La fragilita' di vivere, di Orazio Parisi
27-05-2009 inserito da ciccio; categoria La nostra storia.

In ricordo di Antonio Caldarella

La fragilita' di vivere

discorso tenuto da Orazio Parisi sabato 23 maggio 2009 nella Sala Gagliardi di Noto in occasione di Poeticamente vivo - Omaggio ad Antonio Caldarella

Nella foto: Orazio Parisi e Francesco UrsoCi sono momenti della vita in cui incontriamo silenzio, nonostante i trilli frenetici dei telefonini, ci piomba addosso all'improvviso e, il piu' delle volte, ci atterrisce. Il silenzio: questa parola che crediamo a noi familiare, quando si palesa veramente, ci lascia sbigottiti, e ci rendiamo subito conto di non saperne nulla. Come lo Zarathustra di Nietzsche, esclamiamo: ''Mai avevo udito un tale silenzio attorno a me!''

Ma perche' il silenzio ci spaventa? Forse perche' la circostanza da cui esso scaturisce e' spiacevole? Forse. O forse perche' non troviamo le parole - parole sensate? E' certamente cosi'. Il piu' delle volte, comunque, a questa domanda non segue alcuna risposta. Il silenzio, come si dice, ci lascia muti. Ma, d'altro canto, e' proprio il silenzio a 'dirci' quanto contano le parole nella nostra vita. E allora, visto sotto questo profilo, il silenzio ci stimola
a riflettere e, quindi, ci mette in attesa... di qualcosa; di qualcuno; di qualche parola. E, quando apprendiamo che quel qualcuno non c'e' piu', cos'altro possiamo desiderare, se non qualche parola che rompa il silenzio attorno a lui e tenga vivo il suo ricordo?


Di Antonio Caldarella, oltretutto, non potremmo cercare altro che l'agalma, la preziosa agalma, scrigno dell'enigma, del desiderio e della stessa informe illusione, con cui egli e' riuscito, nonostante tutto, a 'contra-stare' la vita; cioe', la sua parola poetica. E quando troviamo questa parola, leggendo le sue poesie - le cose piu' preziose che Antonio ha avuto - il silenzio diviene un limite paradossale. Paradossale, per due motivi. Il primo e' che il silenzio non s'addice a un poeta. E persino alla stessa vita di Antonio, interamente sostenuta dal linguaggio; poiche' egli ha creduto veramente, e incondizionatamente, come ha scritto, di essere ''dentro un film / dentro un libro / dentro un quadro''. E ha creduto fermamente che la realta' non sarebbe'reale' - perche' tutto cio' che e' nella realta' e' riproducibile all'infinito nel gioco ripetitivo di nascita/morte, eterno ritorno dell'uguale - se in essa non albergasse da sempre il mondo del'simbolico', il solo a imprimere su ogni cosa il sigillo dell'unicita', emblema perfetto del dramma e del pathos vitale.

Il secondo motivo riguarda direttamente la circostanza - improvvisa, shoccante, agghiacciante - della sua scomparsa. Il dolore ci rende ebeti, afasici. Tuttavia, non lascia a lungo in silenzio; perche' e' comunque una parola, magari una parola paradossale, in quanto e' una parola, per cosi' dire, 'oltre il linguaggio', una parola che viene dopo tutte le possibilita' espressive delle parole, ma e' la parola del sentire profondo, del pathos. E, subito dopo il turbine di stordimento e silenzio in cui immediatamente trascina, comincia a dire qualcosa.


Cosa dice? Puo' non dire nulla... O puo' magari dire qualcosa di cui molti non riescono, purtroppo, a sentire altro che gemiti e indistinti rumori. Se il dolore sorge dagli oscuri e insondabili abissi del sentimento, occorre avere orecchie di poeta per potere bene ascoltare; e comprendere...


L'amigdala di Antonio era di quel livello superiore, capace di 'alfabetizzare' le emozioni, e non solo di conservarne i ricordi, come tutti, nel tragico silenzio dell'in-comunicabilita'. Per Antonio la poesia non e' un'attivita' letteraria, e', per dirla con Wallace Stevens, ''un'attivita' vitale. Per un vero poeta la sua poesia e' la stessa cosa della sua vita'', ''La poesia e' una forza distruttiva''. In Antonio la vita si mostra sempre con il volto, poetico e surreale, del 'desiderio'. Desiderio di cosa? (Si badi bene! Come per il silenzio, il desiderio sembra a noi talmente familiare che pensiamo di padroneggiarne facilmente il senso; ma, come titola un libro di Fulvio Carmagnola sulle figure di Agalma da Platone a Lacan, ''Il desiderio non e' una cosa semplice'', e non e' cosa semplice proprio per Antonio, come vedremo). ''Il cielo/mare - scrive Antonio - e' adesso davanti a me. Posso vederlo dal divano su cui sono solito leggere la sera, e cercarlo in terra, dai racconti di coloro che lo videro e ce ne fecero dono... l'oro di Montezuma, tesoro dei desideranti - come diceva A. Breton - nel suo Amour fou''.

Questo, che appartiene agli ultimi scritti di Antonio, generosamente pubblicati in un catalogo d'arte, non e' un dettaglio della sua opera - o della sua personalita'. E' tutto se stesso. E non e' casuale la citazione di Breton; perche' Antonio, per tutta la vita, non ha fatto, e detto, altro che quanto ha raccomandato Breton nel suo Amour fou: ''Si tratta di non lasciare, dietro di se', che i sentieri del desiderio si aggroviglino. Al diavolo ogni prigionia,fosse anche in nome dell'utilita' universale, fosse anche nei giardini di pietre preziose di Montezuma! Ancora oggi, se mi aspetto qualcosa e' soltanto dalla mia disponibilita', da questa sete di vagare incontro a tutto; e sono certo che essa mi mantiene in comunicazione misteriosa con gli altri esseri disponibili, come se fossimo chiamati da un momento all'altro a riunirci. Mi piacerebbe che la mia vita non lasciasse dietro di se' altro mormorio che una canzone di veglia, di una canzone per ingannare cio' che sopraggiunge, o non sopraggiunge, l'attesa e' in se' meravigliosa''.


Foto SalaScrive il filosofo Alain Badiou, a commento di questo passo di Breton: ''La figura di colui che veglia e'una delle grandi figure artistiche del secolo. La vedetta e'colui per il quale non esiste altro che l'intensita' dell'agguato, e dunque colui per il quale l'ombra e la preda si fondono in un unico lampo. La tesi della veglia, o dell'attesa, e' che non si puo' conservare il reale altro che restando indifferenti a cio' che sopraggiunge o non sopraggiunge. E' una delle principali tesi del secolo: l'attesa e' una virtu' cardinale perche' e' la sola forma esistente di indifferenza intensa.'' (A. Badiou, ''Il secolo'', Feltrinelli, 1998, p. 34).


Le due citazioni, di Breton e di Badiou, mi colpiscono molto. Attraverso queste poche ma essenziali righe vedo scorrere davanti a me tutta la vita di Antonio, almeno come l'ho conosciuta io: con la sua ''sete di vagare incontro a tutto'', come scrive Breton, e con la sua tenacia, persino caparbieta', nel voler ancorare i suoi sogni alla realta'; a qualunque costo, anche a costo di rimanere indifferente ''a cio' che sopraggiunge o non sopraggiunge'', come afferma Badiou. Con la sua giocosa e dolce ilarita' e con la sua, a volte pungente a volte malinconica, ironia - ma anche con la sua arguzia nell'accettare apparentemente quella 'leggerezza' della vita che in effetti non era affatto leggera, ma leggera diveniva soltanto nella trasfigurazione della sua arte - egli non ha voluto negare la realta'; al contrario, ha preteso piu' realta'. Ha preteso che anche i sogni facessero parte, e legittimamente, della vita reale. Ha reclamato, con tutto se stesso, la possibilita' di sognare a occhi aperti, di giorno e non solo di notte. E ha mostrato, e dimostrato, come diceva E. A. Poe, che chi sogna di giorno sa piu' cose di chi sogna solo di notte. E questa pretesa, tra l'altro l'unica pretesa della sua vita, e' stata per lui imprescindibile. Anche a costo di essere assassinato dai suoi stessi versi, cosi' come Montezuma fu assassinato con oro fuso colato in gola.


Questo scritto di Antonio si puo' considerare il suo testamento spirituale, una volta raggiunta la consapevolezza di aver 'giocato' per tutta la vita, come scrive egregiamente Nadia Fusini riguardo alla poetica di Wallace Stevens, con ''l'alfabeto che uccide'': ''L'alfabeto - che l'uomo per vivere debba giocare con tale pericoloso elemento, non e' questo (per Stevens - e io
aggiungo, per Antonio Caldarella) il problema?''.

Antonio ha avuto, dunque, piena consapevolezza di essere stato uno tra coloro che poetano, cioe' tra quelli che con la scrittura sostengono il vuoto della vita. Un vuoto, si'; ma un vuoto che non e' propriamente vuoto, come egli subito dopo scrive, se in esso, e con esso, come sempre accade, sia a chi poeta sia a chi vive, si scommette e si combatte per tutta la vita: ''Il pittore appartiene a questi esseri desideranti. Anch'io vi appartengo. L'ho riconosciuto dall'ansia che caratterizza il cammino degli esseri desideranti e che trova pace soltanto nello scontro, corpo a corpo con la tela; cosi' come io sono solito combattere con il foglio. Siamo compagni d'arme, della comune ricerca della visione di quell'ambito cielo/mare, cercato nelle ventose passeggiate mattutine e nel silenzio della calma piatta, foglio e tela della comunione serena con un caffe' dopo il segno e con un te' dopo il sogno. Il pittore adesso mi fa ammirare i suoi quadri e conclude con una smorfia che recita: Piu' di questo non so fare.Io gli leggo una mia pagina e dico: Piu' di questo non sappiamo fare. Quindi sereni ci avviamo verso l'orizzonte, dove mare e cielo s'incontrano, dove acqua e aria hanno colori cangianti e desiderosi di spleen, quali un mare ribaltato, dipinto e scritto da un sogno''.


Foto SalaAntonio capovolge il concetto di spleen: l'angoscia della vita non contamina l'arte, la poesia, come in Baudelaire, proprio perche' ogni cosa, egli dice, puo' essere 'ribaltata', non nel, ma dal sogno, cioe' dall'essere pienamente poeta e, quindi, 'indifferente' a tutto cio' che non e' arte. Tutt'al piu', il poeta puo' 'vivere' la dimensione del breakdown, dell'inciampo; 'piu' di questo non sa fare': inciampa nella vita, riconoscendo che il desiderio e' proprio l'elemento che allo stesso tempo dissimula e smaschera il vuoto della vita. E, aderendo al messaggio del surrealista Breton, canta in questo modo la
sua 'canzone'; quella stessa canzone con cui ha ingannato l'attesa. Non c'e' migliore inganno di questo: del sostenere la vita solo con il fragile sostegno della poesia. Strana fragilita', pero'! Se Antonio riesce con essa a urlarci negli occhi e prenderci a schiaffi per la nostra misera, e a volte tragica, inconsapevolezza: ''L'urlo dei sassi neri del vulcano / arriva
dall'acqua lenta dei secoli. / Il fragore della natura / e' uno schiaffo fortissimo. / Mentre inciampo nei tuoi occhi, / mi chiedo, / se riusciro' mai a portarti dove vorrei / e magari, conservare una tua foto / nella cornice d'un leggio. / Vorrei parlarti di certe stelle cadute, / tra un sorriso / e una nenia. / Anche di alcune lune scadute, / nell'attesa di un bacio. / Il mio urlo rompe il vetro di una lacrima.''.


Mi manca l'urlo di Antonio! Quell'urlo fragile ma capace di frantumare meravigliosamente le lacrime 'vetrificate' di tutti coloro che non conoscono i'rimedio' a un'esistenza che non persuade di nulla; che, un bel giorno, all'improvviso, si ritrovano con una solitudine raggelante, assurda; una solitudine, ancor di piu', che non lascia nemmeno soli con se stessi, ma soli perfino senza di se'. Quella stessa solitudine che, all'improvviso, sorprende
tutti noi sull'orlo di quell'abisso oscuro in cui siamo destinati un giorno, qualche giorno impossibile, come direbbe Valery, a sprofondare: l'abisso oscuro del silenzio.

Ma ancora qui, come a sorprenderci, Antonio ci urla in viso, gioiosamente, il 'rimedio', senza nessuna pretesa, senza nessuna consolazione: ''C'e' sempre un giorno - scrive - in cui qualcosa ha fine / e splendidamente, altro inizia, / ti sorride dietro una tenda / ed attraverso lei / ti sfiora e poi ti tocca / leggero e forte. / E' far l'amore con un'onda di stoffa. / Ma tu sai che ti si svelera' / nell'attimo in cui la luce / riflessa dai tuoi seni / ti bacera' gli occhi stanchi / e aperti, dilatati nell'amore primo. / C'e' sempre un giorno che sembra notte e si fa giorno. / C'e' sempre una notte che sembra giorno / e lo e'. / Splendidamente, altro inizia.''.


E il 'rimedio' e' sempre uguale: il desiderio della poesia, il componimento, l'opera d'arte: la piu' sublime tra tutte le opere dell'uomo, perche' le comprende tutte, e tutte rende degne. Perche' da' senso a tutto cio' che della realta' appare vuoto, incomprensibile, assurdo. Con essa perde d'importanza tutto cio' che e' fine, finito; diviene invece splendido tutto quanto e' inizio, cioe' tutto quel che opera: l'opera e' sempre 'in opera'.
L'opera certamente non scongiura la fine, l'inevitabile fine, di tutto, di tutti. L'opera e' semplicemente, e splendidamente, indifferente alla fine. L'opera reclama, en abyme, che la notte sembri giorno; e lo e', ci dice Antonio. Con l'opera, tramite l'opera... solo con l'opera non puo' esserci notte, ossia non puo' non venire 'in luce', splendidamente appunto, tutto quel che della vita e' oscuro, vuoto, incomprensibile, assurdo... notte. L'Arte, solo l'incanto dell'arte (della pittura, della poesia, della musica...), cancella il senso della morte. In questa sua 'affezione' all'Arte, Antonio mostra il suo aspetto, per cosi' dire, spirituale, in quanto per lui l'opera d'arte diviene la testimonianza che l'indifferenza alla o della vita ha in essa un limite pressoche' assoluto; come a dire: la morte e' il limite della vita in se', non della vita dell'opera, perche' l'opera d'arte non muore mai.

Foto Noto LilianaPerche', allora, abbiamo cosi' tanto timore della morte? Perche' la morte e' l'unica vera minaccia alla nostra identita': perche' non possiamo appropriarcene; perche' nessun 'io', davanti alla morte, puo' dire ''io''. Solo la morte ci rende estranei a noi stessi: non siamo noi i padroni della morte, della nostra stessa morte. Epicuro diceva che quando ci siamo noi, la morte non c'e', e quando c'e' la morte, noi non ci siamo. Questo in fondo significa anche che la morte non sta di fronte a noi, sta gia' alle nostre spalle; essa e' la misura della nostra 'autoestraneita'': siamo stranieri a noi stessi, la nostra identita' non e'altro, come sostiene Giacomo Marramao, che la 'medieta'' del tempo che, nel momento stesso in cui diciamo ''io'', ci ha gia' travolti; l'identita' e' in effetti un'illusione, cosi' come lo e' il possesso, il possedere. Emblematico e' il fatto che non possediamo nemmeno l'amico. L'amico, diceva sant'Agostino, che e' la persona piu' vicina a noi, e' allo stesso tempo incommensurabilmente distante da noi: il mio amico, in realta', non e' 'mio'. Come dice Antonio in una bellissima poesia, riecheggiando nel titolo una canzone di Fabrizio De Andre', siamo tutti ''amici fragili'':

''Si', sono il tuo amico fragile, / quello per cui ti preoccupi / quando non hai di meglio da fare; / quello per cui stai in pensiero, / senza pensare, e da cui ti aspetti / una morte dolce, leale, o che almeno / tu non sia impegnato / il giorno del funerale. / Sono il tuo amico fragile, / specchio della tua deriva, / scivolo della tua caduta, / urlo del tuo silenzio. / Guardami negli occhi! / Si', sono il tuo amico fragile, / quello di cristallo, di vetro soffiato, / quello a cui attraverso vedi tutto. / L'hai scampata bella, / avendo un amico fragile come me! / La musica, l'arte e la poesia / purtroppo nascono da un disagio / e si nutrono degli amici fragili, / quelli come noi, che sinceramente / possono anche, o assolutamente / fare a meno di te; perche', si'!, / sei tu il mio amico fragile, / perche', si'!, sei tu la mia amica fragile. / Ti bacio, perche' ignori la mia forza / e non conosci alba e tramonto / e non hai mai risalite, cadendo''.

Per il poeta, fragile e' la vita, fragile e' il vivere la vita, ma fragile e' anche il mostrare la pur evidente fragilita' di ogni cosa, perche' questo compito e' della poesia, dell'arte, e la poesia e l'arte sono solo immaginazione, niente di piu' che pura immaginazione: il desiderio, d'altronde, e' solo desiderio, non e' soddisfazione; il desiderio dona l'opera, ma e' un dono eccessivo, e' un dono di qualcosa che non si possiede, perche' l'opera, ripeto, e' come la vita, sempre 'in opera', non soddisfa mai. Ecco perche', purtroppo egli dice, la musica, l'arte e la poesia nascono da un disagio: e' il disagio di esser parte di questo mondo, di appartenere alla realta' della vita che rinnega l'immaginazione perche' disconosce la sua stessa vacuita'. Ma, proprio perche', nonostante tutto, in questa vita c'e' anche il poeta,l'assenza di immaginazione - per dirla con Stevens - doveva tuttavia essere immaginata. E di cio' dobbiamo ringraziare anche Antonio, per sempre! In un'intervista, Nadia Fusini ha detto: ''Per me gli scrittori non sono eroi di un Pantheon che sacralizza il successo: sono creature che hanno conosciuto spesso in vita il fallimento, patito dolori e sventure, e che testimoniano dell'unica immortalita' in cui credo. Quella dell'opera''.


Orazio Parisi


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