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piazza di AvolaDa La Sicilia sabato 11 agosto 2001

In piazza, aspettando un qualcosa
di Sebastiano Burgaretta

"Cos'è successo in questa vasta, solare piazza d'Avola?". Questa domanda si poneva Vincenzo Consolo nel suo libro L'olivo e l'olivastro, entrando in quella piazza che era stata in altri tempi "teatro d'ogni incontro, convegno, assemblea, dibattito civile" e che ora "è vuota, deserta, sfollata come per epidemia o guerra, rotta nel silenzio dal rombare delle motociclette che l'attraversano nel centro per le sue strade ortogonali, occupata ai margini, sui gradini della chiesa, nell'ombra dei portali, da mucchi di giovani con l'orecchino al lobo, i lunghi capelli legati sulla nuca, che fumano, muti e vacui fissano la vacuità della piazza come in attesa di qualcuno, di qualcosa che li scuota, che li salvi. O li uccida".

Da allora sono passati sette anni, ma quella accorata domanda dello scrittore di S. Agata Militello, che allora aveva i contorni di una forte denuncia, assume forse oggi l'amara valenza di una profezia circa il diffuso disagio esistenziale e sociale che si consuma nell'ambiente giovanile della città. Avola è probabilmente la città siciliana col maggiore numero di motorette e ciclomotori usati esclusivamente per diporto e a bordo dei quali i giovani scorrazzano continuamente dappertutto, ma in modo massiccio ed estenuante, quasi al limite della patologia sociale, nelle ore serali in alcuni punti nevralgici per la circolazione urbana, con conseguenze facilmente immaginabili. Ne sanno qualcosa gli abitanti dell'infelice e tormentato viali Lido, che da anni sono costretti a vivere nell'inquinamento più totale: acustico, gassoso, igienico, ecc.

Pur avendo a disposizione decine di ampie piazze, i giovani avolesi amano concentrarsi in gruppo sempre e soltanto nei soliti posti lungo il viale, oppure vanno su e giù con i loro mezzi per ore e con poco rispetto del codice stradale. Se interpellati al riguardo, dicono che amano concentrarsi tutti in quel luogo e in quel modo, per sentirsi più uniti e meno soli, e, quando sono più sinceri, aggiungono, per separarsi dagli adulti, al cui controllo intendono sottrarsi. Sono davvero pochi quelli che non cedono al conformismo e affrontano il rischio di essere isolati o emarginati da gruppo, scegliendo di frequentare altri luoghi.

E dire che in città non mancherebbero le occasioni di incontro e le opportunità di confronto sociale e culturale.

Operano infatti attivamente ad Avola varie associazioni di volontariato, sia religioso sia laico, esistono club e associazioni culturali e sportive di vario genere, opera, con i risultati che tutto il mondo conosce, il Telefono Arcobaleno fondato da don Fortunato Di Noto. Infine, la città ha la fortuna di avere una fornitissima libreria, la Libreria Editrice Urso, che è anche attivo centro di promozione culturale. Proliferano comunque, e non a caso, palestre e centri di fitness, per la cura del corpo e dell'immagine esteriore dei giovani. Eppure qualcosa nel mondo giovanile cittadino non funziona come dovrebbe.

Sono lontani, per intenderci, i tempi in cui i giovani studenti avolesi si univano ai braccianti in lotta nelle strade di Avola. I giovani sono lasciati soli, talvolta, come ha ripetutamente denunciato in pubblico don Di Noto, quasi allo sbando, con i loro problemi, le loro ansie, le loro paure e i loro disagi esistenziali e sociali. Vivono generalmente dialogando poco con gli adulti, ma da questi tuttavia garantiti nelle loro esigenze esteriori e mantenuti anche nelle loro pretese sociali e, per così dire, di immagine. La mancanza di dialogo affonda assai spesso le sue radici nei complessi psicologici ed esistenziali non risolti ma rimossi dei genitori, da una parte, e, dall'altra, nel bisogno che i giovani hanno di apparire a tutti i costi come gli altri, nel contesto del consumismo omologante di massa indotto dal processo galoppante di globalizzazione totale e totalizzante, nonché nel bisogno di trovare nel "gregge" quella identità personale che dovrebbe renderli e-gregi ma che stentano a darsi e che di sé vogliono comunque trasmettere agli altri. Cresce poi in virtù di una specie di tacito compromesso, in base al quale i genitori forniscono i beni materiali, la motoretta e la paghetta settimanale necessari a che i giovani si possano presentare al gruppo con le necessarie credenziali, cioè in condizioni, per così dire, di pari dignità, per essere all'altezza del livello e del tono di vita del gruppo, mentre i figli, dal canto loro, se ne possono stare tranquilli con gli amici, senza dover "minacciare", all'indirizzo dei genitori comprensivi, cedimenti o scivoloni verso i temuti e risaputi abissi del disagio giovanile del nostro tempo, ma magari, anzi certamente nei casi migliori, segnalando affettuosamente, con l'immancabile telefonino personale, la loro presenza qua e là, tra serata e nottata, a maggiore "tranquillità" dei genitori. Questo è il rapporto tipico che intercorre tra genitori e figli.

Tutto all'apparenza sembra funzionare. Nemmeno un lontano sospetto di ricatto psicologico, da una parte, né di colpevole accondiscendenza, dall'altra. Se, però, si affronta esplicitamente il problema, viene subito fuori tutto il retroscena di questo, si fa per dire, modus vivendi. Il dito accusatore finisce puntato sull'assenza di dialogo e sulla rinuncia, da parte dei genitori, all'esercizio di una sana ed equilibrata loro autorità, vuoi per incapacità, vuoi per paura, vuoi per disinteresse. Come nel resto della nazione, tale rinuncia si è progressivamente estesa, anche se l'ipocrisia generale ostentatamente si ostina a negarlo, alla scuola e alle istituzioni pubbliche in genere. Lo dimostrano l'impunità di fatto che caratterizza le varie forme di vandalismo contro i beni pubblici e le continue e diffuse infrazioni al codice stradale non perseguite, come dimostra l'esempio del casco per i motociclisti.

È via via apparso facile e comodo abdicare alle pro-prie responsabilità da parte di molti che hanno, a vario titolo, autorità da esercitare, perché sottile e arduo, benché lontanissime tra loro ne siano le dimensioni di pertinenza, si presenta il discrimen che separa l'autorevolezza dall'autoritarismo. Fa paura la stessa parola autorità, la cui felice etimologia purtroppo viene ignorata. Tutto finisce per apparire come permesso oltre che possibile, lecito oltre che fattibile. Da qui al delirio di autosufficienza e, peggio ancora, di onnipotenza il passo è breve, per cui si può arrivare alla registrazione in cronaca di casi di anziani impunemente percossi da adolescenti per questioni di precedenze stradali non rispettate e prese con la sopraffazione e la violenza, spesso, ahimè, sotto lo sguardo impassibile della gente. Il lato triste della questione è che, pur essendo la crisi del principio di autorità in teoria riconosciuta da tutti come il nodo centrale del problema e pure avvertendosi la necessità che qualcuno, qualcosa scuota i giovani e contribuisca a responsabilizzarli, non si ha tuttavia poi la forza o il coraggio di responsabilizzarsi in prima persona, per avviare un'inversione di tendenza, né da parte degli adulti, che sono restii ad ammettere un "fallimento" personale, né da parte dei giovani, che troverebbero scomodo essere riconosciuti e additati come diversi dal resto del "gregge".

Eppure, se interpellati personalmente, quasi tutti dichiarano di non essere contenti della loro vita nella loro città e di desiderare di volerla diversa, così come vorrebbero diversa la gente e migliori i modelli di comportamento. Quando poi il disagio si fa più vivo e soffocante, si spera, da parte dei giovani, di partire, per lasciare la città e cercare altrove, magari con l'aiuto di una vincita a qualcuno dei tanti Lotti esistenti nel mercato nazionale, la soluzione ai propri problemi, e ci si augura, da parte degli adulti, che i giovani vadano via, trovino una "sistemazione", alleggerendo del loro peso la famiglia di provenienza. Insomma, la fuga o l'evasione come soluzione, dal momento che il terreno da scavare personalmente in termini di dialogo e di approfondimento interiore conserva tutta la sua durezza. Per chi non "fugge è l'attesa di qualcuno, di qualcosa che li scuota, che li salvi. O li uccida".

Per lo meno per la maggioranza di essi.

Sebastiano Burgaretta

 

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