad.html
http://www.kwsalute.kataweb.it/Scheda/indice/0,1686,331,00.html
http://www.lacalabria.it/comuni_prov-cs/s.lorenzo%20web/cenni_storici.htm

AL MINISTRO PER GLI ITALIANI ALL'ESTERO
AL PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI D‚ITALIA
ALL'AMBASCIATORE DEGLI STATI UNITI IN ITALIA
ALL'AMBASCIATORE D'ITALIA NEGLI STATI UNITI
ISTITUZIONI CULTURALI ITALO AMERICANE
ORGANIZZAZIONI Americani di origine italiana : NIAF (National Italian American Foundation), OSIA (Order of Sons of Italy in America) e UNICO
Presidenti dei Comitati degli Italiani all'Estero (Comites) istituiti negli Stati Uniti a Boston, Chicago, Detroit, Filadelfia, Houston, Los Angeles, Miami, New York, Newark, San Francisco e Washington
Consiglieri del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero (CGIE)
p.c.: stampa

RAZZISMO ETNICO CONTRO ITALO AMERICANA NEGLI USA

Gentilissime Autorità,
Quale redattore del periodico culturale "IL BRIGANTE" con una propria edizione cartacea, e di numerosi siti diffusi in tutto il Sud dell'Italia e tra i nostri emigrati all'estero Vi scrivo consapevole delle Vostre specifiche competenze e responsabilità civili per denunciare quanto segue:

Stephanie Longo giovane italo - americana laureata con il massimo dei voti negli Usa, orgogliosa delle proprie radici italiane, autrice di un libro di imminente pubblicazione in Italia, ha denunciato di essere stata discriminata e licenziata nel liceo in cui insegna francese per aver civilmente protestato contro uno stereotipo razzista nei confronti degli italiani diffuso da un insegnante che ha un peso e un'influenza notevole all'interno del liceo.

La prof.ssa Longo è stimata da tutti noi, è referente per il nostro giornale negli Stati Uniti e collabora ai siti che difendono la memoria del Sud Italia e che curano i rapporti con gli italiani emigrati negli Stati Uniti e con i loro discendenti. Parla benissimo oltre l'inglese, il francese e l'italiano ed è riuscita qualche anno fa a realizzare il sogno del suo amato nonno che emigrato negli Stati Uniti da Guardia dei Lombardi in provincia di Avellino mai vi ritornò. È stata accolta in Italia come parte di noi, il sindaco di Guardia dei Lombardi (Avellino) e la giunta comunale l'ha festeggiata con tutti i parenti non emigrati. I fatti a noi descritti dalla nostra conterranea d'oltremare sono i seguenti:
"Il 9 dicembre 2004 il mio liceo mi ha chiesto di andare a badare agli alunni dell'insegnante di biologia perché lui doveva tornare a casa perché era ammalato. Mentre ero nella sua aula, ho notato un poster di Al Capone, mostrandolo come un mafioso e un criminale. Gli ho scritto una piccola nota, dicendo "Lo so che non sai che questo è un'offesa agli italoamericani ma ti devo dire che è offensiva. Sto provando ad insegnare ai miei alunni che questi stereotipi non hanno luogo nella nostra società. Per favore, puoi rimuovere il poster? Grazie."
Mi sono ammalata e non potevo andare al liceo per il 13 e 14 dicembre. Quando sono tornata, ho saputo che questo professore ha mostrato la mia nota ad altri alunni per prendermi in giro. Poi, ha spostato il poster ad un posto più prominente nella sua aula.
L'indomani, mentre aspettavo l'ascensore, parlava con studenti e ha detto "Eccola. La "wop" (terrona,ndr) che crede di essere brava perché ha scritto un libro." Quel giorno il mio lavoro mi è stato tagliato! Mentre pranzavo, ho ricevuto una telefonata da mia madre. Una lettera è arrivata a casa nostra dal liceo. L'ho pregata di aprirla perché credevo fosse importante. La lettera, con la data del 14 dicembre, diceva che cominciando dal 18 gennaio 2005, non avrei più avuto un lavoro a quel liceo-- SENZA dare una ragione. Sappiate che quell'insegnante di biologia è anche capo dell'unione degli insegnanti e io, essendo la nuova giovane professoressa di francese, non avevo nessun potere".
Precisiamo che con lo stipendio della prof.ssa Longo vive anche la madre che è handicappata. Il padre della prof.ssa ha lasciato la famiglia quando lei era ancora bambina. Non ci sono commenti da fare. Siamo indignati: gli Stati Uniti d'America hanno milioni di italo - americani di origine meridionale che hanno onorato il Paese che li ha accolti e l'Italia ha un grosso debito nei loro confronti perché grazie alle loro rimesse per decenni hanno bilanciato i conti della Nazione. Precisiamo che il liceo cattolico è a Kingston, PA 18704 USA e molti italo - americani hanno già amplificato la denuncia.
Riteniamo, pertanto, che si debbano predisporre le iniziative più opportune per ridare alla prof.ssa Longo il cui email è: Stephanie Longo <stefania_56@yahoo.com> l'onore e le scuse che Le spettano, e conseguentemente a tutti i meridionali.

Dottor Sebastiano Gernone

Redazione "IL BRIGANTE"
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IL "PROVOLONE" DI PIAZZA VENEZIA E IL SUD
Talvolta sbirciamo tra bancarelle di libri a Roma, e queste librerie ambulanti si dispongono numerose e sparpagliate qui e là, con testi antichi e moderni in vendita in tutta la metropoli.
Sfogliando pagine e acquistando quel che ci appassiona, alcuni commercianti sono ormai diventati volti familiari: Armando ancor oggi pentatleta a più di sessant'anni, Angelo, il "Maresciallo", Augusto, la sora Emilia e il marito Angelo, il siciliano Salvatore, il bengalese Schumon…
Intendiamoci, sono bancarelle dove capitava di incrociare il pinguino risorgimentale extra - lusso senatore Spadolini, luoghi frequentati da intellettuali, scrittori e da lettori di gusti più semplici o addirittura con desideri morbosi, c’è di tutto.
Tra questi libri a cielo aperto ricordiamo dietro scaffali e pagine Vincenzo Manni, un anziano romano ricco solo d’esperienze.
Vincenzo era nato in una delle case popolari che riempivano l’attuale zona dei Fori Imperiali che si allunga tra Piazza Venezia e il Colosseo. Tutte le case antiche che avevano visto Vincenzo giocare e vivere la sua fanciullezza, furono abbattute e spianate su ordine dall’inquilino di Piazza Venezia che dagli anni '20 vi s’insidiò grazie all'appoggio e alle trame dei gruppi dominanti che in lui trovarono l’uomo adatto alla difesa e conservazione dei loro interessi: vi rimase l'impettito demagogo per un ventennio; ebbene l'autoritario uomo dal balcone affacciato, decise di far abbattere tutte le case che ostacolavano il suo sguardo fisso e la masticante parolaia mascella dalla vista del Colosseo della Roma imperiale.
Ho sempre pensato che sia stato il veder distruggere i luoghi della propria infanzia a determinare in Vincenzo, nel corso del tempo e con le esperienze che maturavano, il divenire partigiano nemico del demolitore urbano e d’uomini, e finanche il nostro amico s’impegnò in azioni militari in prima linea andando a combattere in Jugoslavia.
Affascinato dai suoi intensi e non banali anni trascorsi, ho passato non pochi pomeriggi e mattine ad intrattenermi con lui, giacché m’interessano sempre le storie orali dei protagonisti non famosi. Vincenzo mi raccontava un’infinità d’episodi vissuti; quando parlava dell’inquilino ventennale di Piazza Venezia lo chiamava, com’era d’uso tra molti fidati popolani a Roma, “Er Provolone”, nomignolo suggerito dalla brillante e disabitata pelata (i romani convivono e sono in confidenza con il potere da millenni e conoscendone tutti gli interpreti riciclanti del dominio e comando, li deridono e beffeggiano).
Del Provolone Vincenzo conosceva, come tutti coloro che lavoravano o vivevano nelle vicinanze del suo Palazzo, le abitudini quotidiane: il pomeriggio alle cinque si sapeva che usciva in macchina il Provolone, ad altre ore saliva l’amica del Provolone, a tale ora i suoi seguaci abitudinari (si possono immaginare le battute scherzose - Er Farinaccio è "annato" dal Provolone - ecc..).
Sulle adunate di massa ad acclamare il Provolone al balcone, Vincenzo mi raccontava che le moltitudini - fatta eccezione per le schiere urlanti squadriste della prim'ora e i cretini sempre abboccanti - erano forzate e condizionate; e vivendo da decenni a Roma ne sono più che convinto: i veri romani sono così scettici e riottosi ai potenti che tra le frasi più d’uso risuona il canticchiato“…e che ce frega e che c’importa…”, "ma chi te se fila" ad essere eleganti.
Da tempo Vincenzo non c’è più, se n’è andato solo come tutti noi mortali con la sua testa capelluta e imbianchita, e con la bocca sdentata (era la sua forma d’opposizione al primo governo di iena ridens Berlusconi, ne sono sicuro); e in una bancarella vicino a quella una volta sua - adesso c'è il nipote amato Fabrizio (il nonno gli raccontava che discendevano dall’Ettore della Disfida barlettana, e il carattere c’era perbacco!) - ero qualche giorno fa, e immagino sia stato dall'altro mondo il compianto Luigi a suggerirmi di sfogliare i vecchi giornali in vendita.
Tra questi si è presentata la prima pagina del quotidiano romano IL MESSAGGERO, in data 1° aprile 1939. Leggiamone i titoli:
UN’ ALTRA MEMORABILE GIORNATA PER LA CALABRIA FASCISTA – TRIONFALE EPILOGO DEL VIAGGIO DEL DUCE – LA PAROLA DI MUSSOLINI ACCOLTA CON IMMENSO ENTUSIASMO DAL POPOLO DI REGGIO – FOLLE DI MADRI, DI BIMBI E DI RURALI ACCLAMANTI LUNGO LA FERROVIA – UN VASTO PROGRAMMA DI OPERE PUBBLICHE.
Il DISCORSO:
EGLI DICE (testuale, ndr):
Mussolni provolone"Camicie Nere!
Voi mi avete atteso per sedici anni (dalla folla si grida: Troppi!) dando prova di quella discrezione che è un segno distintivo dei popoli di antica civiltà quali voi siete.
In questi due giorni io ho saggiato la tempra di questo Popolo. E’ una tempra di buon metallo (applausi vibranti), il metallo col quale si fanno le vanghe e le spade, gli aratri e i moschetti.
Per la vostra organizzazione, per il vostro stile, per il vostro ardore voi siete in linea con tutte le provincie d’Italia (applausi prolungatissimi).
Venendo in questa terra si ha la certezza assoluta, attraverso le miriadi e miriadi dei vostri figli, la certezza assoluta della continuità nei secoli della nostra Patria. Questo voi indicate a coloro i quali subendo gli influssi nefasti di esotiche mode o di teorie che l’esperienza ha dimostrato assolutamente idiote (dalla folla partono fischi prolungatissimi), prima indeboliscono la Patria e poi la estinguono.
I popoli forti sono popoli fecondi; sono viceversa deboli i popoli sterili. Quando questi popoli saranno ridotti a un mucchio miserabile di vecchiardi (fischi dalla folla) essi piegheranno senza fiato sotto la sferza di un giovane padrone (la folla acclama lungamente).
Io sono venuto qui per vedere e constatare ciò che si è fatto. Ciò che si è fatto in questo primo periodo dell’Era Fascista è notevole, ma è ancora più notevole quello che si deve fare (la moltitudine acclama lungamente all’indirizzo del Duce).
I vecchi governi avevano inventato, allo scopo di non risolverla mai, la cosiddetta questione meridionale (fischi). Non esistono questioni settentrionali, o meridionali. Esistono questioni nazionali, poiché la Nazione è una famiglia e in questa famiglia non ci devono essere figli privilegiati e figli derelitti (applausi e grida di entusiasmo).
Dopo il mio discorso agli squadristi a Roma, ben poco vi è da aggiungere. Noi non dimentichiamo, noi ci prepariamo, noi pensiamo a decenni e quindi siamo sempre pronti ad attendere, com’è sicuro un Popolo che ha molte armi e saldissimi cuori (acclamazioni altissime).
Sono passati più di quattro anni dal mese in cui fu mobilitata la Peloritana, quattro anni di prove aspre e di gravi sacrifici, culminati nella conquista dell’Impero, che è Impero di popolo (la folla urla il suo entusiasmo). Impero di popolo che sarà difeso dal popolo per terra, per mare, nel cielo, contro chiunque (alte acclamazioni).
Alcuni deficienti d’oltr’Alpe (tutto il popolo fischia a lungo) confondendo colla realtà il loro desiderio, hanno favoleggiato di un allontanamento del Popolo italiano dal Regime (la moltitudine risponde con un solo grido appassionato: No!). I vostri sibili attraversando i loro timpani auricolari avranno dimostrato che è esattamente vero il contrario.
Popolo e Regime sono tutt’uno (la folla urla: Sì! Sì!): Forze Armate e Popolo sono tutt’uno (la moltitudine rinnova all’indirizzo del Duce una ardente manifestazione di entusiasmo e devozione) e questo Popolo italiano è pronto a indossare lo zaino (tutto il popolo prorompe in un formidabile: Sì!) poiché come tutti i popoli giovani non teme il combattimento ed è sicuro della vittoria".

Ebbene delle opere pubbliche promesse in quella visita nulla si vide, della folla calabrese “acclamante” tutti negli anni a venire bestemmiarono e odiarono il Provolone negli anni successivi perché li obbligò ad entrare in guerra mondiale, e ancor più inveirono e maledirono il condottiero del balcone quando furono inviati in combattimento figli, mariti e padri dei quali moltissimi non rientrarono al Sud nelle loro case, tra i loro affetti.
Dalle truppe dell’ARMIR inviate dal Provolone in Russia sfuggì il compianto 'Manuel' Ferrarese, cugino di mio padre di cui a voi confido il felice e comico ricordo. Comico perché per anni abbiamo riso del modo in cui Manuel sfuggì a Provolone.
Fu arruolato Manuel tra le truppe destinate alla fantasticata conquista della Russia promossa da Provolone e Nanetto 2° (per la storia: Vittorio Emanuele III° dei Savoia, i conquistatori e tiranni del Sud), e fu per il nostro quartiere Libertà ( la toponomastica è beffarda) di Bari un dramma familiare che coinvolse i genitori del soldato Manuel, fratelli, cugini, nonni; i tempi erano differenti da oggi, il quartiere era più spazioso, molta più campagna che case, e la famiglia era allargata con le vicissitudini condivise. Che fare, dunque? Già si sapeva al di là della propaganda di regime, che molti non tornavano dalla chiamata alle armi...
Il colpo di genio l'ebbe la mia bisnonna Rosa, nel quartiere chiamata Commà Rosina, che era la nonna della moglie di Manuel, l'ancora scoppiettante e riccioluta Mariett'.
Commà Rosina vestiva così come si vede nelle vecchie foto delle donne meridionali del tempo andato, con lunghe gonne, lo sguardo intelligente e vivo incorniciato da cerchiati occhialetti; era nata nei primi anni della seconda metà dell'800: aveva dunque negli anni '40 più di ottanta anni, nulla da perdere, astuzia e sangue freddo. Fu trasmesso dai familiari un telegramma al Comando militare il giorno prima della partenza di Manuel, telegrafando che era morta la madre di Manuel invero viva e vegeta. Il Comando informò il Comando dei Carabinieri che inviò un maresciallo per controllare il decesso. Tutti i ragazzini di famiglia erano in allerta e quando si avvistò l'arrivo del graduato fu dato l'allarme. Il maresciallo appena salì le scale incontrò un intero caseggiato parato a lutto e lacrime, bambini , donne piangenti e uomini addolorati, tutti vestiti in nero; ma per disposizioni superiori doveva constatare di persona il decesso. Giunto nella camera da letto vide Commà Rosina ferma e immobile in rigor mortis distesa sul baldacchino, con il suo unico dente sporgente, il fazzoletto bianco annodato intorno al capo, con i consueti alti fiammicolanti ceri funerari attorno e con tutti i parenti piangenti. Chiese rattristato il sottufficiale se la "defunta" fosse la madre del militare Emanuele Ferrarese e n’ebbe accenno di conferma, diede pertanto le sue sentite condoglianze e ritornò al comando. Di lì comunicò la conferma del decesso, e conseguentemente la partenza di Manuel fu sospesa per i giorni di lutto mentre il suo reparto con armamento insufficiente, vestiario ridicolmente inadatto alla stagione delle steppe partì tragicamente in Russia da cui nessuno di loro tornò.
Dopo ciò per lunghi anni Manuel trascorse la sua vita lavorando nel suo negozio artigianale in via Principe Amedeo, cucendo e scucendo materassi in ottima lana, e s'ebbero battesimi, comunioni, matrimoni, funerali, gioie e dolori familiari, lunghe partite serali a briscola, scopa e tresette ridendo sempre di Provolone e Nanetto 2°. Commà Rosina morì ultra novantenne in un inverno barese in cui stranamente nevicò, e lei gioì della bianca ghiacciata sorseggiando un caffè.
Sebastiano Gernone

UNA INTERNAZIONALE DI UOMINI BUONI
UN INCONTRO A BARI CON MONI OVADIA
a cura di Sebastiano Gernone
Cari meridionali, Cari lettori,
abbiamo la gioia di trasmettere un articolo recente di Moni Ovadia.
Seguiamo da tempo la sua ricerca artistica e spirituale e a Bari dall'11 al 14 dicembre 2003 è stato presentato lo spettacolo di Ovadia L'ARMATA A CAVALLO, tratto dal classico di Isaak Babel'.
L'artista radicato nella migliore cultura e tradizione ebraica ci chiede di interrogarci insieme con Babel' sulla natura della rivoluzione in una suggestiva partitura di parole, canti, balli, musiche, colori, immagini.
Moni Ovadia con generosità d'animo, accompagnato dalla moglie Elisa e dall'amico collaboratore Emilio Vallorani, hanno accettato il mio invito a visitare il borgo antico di Bari e l'area in cui sorgeva il vecchio ghetto dei baresi di religione ebraica. Con gioia hanno attraversato quella che era la via della sinagoga a salire scale antiche, e leggere preziose testimonianze; hanno incontrato - conversato - cantato - danzato - abbracciato la gente di Bari vecchia che nei bassi che si affacciano lungo le strette vie conservano le tradizioni locali: - Sembra d'essere nell'antica Gerusalemme - ha esclamato Elisa Ovadia; si è incontrato Michele Romito, l'eroe popolare che fu tra i coraggiosi che salvarono il porto di Bari dai tedeschi in guerra (e che vive con una pensione di 500 € !); e il piccolo corteo festante con alla chitarra e fisarmonica Mario De Michele ha cantato allegramente tradizionali canti dialettali intonati dal cicerone - presidente Michele Fanelli che ha guidato la compagnia sguizzante con gli Ovadia, Vallorani, i soci dell'ACLI - Dalfino -, gli artigiani, gli artisti poeti e registi, i popolani, i professori, gli scienziati della Bari civile e antifascista: Vito Antonio Leuzzi e consorte, Vittorio Pesce Delfino (il nostro stimatissimo scopritore del paleolitico "Uomo d'Altamura"), Nicola e Teresa Signorile, Francesco Lopez e Leonardo Palmisano dell'ozfilm, i Toto, i fratelli Cucciolla ecc..
Moni Ovadia si è sentito come sempre uomo mediterraneo "più di casa qui", sempre solidale con le ragioni di chi rivendica i propri diritti e la propria dignità, contro ogni sopruso e volontà di dominio.
A tutti i conterranei meridionali invia un abbraccio e ci consente la diffusione del testo con cui, l'autore, regista e attore presenta il suo lavoro.
Sebastiano Gernone
 
Un'internazionale di uomini buoni
di Moni Ovadia

Nei primissimi anni della rivoluzione bolscevica circolava questa storiella ebraica. Durante una riunione del comitato centrale ristretto del partito comunista, Trotskij bisbiglia all'orecchio di Lenin: "Aspettiamo che vada via il goy (Stalin) e poi possiamo pregare, c'è minian (quorum di dieci maschi ebrei adulti necessario per pregare)". Il raccontino umoristico ci dà conto di un fatto risaputo nel mondo ebraico russo, cioè che il gruppo di dirigenti bolscevichi che aveva deciso e messo in atto la rivoluzione era composto a soverchia maggioranza da ebrei e mezzi ebrei. I loro nomi sono celeberrimi Trotskij, Kamenev, Zinoviev, Radek, Sverdlov e, cosa meno risaputa, lo stesso Lenin era ebreo da parte di madre. Alcuni di essi avevano ricevuto anche un'educazione religiosa. Trotskij, che al secolo si chiamava Lev Davidovic Bronstein, era figlio di un rabbino. Ma questa singolarità non si limitava ai vertici della dirigenza bolscevica. I numeri della presenza ebraica in tutti i movimenti rivoluzionari socialisti, comunisti e anarchici è sconcertante. Il primo partito operaio rivoluzionario dell'est Europa, fu il Bund, organizzazione rivoluzionaria degli operai ebrei di Russia e di Polonia. In seguito dal Bund provenne la struttura di quadri del partito socialdemocratico russo, molti dei quali, dopo la rottura con i menscevichi, confluirono nel partito comunista bolscevico. Quale legame esiste dunque fra l'ebraismo e la rivoluzione? Sicuramente e ovviamente il linguaggio visionario e incendiario dei profeti di Israele che chiamano al dovere della giustizia sociale e alla liberazione dell'oppresso come prima istanza del messaggio ebraico. Ma c'è di più. Molto di più.
L'ebraismo è forse la prima grande rivoluzione della storia del mondo e lo è sicuramente nell'Occidente la cui vicenda inizia proprio con Abrahamo, il grande patriarca ineguagliato rivoluzionario che frantuma gli idoli di ogni specie, spezza lo scettro di ogni possibile tiranno. Il geniale "traghettatore" fonda l'essere umano e ne lancia il cammino nel tempo storico con una radicale sovversione dei fondamenti del mondo antico attraverso un patto di pari dignità fra creatura e creatore con il Dio del monoteismo. Ed è ancora a opera di un ebreo che prende avvio la prima liberazione contro un potere idolatra e imperiale, si tratta di un inedito e inaudito processo che procede dal basso. Un popolo di schiavi guidati da un "rinnegato" della classe faraonica al potere, Mosè, spezza le catene della schiavitù e della sua weltanschauung, per inaugurare una nuova visione della vita basata sulla libertà di cui è garante una dirompente e ineffabile concezione del divino. Mosè non si limiterà a guidare il cammino di liberazione, ma costruirà il passaggio all'istituzione della nuova società e dell_uomo nuovo con lo strumento di una legislazione potente che rimane paradigma ineguagliato di rapporto fra ethos e giustizia. La storia dell'Esodo costruisce in qualche misura il quadro dentro il quale si iscriveranno tutte le storie di liberazione del futuro. Ci_ che non passerà tuttavia nelle storie rivoluzionarie vicine a noi è la complessità, la capacità paradossale e la fiducia nel tempo della Torah di Mosè. I grandi rivoluzionari del novecento crederanno nel potere taumaturgico della rottura rivoluzionaria e inventeranno un uomo immaginario e ipostatizzato per fare tornare i conti invece che costruire la rivoluzione per l'uomo reale con tutta la sua fragile e contraddittoria precarietà, con i suoi difetti e con la sua complicazione costitutiva che lo rende soggetto sociale tendenzialmente labile e di scarsa affidabilità. Queste e altre ragioni determineranno il tragico fallimento della più grande utopia della storia dell'umanità, il comunismo. Un revisionismo strumentale oggi vorrebbe fare credere, per precise motivazioni politiche, che quella fu solo una storia di orrori. Non è così, fu la storia di uomini, di idee, di sacrifici, di dedizione, di tradimenti, sofferenze e dolori che non può essere archiviata nel bidone della spazzatura della storia televisiva. Gli uomini che diedero la vita per l'utopia del grande riscatto meritano uno sguardo che ne ricordi l'umanità estrema, una pietas che non li trasformi in numeri. Milioni di rivoluzionari e di comunisti furono vittime del "dittatore insicuro" Jossip Vissarionovic Dzugasvili detto Stalin, fra di esse il grande scrittore ebreo sovietico Isaac Babel'. Il nostro spettacolo è liberamente ispirato al suo capolavoro L'armata a cavallo.
I racconti di Konnaja Armija nascono dall'esperienza viva dell'autore sul fronte russo- polacco della guerra civile seguita alla Rivoluzione Bolscevica. Babel', che nella propria opera chiama se stesso Ljutov, fu al seguito della Prima Armata a cavallo del mitico generale cosacco Budionnij. Il piccolo intellettuale ebreo occhialuto educato alle dolcezze e alle profondità dell'ebraismo khassidico chiede di unirsi ai feroci cosacchi rossi che, pur avendo scelto di battersi per la rivoluzione, hanno iscritto nella propria cultura più profonda un selvaggio antisemitismo nutrito da una storia secolare di massacri di ebrei. Babel'- Ljutov è ciononostante attratto dalla forza primitiva e vitale di quei leggendari combattenti a cavallo in simbiosi amorosa con le proprie cavalcature e cerca un battesimo di violenza per ottenere una piena legittimità di rivoluzionario. Non ci riuscirà. Rimarrà sconfitto dall'insanabile contraddizione con il proprio ebraismo, dal comandamento "nomìucciderai!". Non troverà neppure la forza di caricare la propria arma durante le azioni di combattimento per non correre il rischio, Dio scampi, di togliere la vita a qualche essere umano, ancorché nemico. Il suo delitto più efferato sarà quello di sciabolare un'innocente oca e quell'orribile omicidio gli procurerà continui incubi e gli farà sanguinare il cuore. Babel'- Liutov, che combatté sul fronte polacco, l'unico che vide la sconfitta dell'Armata Rossa di Trotskij, ha lasciato a noi che lo leggiamo il dono di uno dei momenti più alti della letteratura di tutti i tempi. Dalle pagine di Babel' emergono uomini piccoli e straordinari. Tutti, i deboli, i feroci, i folli, gli orgogliosi, le vittime, gli esecutori vengono visti nella loro lancinante e disperata umanità. Mai Babel' si lascia andare alla perversione del giudizio. Fra tutti troneggia il robivecchi Ghedali, il cieco venditore di cianfrusaglie, rapsodo sui generis, che vuole conciliare ebraismo e rivoluzione e va gridando al vento: "dov'è la dolce rivoluzione? La rivoluzione è gioia e felicità. Noi lo sappiamo che cos'è l'internazionale, dateci un'internazionale di uomini buoni. Noi tessereremo ogni anima al partito e le diremo: siediti alla tavola della vita anima e gioisci!".
Lo spettacolo si dipanerà come una partitura di immagini, suoni, musiche, canti e parole con cui combatteranno i due grandi cori dei bolscevichi e degli zaristi. In mezzo ai due "eserciti" un drappello di musicisti cavalleggeri rossi suonerà l'epopea dei rivoluzionari mentre gli attori racconteranno e urleranno lo sgomento dei piccoli uomini sconfitti. La Rivoluzione danzerà il suo sogno- incubo di gloria e di sangue prima di morire.
Perché fare uno spettacolo così"demodé" con stelle e bandiere rosse, perché ascoltare la voce dei Ghedali, eroi della diaspora che sono passati per i camini trasformati in cenere da un mondo brutale e non più umano? Per gli uomini di buona volontà che non credono alla fine della Storia, che non vogliono essere definitivamente consegnati al dominio di Mamona, l'idolo dell'oro nel suo ultimo e subdolo travestimento del cosiddetto libero mercato che vuole il sacrificio dei nostri figli, e da ultimo per gli uomini che ancora credono alla possibilità di conquistare su questa terra libertà, giustizia, uguaglianza e bontà.
SCIROCCO E IL RISORGIMENTO MITIZZATO In data 7 giugno 2003 il quotidiano “Il Mattino” di Napoli ha pubblicato un articolo intitolato “Povero Garibaldi” a firma di Titti Marrone, in recensione al breve saggio - apparso sulla rivista trimestrale “Nuova Antologia”- del prof. Alfonso Scirocco -, illustre titolare della cattedra di Storia del Risorgimento all’Università di Napoli.
Molti si chiederanno: chi è costui? Quale nuovo apporto alla memoria fondante il bel paese ci ha consegnato? Si ha la fortuna di aver incrociato il predetto studioso a Napoli nel 1984 all’importante convegno di studi sul Brigantaggio; Scirocco inoltre, con la sua secca figura presenziava un incontro culturale sul Risorgimento nel novembre 2002 a Roma, circostanza quest’ultima, in cui l’abbiamo rivisto e riascoltato con attenzione compassionevole, educazione che si deve pur avere per chi fa parte del Creato.
L’intervento a Napoli nel 1984 del nostro, unitamente a quello del prof. Giuseppe Galasso - la cui fama travalica i tempi e i luoghi -, fu indirizzato sostanzialmente a tacitare il grande storico del Brigantaggio Franco Molfese.
Tant’è che il Molfese, studioso serio e rigoroso a noi familiare, ci confidò – alcuni giorni dopo il convegno - che l’insistenza del Galasso e Scirocco nazionali ad invitarlo alle giornate napoletane, aveva lo scopo strumentale di contrastarlo e limitare l’incidere del suo testo fondamentale sullo sviluppo storiografico, per ricondurre gli indirizzi di ricerca alla visione tradizionale unitaria liberale – crociana: dunque, si proponevano di avversare l’interpretazione del Molfese che documentava e dimostrava scientificamente nel dettaglio, la storia della feroce guerriglia contadina, la resistenza armata popolare alla conquista del Sud e ai falsi plebisciti del Risorgimento, che non fu certo processo unitario, bensì complesso e contrastatissimo scontro politico- militare - economico.
In quell’occasione chi scrive denunciò (intervento censurato negli atti), la chiusura del più importante archivio su quelle vicende: l’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito che è blindato sui documenti relativi ai contadini – briganti fucilati a decine di migliaia nel Sud, con villaggi abitati da innocenti messi a fuoco dai soldati invasori.
Orbene, l’anno scorso a Roma erano presenti anche il giornalista Paolo Mieli, di cui è ormai chiara l’attenzione moderata più da –ci si permetta –“pompiere” che da indagatore serio delle vicende e motivazioni profonde dei conquistati; tra gli altri relatori vi erano i proff. Banti e Talamo. Quest’ultimo e Scirocco sono gli esponenti di punta della componente moderata di studiosi risorgimentali: quelli a guardia d’onore in perenne servizio della memoria del conquistatore Vittorio Emanuele II, e dei suoi cortigiani guidati da Cavour, per intenderci. Sempre premiati i due Scirocco e Talamo, già a partire dagli anni ’60 del centenario nazionale e delle figurine risorgimentali.
Si conoscono, dunque, le loro interpretazioni storiografiche e il ruolo che hanno ricoperto nei condizionamenti educativi da decenni, anche e soprattutto nella direzione del sempre governativo istituto per la storia del risorgimento.
Scirocco ha rilanciato a Roma le sue tesi, tra l’altro immaginandosi una presunta competenza sul brigantaggio, motivata dalle prefazioni baronali da lui curate ai lavori di catalogazione e ricerca archivistica sull’argomento da altri condotti; e da qualche sua mai innovativa pagina storica: è successo “qualcosa” bisognava pur scrivere. Naturalmente, alla ripetuta nostra denuncia sugli archivi militari, Scirocco in compagnia del Talamo, ha eclissato la questione quasi scusandosi - con astuzia irrispettosa per i destinatari e in tono e modo cardinalizi -, delle affermazioni veritiere ascoltate dagli alti ufficiali presenti e offesi dall’aver sentito definire “criminali di guerra e contro l’umanità” alcuni fondatori dell’esercito italiano.
La ricerca storica seria, a nostro avviso, non fa sconti a nessuno e, ad essere onesti nel giudizio, la lealtà d’opinione e d’indagine richiama virtù e coraggio sconosciuti ad intellettuali di basso profilo: ognuno è libero di scegliere valori, linee di condotta e l’umanità con cui rapportarsi.
Aggiungiamo inoltre, che è prevista, e in preparazione già da due anni, la pubblicazione - in mutua collaborazione tra componente moderata dell’intellighenzia risorgimentale e ufficiali dell’esercito nazionale -, di un nuovo testo sul brigantaggio basato sulla riservata documentazione militare: bisognava, pertanto, essere solidali tra chi imposta ad usum delphini la storia ufficiale.
Introdotto il curriculum vitae et studiorum del prof. Scirocco, qual è stato l’ultimo suo intervento?
Da biografo del mito di Garibaldi omaggiato dai riconoscimenti istituzionali e dal retorico Ciampi, ha tentato la difesa di quel che non si può difendere perché i documenti d’archivio sono chiari: la richiesta con firma d’onore del nizzardo – falso liberatore dei contadini del Sud – di un prestito in moneta corrente di un milione di € per il figlio Menotti al Banco di Napoli, mai restituito e disonorato.
Il grave ammanco di Garibaldi fu ben poca cosa rispetto al furto da parte del nuovo Stato Italiano: l’intera riserva aurea del Banco di Napoli e di quello di Sicilia, che rappresentavano quasi i due terzi delle riserve di tutte le banche del territorio nazionale. Un furto nei confronti del credito e dell’economia meridionale continuato fino all’esproprio recente e completo del Banco di Napoli. L’istituto di credito nato nel 1539, è stato fuso per incorporazione ufficialmente dal 1° gennaio 2003 nel gruppo San Paolo Imi di Torino. Non è più soggetto autonomo, come già avvenne per il Banco di Sicilia: pertanto, c’è stato il crollo finale delle storiche due grandi banche meridionali che con la Banca d’Italia battevano moneta fino al 1926. La stessa Banca del Salento è stata assorbita da un gruppo nazionale, Montepaschi, e trasformata in un’anglofona Banca 121, e il Banco di Santo Spirito, creato nel 1605 da papa Paolo V, è confluito prima nella Banca di Roma e recentemente nel colosso Capitalia, ecc…. Con la conquista del Sud, i capitalisti nazionali e internazionali colonizzarono il Mezzogiorno, programmarono lo sradicamento di milioni di emigrati per lucrare sulle loro rimesse, e ai nostri giorni utilizzano il risparmio dei meridionali per le loro speculazioni finanziarie e per l’ulteriore arricchimento delle regioni industrializzate settentrionali.
La storia ufficiale della nascita della nazione e il mito di Garibaldi non si toccano, così professa Scirocco.
Il mito di Garibaldi in verità, fu già utilizzato nella conquista della Sicilia al fine di creare consenso e seguito all’impresa dei Mille; difatti, fu spacciato dai gattopardi locali e nazionali per l’inviato della protettrice Santa Rosalia, e furono affissi manifesti firmati dal “Salvatore” impostore che promettevano un’equa spartizione della terra ai contadini. Garibaldi, al servizio del conquistatore Vittorio Emanuele II e delle alleanze internazionali, se ne guardò bene dal rispettare gli impegni propagandistici, e con fucilazioni sommarie eseguite da Bixio, represse i contadini siciliani che avevano creduto nel suo mito e che occupavano le terre della Ducea Nelson, tenute dei latifondisti inglesi a Bronte. Gli stessi consoli inglesi residenti in Sicilia distribuirono già dal febbraio 1860 ai contadini due milioni di piastre turche, del valore di circa 500 chilogrammi d’oro, per arruolarli contro i Borboni; la stessa vittoria di Calatafimi richiese un assegno di Garibaldi di quattordicimila lire (70.000 € attuali), e naturalmente il titolo di credito era scoperto e mai onorato. Questi i fatti.Concludiamo il nostro scritto, affermando che l’opera del citato Scirocco e dei suoi sodali- va scritto a chiare lettere e come risposta alle loro offese a tutto campo per il colonizzato Sud -, è nella tradizione di taluni meridionali trasformisti, veri e propri collaborazionisti dei conquistatori e dei gruppi dominanti settentrionali e internazionali: essi furono e sono traditori e denigratori delle ragioni, delle vicende e vite dei contadini–briganti, dei milioni di emigranti, dei nostri soldati forzati a combattere in trincee per guerre coloniali e imperialistiche, dei disoccupati, di operai e impiegati in industrie e servizi, di uomini e donne umiliati delle nostre regioni meridionali.
La Storia, quella seria – documentata - reale, non è strumento al servizio di lotte per il potere e per carriere accademiche.
La Storia ignora – smentisce – disprezza le false ragioni e gli storici di facciata.

Sebastiano Gernone
- Altri siti sul tema:
http://utenti.lycos.it/eleaml/sud/scirocco.htm
https://www.libreriaeditriceurso.com
http://utenti.lycos.it/colubrina

Dall’antica sapienza del Meditteraneo il film di Battiato

perduto amorPerduto amor il film realizzato da Franco Battiato è un'opera mediterranea. Qual è il significato di questa definizione?
Nel film la prima parte ci narra, con tratti singolari, l’infanzia e l’adolescenza di Battiato: le immagini e i dialoghi sono la memoria del cuore dell’amata Sicilia negli anni ‘50, delle scuole di cucito così frequenti nel nostro sud in quegl’anni, dei giochi con le trottole e delle scoperte da bambini, della vita di paese, del mare, degli spazi aperti, della cultura semplice e non ancora appiattita, con quelle singole personalità geniali che si sviluppano in circostanze poco favorevoli.
Successivamente avviene l’emigrazione avventurosa a Milano, il mondo dell’arte, musica e scrittura soprattutto, realtà alternativa rispetto a quella del boom economico che inizia la massificazione del paese.
Avviene in quegl’anni l’incontro a Milano, importantissimo per Battiato con Henri Thomasson, discepolo diretto di Gurdijeff, il gran maestro armeno che indicò nella Quarta via un sentiero per i ricercatori del vero, i veri rivoluzionari d’ogni tempo.
Non è forse Gurdijeff l’essenza della saggezza mediterranea, cosmopolita, antica, multietnica, religiosamente sincretistica, sufi (nell’interpretazione di danzatori dell’Universo), misterica?
Un film, come i dischi di Battiato, che lascia il segno profondo.
Belli i dialoghi dei protagonisti: Sgalambro, il filosofo - amico di Battiato, e Gabriele Ferzetti nel ruolo del mentore dell’infanzia e adolescenza di Battiato. Donatella Finocchiaro interpreta con intensità il ruolo della madre, figura centrale per il nostro che impersonato dall’alter ego Corrado Fortuna ci regala un’altra espressione della sua anima sensibile e unica.
Sebastiano Gernone
giugno 2003

LA NAZIONE FLIC FLOC


Il 10° presidente in occasione della festa della nazione ricordò tra gli altri punti ormai consueti, i "patrioti italiani del Risorgimento - Mazzini, Cavour, Garibaldi, D'Azeglio - ai quali ancora oggi va la nostra riconoscenza."
Il presidente insisteva sulla storia patria sin dall’inizio del suo mandato. La sua elezione era stata quasi plebiscitaria e al primo turno: espressione dell’uniformità della classe dirigente e del partito unico che non intaccava il gran capitale e i poteri forti del paese. Scomparsa la dialettica democratica tanto proclamata, si viveva un appiattimento da colonia dell’impero.
Il 10° presidente detto il mediocre, si adattava al compito di sintesi politica- economica- culturale del momento storico, in attesa dell’elezione diretta del capo della nazione
Politico nano tra i nani ed economista pratico di finanza, era stato governatore della banca centrale e presidente del comitato governatori della comunità, ministro del tesoro, del bilancio e programmazione economica; tra gli incarichi ricevuti conteggiava anche quello di presidente del consiglio italiano (sempre per mancanza di personalità politiche alternative), sostanzialmente la carriere di un tecnico prestato alla politica.
Il presidente 8°, uomo politico discutibile e oscuro, dalle mille trame e molto addentrato nel potere e nei servizi segreti, lo indicava in un suo scritto vicino ad organizzazioni massoniche che 10° "…ben conosceva per Sua personale cultura ed esperienza e per la Sua amicizia e frequentazione con alcuni suoi sodali antichi "fratelli"…10°era ricchissimo pensionato…non certo un grande economista, fu nominato Presidente del Consiglio dei Ministri per crisi della politica e del Parlamento; …e fu eletto per le beghe dei partiti Presidente della Nazione”
10°rappresentava politicamente ed economicamente l’equilibrio delle banche, della finanza e di un ceto politico mediocre.
L’altro aspetto a difesa della tradizione dei dominatori è quello culturale. Su questo punto 10° il mediocre si rilevava ancor più nel suo compito di rilancio del nazionalismo: visitava tutti i luoghi storici del Risorgimento idealizzato dagli intellettuali salariati, ed era d'obbligo il suo pellegrinare nel Piemonte di D’ Azeglio, Cavour e Vittorio Emanuele II (da lui definito "padre della Patria ", quel che era per i popoli meridionali VOLGARE 1°, conquistatore e criminale di guerra); lavorava alla celebrazione d’anniversari e comandava il restauro di lapidi risorgimentali, non tenendo conto degli studi recenti che smitizzavano l’unità fittizia della nazione ed evidenziavano che fu conquista militare – politica con l’aggressione contro innocenti, crimini di guerra e contro l’umanità, conseguente estirpazione dei popoli dalla loro terra natale, inizio di un razzismo culturale coloniale con propaganda contro i paesi aggrediti e conquistati.
Con questi presupposti occulti ai più il presidente 10° detto il mediocre festeggiò la nazione; alla sfilata erano presenti i rappresentanti ufficiali, in bella mostra sui palchi a ricevere consenso dalla popolosa gente credulona: famiglie nevrotiche con ragazzini ingabbiati in quartieri coatti e case televisive, fisicamente simili a pezzi di manzo, made impero. Molti i turisti , i curiosi e le casalinghe: è festa si va a vedere.
Sullo scenario dei fori antichi si esibirono tra folla sgomitante, telecamere e fotografi gli imponenti corazzieri a cavallo bardati in alta uniforme, in scorta all’ingresso sorridente del presidente accomodato in regale vettura scoperta; militari con bandiere insignite di medaglie d’oro e argento al merito, soprattutto delle conquiste interne e internazionali; gli immortali garibaldini e le organizzazioni combattentistiche sempre omaggianti alle autorità e ai regimi che si avvicendavano; pennacchi multicolori, bande musicali militari, divise gallonate sfilanti in pompa magna, elicotteri, pattuglie azzurre, sciabole esibite, trombette ottoni piatti tamburi rumoreggianti, e correndo festanti i pennuti bersaglieri al suono squillante del Flic – Floc.
Smarrito tra le masse grossolanamente “felici” e intruppate da transenne un uomo si chiedeva:
“Addò s’esce ?”.
Dalle parti delle mura del vecchio decaduto impero si leggeva spruzzata a vernice la protesta LAVORARE TUTTI LAVORARE MENO; tra gli altari e le colonne millenarie sprofondati, nel caos di macchine della città eterna, si aggiravano barboni gentili con buste, gatti e cani al seguito; il monumento al falso liberatore Garibaldi era tappezzato di manifesti dei disoccupati; nelle città IRRESPIRABILI gli oleandri, i papaveri e le violette arrancavano a fiorire.
Sebastiano Gernone
2 Giugno 2003

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