GIARDINO ZEN AVOLA Pagine [1] [2] [3] [4] |
Quale
sentiero per luomo ? Di
come un sogno uscì da se stesso I vecchiardi della valle incantata
ci dissero che aldilà dei canali avremmo osservato una parte
del mondo che ci era stata promessa dai sornioni e astuti indagatori
di tarocchi. Non potemmo giurare sulla fiducia nei centenari della
valle però promettemmo loro la nostra partenza. Quegli anziani
erano sette e non molto saggi a notar dai logori scialli legati
alle gambe. Anche il colore dei loro volti non ci dava molto affidamento.
Erano di pelle cobalto con striature sottili e vagabonde di carminio,
al contrario dei veggenti al tarocco che invece erano di un bel
solido verde e arancio e dalle mani azzurro cristallino. Uscimmo dalla valle ansiosi di nuove
scoperte, gli occhi dilatati ad assorbire vasti orizzonti che, alla
luce delle dimensioni appianate di Euclide, vasti non erano proprio.
Vasta e profonda scoprimmo era la fame e ancor di più la
sete. Rinviammo all’indomani gli innamoramenti-flash con i
panorami dedicando forza e acume alla ricerca di vettovaglie. Su tutta la distesa non c’era
un solo albero da frutta né orti di cavoli oblunghi, zucchini
quadri, alberi-lattughe o pomodori dalla polpa saporosa di triglia.
Neanche una gallina in vista per
un’omelette al tartufo siberiano con germogli di canne palustri
e pinoli di Tamanrasset. Ci era stato comunque insinuato che le
galline del pianeta DD (Dreamtime Dimension) erano sterili. Né scavando la sabbia corallina
emersero radici di bergamotto e cannella. Fummo costretti a digiunare,
ci consolammo pensando al povero Gandhi che si trovò desellato
e monumentato da complotti più grandi, indianamente segreti,
di quanto la storia da pizza al tarassacco ci abbia siringato. Digiunammo
sapendo che anche la salute era irreale nel pianeta dei rododendri
nani ma bere, no, bere dovevamo sennò chi ci avrebbe evitato
la fine della tigre nel deserto del Gobi mentre azzannava una yurta
vuota? Si dice che la tigre si aprì,
con una striscia di cuoio duro della yurta, una grossa ferita ad
una gamba posteriore per bere il proprio sangue ma non potendo stirare
il collo sino al taglio morì non solo disidratata ma anche
dissanguata. Il nostro gruppo, rappezzato da dodici
sognatori di pace, si chiamava Dreamtime Company. Una sorta di omaggio
agli aborigeni australiani. Ma anche alla dimensione spazio-atemporale
nella quale vivevamo. Cantare, danzare, suonare era il
nostro esercizio dell’anima, ricreammo il jazz di New Orleans
per l’uso di cembali, sistri, arpe e violoncelli. Barklove,
una ragazza della banda, d’origine Armena o qualcosa del genere,
tamburellava gli alberi quali strumenti di “percussione d’amore”. Junglaboy, sottonipote di Tarzan e Jane, vissuto sempre nei boschi tenebrosi delle motropolitane, suonava invece un didjerido che si portava sempre appresso da una delle sue misteriose scomparse presso gli sciamani dell’East Kimberleys.
Didjerido
Spesso ci costruivamo
gli strumenti manipolando selci, lunghi steli d’erba, rami
di nespolo, ciotoli, e foglie di loto. Canopius, uno che veniva
dall’isola delle tartarughe, soffiava in un teschio di bisonte
ricoperto d’oro. Triko invece, che da bambino aveva ascoltato
melodie di trinacriose lupare, creava lamentazioni colorate ditando
il maranzano. Per lungo tempo usammo il canto gregoriano, ovviamente
rivisto e riciclato. Eravamo andati
da mari a terre in cerca di strumenti antichi, dai poteri acustici
segreti, rivelanti, catartici, illuminanti. E di Maestri che ce
ne insegnassero l’uso ché senza Maestri ci sentivamo
perduti. Trovammo rare
terrecotte cinesi ma il loro suono era troppo sibilante, acuto,
piatto. Ci furono regalati strumenti indiani dalle vibrazioni di
apparenze culminanti come il Basuris, il Sarod, la Veena. Scoprimmo
anche il dolce flauto Khangling dei Ladakhis, il flauto persiano
Nay, i flauti cinesi Yu dalla voce voluttuosa, di penetrazione organica. Joublette, la
gallo-balalaika ultima immissione nel minilab della coscienza, ebbe
in dono alcuni timpani, atabales,
Maya in legno cavo de sonido pesado y triste, dal suono grave
e triste. Ma era un suono che condivideva la saggezza degli alberi
andini di millenaria nascenza. Come il suo omologo fenicio, cioè
mediterraneo, tammurro che é vivace, ballerino, incostante.
Può essere osservato nei dipinti degli orci ellenici. La nostra aspirazione
ultima era pervenire alle radici del suono; il suono della danza
shivaita; il suono della trasformazione elementare, alchemica; il
suono che dà inizio alla vita nella placenta cosmica. Il
suono nella sua natura di comunicazione primeva, il suono quale
voce intima e atemporale dell’anima, della mente che sa vedere
oltre l’ event horizon dove la velocità
della luce non è più una costante, non è più
termine di referenza; il suono nella sua essenza di espressione
dell’assoluto, assoluto significante la dimensione, o una
delle dimensioni, della comprensione trascendente. In Sanskrito
si chiama Prajnaparamita oppure Nirvana. I Cristiani dicono presenza
di Dio, gli Hindu convertono il lemma in Brahma e chiamano il suono
nada (che si pronuncia
naad), gli Islamici hanno un luogo di felicità assoluta.
Tutti esprimono lo stesso bisogno di liberazione ma tutti usano
dizionari differenti, tutti hanno disparate visioni, tutti mistificano
attraverso l’etnicità dei linguaggi. L’infelicità
della parola, la sofferenza dei vocabolari! Il suono come
sentiero verso la comprensione dell’esistenza, il cammino
che porta alla dissoluzione del desiderio, alla liberazione dall’attaccamento,
alla trasformazione del sé, alla realizzazione del non-io.
Un koan chiede:
due mani che battono l’una contro l’altra emettono il
suono dell’applauso. Quale suono emette una sola mano? Sappiamo
che il koan è soltanto un mezzo abile per stimolare la mente
a oltrepassare il signficato immediato della verbalità, non
c’è risposta al koan perché una mano non emette
rumore eppure una risposta c’è perché una sola
mano non è una entità indipendente, autonoma. Non esistono koan
a cui si possa rispondere, perché non sono domande ma stimoli,
suggerimenti, indicazioni, sfide all’ozio della mente. Vidi
una volta, in un’altra dimensione, la pubblicità di
un libro, una sorta di antologia di tutti i koan cinesi e giapponesi
con relative catalogate risposte. No comment! Il cerchio resta
aperto, l’integralità si manifesta nelle singolarità
apparenti. É questo suono che volevamo indagare, è
questo suono che volevamo vivere. Ascoltavamo i
suoni delle foreste, le melodie e le tempestose risonanze delle
nuvole in trasformazione. In stato di meditazione potevamo percepire
il battito delle ali di uccelli nei cieli, la gioia delle foglie
nell’azione di assorbire la luce e donare nuova linfa alla
vita degli alberi.
* Ma dovevamo bere.
La nostra stessa esistenza era in pericolo. Ci affidammo alla grazia
degli dei. Invocammo il piccolo
dio del Texas, un sabbioso pianeta della mitologia waspiana, con
danze e canti non sempre rispettosi e armoniosi, tuttavia il divino
pastore di vacche, dopo qualche ora, nella sua compassione, ci inviò
uno stormo di gru coronate e ognuna di esse aveva appeso al collo
uno jerrycan colore dell’alba a Samarra.
La nostra gioia
fu macdonaldianamente euforica, ruscelli di bollicine clonate ad
Atlanta sgambettavano dai pori degli occhi mentre correvamo all’incontro
con gli alati messeri di Huston cui assegnammo il tassonomico di
idrofori.
Driedskin, è
il nome di uno della company, sgattò sulla schiena del più
vicino avionico, l’abbrancò di sinistro mentre svelta
la destra-le destre sono sempre immancabilmente leste- gli scollava
la corba di plastica non biodegradabile. D’un pugno ne svitò
il coperchio, anch’esso di plastica fertilizzante alla diossina,
e se lo inchiodò alla bocca avida di erbosa frescura. Driedskin, siamo
grati alla sua irresistibile avidità, siderale divenne all’istante
proiettando se stesso contro il cielo che si attardava a scurarsi
mentre un filo di liquido carbonaro gli serpeggiava dalla gola sul
petto. Lo ancorammo d’acchito
prima che svanisse, come un polipo incollerito, negli anfratti tortuosi
e jungleschi dei cirri alla melassa cubana. Quest’affare
inconsueto non ci fu previsto dai taroccari né gli antenati
della valle ci misero all’erta. Impauriti dalla faccia contorta
di Driedskin lasciammo i pennuti da parte, non toccando i plasticati
dell’acqua per quanto la sete cominciasse a bruciarci le budella,
e ci affannammo sul corpo epilettico del compagno il quale d’improvviso
si rimise su talloni e ci guardò di uno sguardo incredulo
e cattivo. Allargò
le gambe, arcuò soldatescamente le braccia sui fianchi e
tuonò: acqua non è, il dio vaccaro s’è
burlato di noi, ci ha mentito. É petrolio. Niente acqua niente
vita. Cartapecora diventiamo, parcemino! Sbalorditi fummo
incapaci di commento, poi Kyra disse: è il dio dei bugiardi
e un sottodio dell’olio nero che gli fermenta sotto i piedi
là dove pascola vitelli già grigliati e capre sterili.
Abbiamo danzato e cantato per niente. Tristezza modulava
d’attorno, le voci divennero sospiri. Enoch propose
di tornare indietro ma i portali della valle, lo sapevamo già,
erano chiusi e invalicabili.
* Vagammo a vuoto
fra deserti e savane, montagne e pianure di cloro. La stagione dei
fiori d’acqua era lontana e i pochi saguari che vedemmo sudavano
solo aria secca. Alle soglie della disperazione ci sedemmo in cerchio,
prendemmo i nostri strumenti e dedicammo l’ultimo canto al
momento che sapevamo prossimo della nostra trasmutazione genetica. Triko chiese al
maranzano, che usualmente non è molto allegro, di convertire
le aspre note di metallo in armonia di gioia. Noi seguimmo e nell’arco
di un tempo non definibile l’intorno tremò, sussultò,
danzò nel cuore della nostra musica; dal cielo scesero gabbiani
rosa e falchi dalle ali a foglie di ginkgo biloba, le gazzelle trottarono
a frotte per adagiarsi sulle ginocchia e acoltare, alcune nuvole
dall’odore di curry indiano scesero ad avvilupparci e d’un
tratto sentimmo la frescura di ruscelli e dolci acque di laghi. Poi la stanchezza
ci obbligò ad arrestare la musica, i cirri scomparvero e
davvero potemmo vedere nastri d’acqua intersecarsi in arabeschi
di trasparente felicità. Lentamente ci avvicinammo ai canali,
affondammo i nostri corpi nell’acqua dal colore di brezza,
bevemmo, nuotammo e tutti si ritornò insieme in silenzio,
ancora ebbri di stupore, al cerchio del suono. Nessuno però
toccò gli strumenti. Le nostre menti sapevano che avevamo
appena ascoltato il suono che scorre nelle vene dell’universo. Ma sapevamo anche
di non averlo immesso nelle nostre vene. Yelaina, ch’era
nata nelle steppe Siberiane, propose di dare un’occhiata dietro
le sinuose colline da dove i ruscelli scendevano e veder se c’erano
erbe da mangiare o frutti. Tre di noi partirono, fecero il giro
di una collina e ritornarono carichi di lattughe rosa, cetrioli
al tulsi, agli con l’anima di prezzemolo e cento meraviglie
ancora a noi sconosciute ma dal profumo acuto e tentatore. Junglaboy,
l’imprevedibile, spuntò dal nulla con un sacco di yuta
verde alla spalla, gonfio di qualcosa. Con l’aria
sorniona che gli era solita, tese il braccio destro verso di noi
e sorrise: Immaginate? Immaginare cosa? Rispondemmo in coro. Questo, disse
lui, e brandì il sacco verde. Noi restammo muti e in attesa
che ci svelasse qualche mistero davvero inconsueto; cosa avrebbe
potuto stupirci, noi i viandanti dei misteri? E misteriosamente
Junglaboy affondò il braccio nel sacco e ne trasse una manciata
di fili rigidi giallastri fitti di puntini colorati. Vedete? Vediamo. Cos’é
? Bohhhh!!!!!!! Guardate bene,
avvicinatevi, toccate, gustate. Canopius strisciò l’ombra
della sua immobilità verso Junglaboy, staccò un segmento
di filo, l’apportò alle narici per odorarlo, se lo
mise in bocca e l’assaporò. Nel mezzo della sua degustazione
sbarrò gli occhi allucinato, spalancò la bocca e urlò:
spaghetti! Ci avvicinammo tutti a Junglaboy e tutti volemmo una
brancata di fili per esaminarli, masticarli, sputarli fuori e sorridere
di Canopius. Ma...spaghetti
erano, spaghetti a pois, microscopici punti verdi, rossi, blu, gialli.bruni,
malva, bianchi e neri. All’unisono
chiedemmo a Junglaboy: dove? Là dietro, fu la risposta. Oh tu pensi di
ciurmare? Chiese Barklove, lì certo non ci stanno bancarelle
spaghettare. No che non ci
stanno, rispose Junglaboy, ma che tu non hai visto l’albero?
Che albero? Ma l’albero
degli spaghetti, no? Fu cosí
che cucinammo per la prima volta da quando avevamo lasciato l’albergo
dei tarocchi. E ci scoprimmo raffinati cuochi. Il primo piatto fu
spaghetti alla salsa verde. E che salsa! Ne condivido la ricetta:
petali di asfodelo, virgulti di menta carminia, pinoli del Kalahari,
sale dal mare di Galileo e aglio, cosmica panacea; il tutto sminuzzato
e pestato in un vaso di giada dell’epoca Ming (patrimonio
segreto di Goldenheart sin da quando era una monaca Ch’an
nel tempio di Mount Emei), dà un gusto di amarene tostate.
Se non possedete una scodella di giada, potete usare un mortaio
di basalto, lava, e un pestello di frassino che é legno dolce.
* Dopo un pasto
gratificante decidemmo ch’era tempo di continuare la nostra
ricerca di nuovi continenti dove pensavamo di scoprire registrato
in qualche roccia diamantifera l’eco di suoni immemoriali. Camminammo a lungo
e molte strane cose si svelarono agli occhi quando arrivammo al
pianoro delle pagode dimenticate. Vedemmo alberi
e vacche giocare a rugby fra cespugli di torte al pistacchio. Le
nuvole erano di marzapane e giovani impala volavano dalle cime di
margherite verso le nebulose di zucchero e mandorle ma i gatti del
territorio accanto arrivarono prima, balzando dai boschi di eleuterococchi
allo zenzero, e una lunga pioggia di filamenti policromi dal gusto
di miso inondò le arate spiagge di melanzane e convolvoli. Vedemmo una capra
planare sul tetto della pagoda blu nell’isola dei canali ridenti
ma non era una capra. Ci vollero trentasei secondi per capire che
la capra era houdinamente Einstein scrutando da quelle sacre altezze
le galassie certo che l’espansione fosse un tristo gioco di
Hubble. Non eravamo interessati
al canuto Albert e proseguimmo nella nostra avventurosa ricerca. Gli inviai però
un messaggio sublimale: che ne pensi, old boy, se il campo unificato
fosse la mente? Fra rocce smussate,
dal colore viola bruciato, si stagliava una costruzione simile a
una pagoda ma molto piò prossima a una stalla o a un fienile.
Ci avvicinammo tutti insieme verso la porta aperta che si mostrò
essere quattro assi male inchiodati e dalla quale uscì un
vecchio dalle sembianze orientali, vestito di stracci, e una donna
giovane, bellissima, dallo sguardo vacuo e fisso. Sembravano Giapponesi. Irasyamase (Benvenuti)!
Lanciò il vecchio, posso aiutarvi? Entrate, c’è
dell’acqua calda per un buon té. La sua voce era tenera,
adescante, non paternale, amichevole. Ringraziammo ma
preferimmo sederci nella veranda, accettando tuttavia l’offerta
del tè. Tè verde. Dall’interno
si udivano rumori di tazze e fruscii di paglia rimestata. Il vecchio
si accosciò con noi e ci chiese le ragioni della nostra presenza
in quelle lande solitamente inabitate. Partecipammo con lui i nostri
sogni ma la risposta che gli sortí fu una tonante risata
carnascialesca. Il suono? Quale suono? Davvero credete sia possibile
trovarne le radici? Ascoltate, ascoltate questo canto, e chiese
alla giovane accanto di cantare. E lei cantò. Una melodia
soffusa di nebbie ma di una purezza solare, la nervatura della voce
era una trama di colori, una cavalcata di onde oceaniche dalle schiume
di cristallo, un canto struggente, di quelli che prendono l’anima
alle caviglie e ti proiettano fuori della dimensione dell’ascolto.
Dove la voce ascoltata e chi ascolta rompono i confini della separazione. Ascoltammo a bocca
aperta, attoniti, stupiti, immobili, incapaci di seguire i nostri
pensieri. La voce, la voce era di una potenza accecante, vibratile,
sinuosa, con toni da rami di giunco, penetrante, ammaliante. Fu
allora che ci accorgemmo che la cantatrice era cieca. E sembrò
ancora più bella. Il suo nome è
Mori, sussurrò il vecchio, Lady Mori, la più grande
menestrella del paese di Nippon. È la manifestazione del
mio amore, forse il mio ultimo amore, poiché volgo verso
gli 80 e lei è cinquant’anni più giovane di
me. Al suono del nome
Mori, Anthea balzò in piedi e balbettò tremante, nonostante
volesse gridare: ma è Ikkyu, il grande Ikkyu Sojun! E questo il suo famoso tempio, Shuon-An. -Si, sono Ikkyu-
disse in risposta il Vecchio.
Ikkyu, il favoloso monaco Zen vivo e incontaminato
in questa nuova dimensione del Dreamtime! Il grande saggio
che seppe esprimere
l’universalità della visione Zen in termini di vita
quotidiana, e pertanto bollato di anatema! Il suono - stavolta
assunse un tono meditativo come se
stesse ascoltando
lontane risonanze o vedendo qualcosa invisibile a noi – chi
vi ha detto che bisogna cercarlo o scoprirlo in dimensioni che sono
proprie del sogno?
Qualcuno un tempo
venne da me e mi disse che cercava il Buddha. Gli diedi un calcio
nel didietro e lo spinsi giù in una conca di mota. L’indomani
ritornò. Stessa storia. E così per giorni e settimane
finché una notte si avvicinò alla mia capanna tenendo
in mano una lanterna spenta. Dove vai al buio? Gli chiesi. E chi
ti dice che è buio? mi rispose. E mi spinse nel fango. Aveva
trovato Dio o il Buddha o, molto più probabilmente, se stesso,
la sua vera natura, che è quella di Dio o del Buddha, come
vi pare.
[1]
Posso condividere
qualche pensiero. Suonate lo strumento del vostro corpo, cantate
con la mente, apritevi ai suoni del cielo, come ora già fate,
ma lasciateli fuori. Allenatevi all’ascolto di voi stessi,
senza arpe né Kora, ascoltate il silenzio.Quando le note
della comprensione, che è amore integrale, compassione cosmica,
penetreranno tutte le cellule, anche quelle virtuali, del vostro
essere, allora sentirete la voce di un’altra Lady Mori. È
il Suono. È l’essenza profonda dell’essere. Ci guardammo l’un
l’altro e i nostri sguardi lacrimavano eloquenza, non ci servivano
parole, i nostri pensieri comunicavano a velocità e intensità
mai assaporate prima. Con un lontano sentore di vaniglia. Un grande pesce
verde-issopo e bianco volava intorno ai pilastri, semplici tronchi
già erosi, della veranda e sembrava ridesse di noi. E cantava,
sì il pesce cantava; le Foglie Morte, cinguettò Junglaboy,
me la ricordo. Lentamente ci
alzammo, uno a uno, ci inchinammo al mitico monaco Zen e cominciammo
ad allontanarci in silenzio quando Barklove chiese: ci offriresti
uno dei tuoi poemi? Ikkyu ciondolò
la testa spelacchiata, sussurrò qualcosa a Lady Mory
e Lady Mori cantò:
Questo
mondo Non
è che Un
sogno fuggente. Le
inconsistenze della vita Per
quanto dolorose Ci
insegnano A
non attaccarci A
questo mondo evanescente. Molti
sentieri partono dai piedi della montagna Ma
dalla sommità Noi
tutti fissiamo lo sguardo
a una Singola
brillante luna.
[2]
Camminammo muti
per vie di notte, non c’erano lampare, né stelle di
fragole glassate brillavano sopra di noi. Camminammo muti su sentieri
di giorno, e c’erano arcobaleni all’orizzonte. Ne raggiungemmo
uno, ne salimmo titubanti i primi scivolosi passi, in un angolo
sulla striscia del viola vedemmo la caricatura di un flauto, Mozart
in cerca di se stesso. Avrei voluto salutarlo ma Canopius mi tirò
per il polso e mi spinse ad andare avanti. E tutti avanti andammo,
non più muti ma raucando in armonia, al suono del maranzano
di Triko. Fu in quel momento che mi sovvenne un altro poema di Ikkyu
che non mi aveva comunicato molto quando lo lessi per la prima volta,
l’avevo mentalizzato troppo zen, ma che adesso mi tuonava
nel cervello, scannava sciami di orrifiche formazioni mentali, rilasciava
l’ossigeno del mondo fluire nelle arterie. Vorrei Offrirti
qualcosa Ma nello
Zen Non abbiamo proprio alcunché. Quando fummo a metà strada, al sommo
dell’arcobaleno, sentimmo una calda vibrazione ondeggiare
nell’aria e odorammo effluvi di mango. Triko lasciò
il maranzano scivolare giù per il pendio della fascia blu,
noi tutti lasciammo che i nostri strumenti prendessero la stessa
via dell’esilio, Barklove a malincuore lasciò scivolare
il suo bambù delle percussioni d’amore. Ci prendemmo per
mano formando un angolo acuto, chiudemmo gli occhi e seguimmo la
nostra respirazione, inspirare espirare, inspirare espirare, inspirare
espirare. Il respiro trascendeva
la materialità dei nostri corpi, i nostri corpi trascendevano
la consapevolezza di se stessi, sentimmo l’aura di uno zeffiro
marino penetrarci, dilatare la nostra coscienza. Sentimmo la vibrazione
insinuarsi dentro di noi, puntare agli occhi, al cervello, alla
lingua. Poi tutto svanì e noi volammo. Volammo nell’infinito
profondo del Suono.
Chân
Pháp Y West Hamlet,
2003 |
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Il
Sangha nel Giardino Zen E' difficile, se non impossibile, praticare la via della Comprensione e dell'Amore senza un Sangha, e cioè senza una comunità di amici che praticano nello stesso modo. Nel mio paese diciamo che una tigre che lascia le montagne per scendere in pianura sarà catturata dagli uomini e uccisa. Praticare al di fuori di una comunità di pratica è la stessa cosa. Nella nostra società la spinta verso l'indifferenza è talmente forte che abbiamo bisogno del sostegno di amici che ci aiutino a essere in contatto con il nostro desiderio più profondo: amare e aiutare tutti gli esseri. Abbiamo tutti un gran bisogno di un sangha: la nostra pratica dovrebbe essere sostenuta dalle persone che ci sono vicine, e noi possiamo imparare a sostenerle a nostra volta. Possiamo sostenerle guardando in profondità in modo da riconoscere i semi di pace, gioia e gentilezza amorevole in loro. Entriamo in contatto con quei semi, li innaffiamo ogni giorno in modo che gli altri possano sbocciare come fiori, e quando questo accade noi tutti saremo più felici. Dobbiamo aiutarci l'un l'altro nella pratica, la pratica della meditazione non è una questione individuale. Dobbiamo pensare agli amici e alla comunità come a un investimento, come alla nostra proprietà più preziosa. Essi possono darci conforto, aiutarci nei momenti difficili e condividere le nostre gioie. E' facile morire in seguito ad una grande sofferenza anche se si ha molto denaro in banca. Investire su un amico, fare di un amico un vero amico, costruire una comunità di amici è una fonte di sicurezza di gran lunga maggiore. (Thich Nhat Hanh) Thay COME
INTERPRETARE
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voeux
2004 Vivre avec grâce dans le moment, |
Thay |