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L'inchino di Obama

Un uomo di colore chinato, quasi in segno di riverente omaggio. Un bambino, anch'egli di colore, lunghi pantaloni neri, camicia bianca, cravatta regimental, che con la manina destra delicatamente gli tocca i capelli. Accanto il papà, la mamma e il fratello. Alle spalle del piccolo la scrivania che fu di Georges Washington, la bandiera degli Stati Uniti d'America, alcune foto incorniciate.

ObamaIl fotografo della Casa Bianca ha immortalato sul negativo quella che a mio avviso è la foto più bella del Terzo Millennio, in una scena svoltasi nella sala ovale, mentre il presidente Barack Obama riceve un “marine” e la sua famiglia.

Jacob, cinque anni, ottenuto il permesso chiesto dal papà al presidente di rivolgergli una domanda, chiede se i capelli di Obama sono come i suoi.

La risposta che ne riceve è l'inchino del presidente con le parole “Prova”. E Jacob ubbidisce.

Questa foto, che per ora ho ritagliato della prima pagina del Corriere della Sera di venerdì 25 maggio 2012, ma che procurerò di avere in più bella edizione, verrà da me affissa, nel mio studio, alle spalle di dove sto scrivendo, accanto al quadretto manufatto che ad Harlem acquistai nel 2009, che raffigura i profili a confronto di Martin Luther King (I have a dream, 1963) e di Barack Obama (The dream is here, 2008): il Sogno e la sua realizzazione.

Qui, in questa stanza che come ossimoro doppio mi è “Tana, Trono, Trappola”, dell'edificio posto di fronte alla Chiesa Madre, nella piazza principale di Avola, la città esagonale sorta dopo il terremoto del 1693 che distrusse Avola Antica, obbligando i superstiti a rifugiarsi a valle, in prossimità del mare Ionio, che nel parallelo e più a sud di Tunisi. Qui, a Caposud d'Europa, provincia di confine e di frontiera porta di uscita e di ingresso da e verso il vecchio Continente.

Qui, dove Il Sogno mediterraneo di Ludovico Corrao - della integrazione dei popoli di tutto il bacino dell'omonimo mare - forse mai si realizzerà, per la più semplice ragione già di esistere: cioè di essere una realtà che il mondo Arabo, il Magreeb, ha impresso con sua cultura nel Dna di noi Siciliani attraverso la dominazione, e di tutti i popoli limitrofi al Mare suddetto per contiguità.

Qui, dove scrivo sono di fronte l'Africa. Arrivano già i primi conati del Ponente che, d'estate, fa segnare i 50 gradi all'ombra.

Ah già, l'Africa. Il Continente ancora primitivo, dove miliardi di esseri umani vivono in condizioni di estrema miseria, di difficoltà, di sopravvivenza e tanti bambini che ogni giorno muoiono per denutrizione.

Un litro di latte ne salverebbe taluno. Ma non c'è. E nello stesso istante in cui un bambino di colore muore per il motivo anzidetto un altro essere umano a New York, a Washington o in qualunque altro posto del globo si accende il sigaro al ristorante con una banconota: da 10 dollari, da 10 euro, ovvero...

Obama si inchina dinanzi al suo simile, al suo futuro: un bambino a cui fa toccare i capelli per dargli conferma che i capelli di entrambi sono uguali. E uguali non sono solo i capelli, ma anche il colore della pelle, le menti, i cuori...

Ho vissuto da giovane la lotta per l'integrazione razziale. Le grandi marce, le grandi battaglie, il famoso discorso di M. L. King dell'agosto 1963: “Ho un sogno”. “Che un giorno i miei quattro figli non siano giudicati per il colore della propria pelle ma per quello che sono. Che un giorno lassù sui monti della Georgia i figli degli ex schiavi possano sedere allo stesso tavolo della mensa accanto ai figli degli ex schiavisti. Che...”

Per concludere che quando ciò accadrà potremo cantare “...Liberi finalmente, liberi finalmente, o Dio onnipotente noi siamo liberi finalmente”.

Una lunga, interminabile battaglia quella della integrazione razziale, che coinvolge il mondo della cultura tutto: chi non ricorda Indovina chi viene a cena, con due splendidi Spencer Tracy e Katharine Hepburn? Dialoghi come sculture.

Il Terzo Millennio ha dato al globo una lezione di civiltà che viene proprio da quel popolo – gli Usa – che bruciavano, impiccavano, assassinavano, maltrattavano, sottopagavano, ponevano in condizioni di schiavitù i neri, anzi i negri, tali per il diverso colore della pelle: Il Ku Klux Klan docet!

Ora hanno eletto a presidente della Nazione più potente del mondo un uomo di colore: una conquista di libertà, un segno di grande maturazione. M .L. King non crederebbe ai suoi occhi.

Come Gandhi, il Mahatma, la grande anima, che lottò con l'arma unica della non-violenza per affrancare, riuscendovi, 500 milioni di uomini dalla schiavitù e dalla colonizzazione.

Quell'uomo, parlando del quale Albert Einstein disse: “Le generazioni future stenteranno a credere che su questo Pianeta sia esistito un essere come lui”.

Quell'“avvocato di provincia vestito da fachiro”, tale apostrofato da Winston Churchill, non riuscirebbe a credere che il suo popolo oggi è fra i più progrediti della terra, che sforna i migliori ingegneri al mondo formati in patria.

Quella foto... L'inchino di Obama è il segno umano, civile, dignitoso, di un grande uomo che nell'insegnamento di Kipling – ...se tratterai il trionfo e la sconfitta come due impostori... – si lascia toccare da un bambino, al quale in una ideale consegna porge il testimone lanciando un messaggio forte che la Rivoluzione francese nel 1789 sintetizzò in “Libertà, Fratellanza, Uguaglianza”.

Così sia.


Giovanni Stella

Dal Catalogo della Libreria Editrice Urso
scritti di Giovanni Stella attualmente in commercio

 

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in stampaSalvatore Di Pietro
Il cancello chiuso (ingresso gratuito)
2012, 8°, pp.
80
Collana Mneme 37
ISBN 978-88-96071-92-2

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Chi ha avuto l’opportunità e il piacere di leggere la recente raccolta di racconti dal titolo Nella valle dell’ozio di Salvatore Di Pietro, sa che al Nostro piace giocare un po’ con il lettore, avvincerlo e a volte un po’ confonderlo con situazioni spesso strane che si snodano fra l’ironico e l’assurdo. Non si sorprenderebbe, pertanto, leggendo, come io non mi sono sorpreso, questa sua primizia, Il cancello chiuso, un racconto inedito che scorre nello stesso alveo gradito dalla penna del Nostro.

  Qui, anzi, il gioco si spinge ancora più oltre in direzione del paradosso: il protagonista giunge presso un cancello chiuso al di là del quale c’è una strana città nella quale riesce a entrare soltanto scavalcando quel cancello che il custode, ripetutamente invitato ad aprirgli, non si è preoccupato né di farlo né di rispondergli.

  Si viene così a trovare in una città di morti, che è appropriata metafora (nel sentire, non senza qualche ragione, di Di Pietro), della città dei vivi nella quale il protagonista vive...

Benito Marziano

 

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