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Benvenuti sul sito della Libreria Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni
GIARDINO ZEN AVOLA
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zenUn giardino Zen ad Avola e perché?
La risposta non c'è ma c'è.
NON C'E':
Con i mille problemi che ci sono, le tante iniziative da fare, idee da sviluppare, progetti da realizzare perché questo ulteriore viaggio ? CHE gli è preso alla compagnia internazionale raccolti in quell'angolo di Avola per iniziare e iniziarci in un'altra avventura? E perché Zen, noi non si ha del nostro ?
C'è: Ma non capite che è importante conoscere altri orizzonti culturali, che quanto iniziamo ci riallaccia a quanto di più interessante e bello c'è al mondo, ascoltare alcuni discorsi al massimo livello spirituale sul tempo, la verità, l'amore, la rabbia, l'odio, i mille sentimenti e emozioni, pensieri che attraversano l'uomo?
Semplicemente il Caso ha voluto che tre di noi ritengano Thich Nath Hanh un uomo sincero, un buon giardiniere. Thich Nath Hanh (Thay che significa Maestro in vietnamita) è un monaco zen amato da centinaia di migliaia di persone - di tutte le religioni - in tutto il mondo, Martin Luther King quando lo conobbe ne divenne così amico ammirandone la statura spirituale (e Thay è fisicamente un dolce tappetto), da proporlo per il premio Nobel. I riconoscimenti pubblici di tutte le tradizioni per il Maestro vietnamita sono innumerevoli e tutti i leaders religiosi l'hanno accolto con rispetto. Una biografia e altro si può leggere in www.esserepace.org il sito italiano di Thay. In questo nostro giardinetto Zen di Avola il discorso sarà tra amici che seduti su una panchina bevono un'orzata e parlano della vita. Abbiamo la fortuna di avere un nostro conterraneo siciliano a cui il sito di Ciccio piace molto, e che vive accanto a Thay e quindi sarà come una festa di paese in cui si discute di cose belle e non belle, della vita insomma.
Dalla panchina del giardinetto zen di Avola buone letture e conversazioni
ciao
Rochan

pace...May our mind be                                                                                                                 
A mind of deep listening and equanimity                                                                          
May our mind be
A mind of understanding and sharing
May our mind be
A mind of compassion and love

Passeggiata meditativa
nel Giardino Zen di Avola

e in altri giardini dell’anima
Cammino molto nelle foreste di querce, spesso interrotte da vigneti di Bergerac, che fiancheggiano la collina di Thenac. Per almeno due ore ogni sera  mi

immergo nel verde fra erbe spesse e alte, cespugli di fiori spontanei simili alle orchidee che sgorgano dagli alberi nei boschi d’Etiopia, malve, densità di felci e grumi espansi di muschio. A volte, in una radura, svettano quattro o cinque pioppi gravidi di lussureggiante vischio, e mi attardo a raccoglierne manciate di foglie per i miei té quotidiani.
La foresta è il mio giardino. La chiamano foresta le genti del villaggio ma ha nulla d’eguale alle mie amate foreste dell’Ituri o a quelle d’Oriente. E’ piuttosto un bosco , un grande bosco  che anch’io mi diletto a chiamare foresta, forse per inconscia nostalgia o per non assopire memorie lontane.
Resta però vivente il sogno di un vero giardino, con alberi di gelso, aranci, limoni, qualche pesco e olivi tutt’intorno, a ridosso di un ermitaggio bianco dove ricevere amici, meditare con loro, condividere il vissuto del giorno, i desideri, le sofferenze, la gioia, gli apprendimenti. Un sogno, purtroppo soltanto un sogno, della cui irrealizzabilità sono pienamente cosciente.
Un vero giardino, forse come quello di Francesco Urso in  Avola, a un tiro di sasso dall’Aretusa, o forse diverso ma non troppo. Tenterò piú avanti di vitalizzare questo sogno, un’avventura virtuale dello spirito, una visualizzazione contemplativa del Giardino Zen che Francesco e Rochan stanno coltivando sotto lo sguardo amorevole di Thich Nhat Hanh e di altri accompagnatori della mente
Camminare meditando è per me  un momento dell’integrazione. Un tempo dell’essere, della non dualità, della coscienza dei sensi e dell’interconnessione che attraverso loro si manifesta. Perché cammino in consapevolezza, perché la consapevolezza (mindfulness, sati, ovverossia comprensione intima, totale, riflessiva, intensa) di ogni istante stimola la vista, l’udito, il gusto, il tatto, l’olfatto, la mente. In stato di consapevolezza integrale i sensi si identificano fra di loro, si identificano con gli oggetti delle loro funzioni, diventano uno, si trascendono.
In una condizione che è allo stesso tempo solidamente materiale e sublimale, le intuizioni vanno oltre la misura della comprensione intellettiva, sono profonde, vaste, olistiche, a volte devastanti nela loro crudezza illuminante.
Vivere consapevolmente significa avere profonda coscienza e responsabilità integrale di ogni istante, di ogni respiro, di ogni pensiero, di ogni azione. Il che non ci obbliga a vivere in perenne estasi meditativa, la meditazione è parte intrinseca della consapevolezza globale. Consapevolezza dell’essere è consapevolezza della totalità.
Una mente di consapevolezza globale (in sanskrito si dice bodhisattva) conosce l’uso della non discriminazione, può passare dal Gregoriano al Raggae, dalla Baez a Battiato, dal vegan alle ostriche in assoluta piena coscienza di ogni nanosecondo della transizione. A un novizio che domandava cosa sarebbe accaduto a  un praticante dopo l’accesso alla comprensione trascendente, il maestro rispose: può mangiare pesce. Il che evidentemente non incita a spezzare l’impegno di una vita alla non violenza ; molto più semplicemente significa che la comprensione integrale va aldilà della discriminazione ma anche aldilà  del significato epidermico del linguaggio.  La consapevolezza, o la sua assenza, nella vita di ogni giorno, determina anche le modalità delle relazioni, sia con noi stessi che con le strutture sociali nelle quali viviamo, dalla coppia all’ecumene.
Con noi stessi: perché per il mezzo della consapevolezza ci liberiamo dalle astrazioni egocentriche, dalle intuizioni del giostraio, dalla filosofia da lavanderia pubblica. Ci liberiamo dalla convinzione, quasi sempre giustificatoria, che siamo sulla retta via, che le nostre azioni sono giuste, che il nostro quotidiano è la realta unica e inevitabile del vivere. Attraverso la consapevolezza ci liberiamo di questo orrifico e orripilante concetto di “inevitabilità”. Nulla è inevitabile.
Con il sociale: perché la consapevolezza, che è comprensione, ci insegna ad ascoltare, a far nostra la sofferenza altrui, a interpenetrare l’esistenza liberi dalle costrizioni della discriminazione, dalle passioni velleitarie e fomentatrici di odio; ci conduce a vivere una compassione spoglia di sentimentalismi e lacrimose sospirazioni che trovano spazio solo nelle riviste d’anticamera di sarte e parrucchiere.
La realizzazione della consapevolezza è al di sopra di, e va oltre a, ogni genere di linguaggio, inferenze epistemiche, modulazioni semantiche.
Consapevolezza - nell’accezione descritta - è il momento ultimo della comprensione, il momento in cui si realizza  che non c’è alcunché da comprendere, il momento in cui le barriere fra percipiente e percepito crollano, crollano perché non esistono; perché percipiente, percepito e percezione sono un’entità unica indissolubile; perché percipiente, percepito e percezione non sono .
Sto adesso, ospite per un giorno e mezzo,   in una villa sul fianco orientale della  collina di St Cyr sur Mer , sulla strada che da Marsiglia conduce a Toulon. Siedo a un tavolo metallico, rotondo, sotto una volta di glicine ancor da fiorire e davanti a me montagne di foreste di pini e l’insenatura di St. Cyr, un lembo intensamente azzurro di mare. Il mio mare, il Mediterraneo odoroso di vita, pregno di tutte le glorie e di tutte le desolazioni del mio popolo, no, non mi riesce di pronunciarlo al singolare, non ha senso, noi siamo costruiti sulla interità di molti popoli, si che posso dire dei miei popoli.
Il giardino è gloriosamente verde fino ai bordi della piscina che è circondata da oleandri, i tossici oleandri, la cui fioritura è grecamente matronale e il profumo avvolgente. La dimensione, elfica e mitica, dei sogni si risveglia. Da un giardino all’altro lo spirito prende il volo , in guisa di falco pellegrino, verso il Simeto, gli Iblei, le pietre lacrimanti di Agrakas, il tempio di Athena, ora al consumo di altri culti, un tempo asilo di tormente spirituali e politiche nelle Siracuse visitate da Platone.
In consapevolezza, e con tutti i miei sei sensi al massimo della potenzialità percettiva, varco la soglia ornata da sinuosi rampicanti di  Ipomea purpurea - che in Inglese ha un bellissimo nome, morning glory - del Giardino Zen e inizio la mia passeggiata meditativa del pomeriggio.
Vedo delle panchine in pietra nera, forse lava ché l’Etna è prossima, dove potrò sedermi per qualche istante di pausa, sortire dalla mia sacca un vecchio lettore di Cd e ascoltare Sainkho Namtchylak oppure la Prajnaparamitaharidayasutra cantata in Sanskrito da un gruppo di monache cinesi. Bellissimi doni che ho ricevuto, uno a Roma e l’altro dalla Cina. O, ancor meglio, restarmene in silenzio e lasciarmi penetrare dal canto delle allodole, queste meravigliose creature che William Wordsworth chiamava i pellegrini del cielo.
Ci sono  alla mia destra ciuffi densi di biancospino, nell’ antico se ne ponevano rami sui tetti di casolari e capanne a protezione dalle folgori. Cammino, la mia mente assorbe la potenza della non separazione, so che ogni filo d’erba che vedo o che tocco è  parte di me stesso. Accanto alla porta un sambuco di giovane età, nel folklore italiano protegge dagli spiriti del male. Con gioia guardo a un solido castagno, l’albero che salvò dalla fame molta gente in Europa prima che dalla Mesoamerica ci arrivasse la patata. Mi immergo quasi fisicamente dentro la scorza rugosa degli alberi, percepisco l’anima melodica dei cespugli a fiori blu, sono allegri, sentono questo scambio di energia, vivono la cosmicita’ dell’interessere. Nella prima età  mi si disse che era un’erba per le vacche. Non lo credetti mai, sennò perché il latte era bianco? Ma è pura felicità notare la presenza di agavi, questa pianta pressocché miracolosa dalla quale i Messicani sanno trarre vestimenta, cibo, carta, bevande, cordame e chissà cos’altro ancora. Non ho l’abilità di  focalizzare alcuna immagine sella Sicilia senza le agavi. Da dove ci vennero?
Percpisco  la liturgia dei sogni  avvicinarsi e quasi prendermi per mano. Pericolo. Non arriva, la sento prossima ma so tenermene distaccato. Sento tuttavia un rigurgito di sofferenza lambirmi la gola.  Mi aiuta la consapevolezza della presenza di anime antiche: un gelso nero, dal cui legno, ci tramanda Zolla, gli sciamani Uzbeki  foggiavano uno strumento a due corde chiamato kobyz, e poi un prato esteso di Tarassacco, conosciuto anche con il nome di dente-di-leone,  che sin dal 7o  secolo i Cinesi apprezzarono come antibiotico. In Europa fu usato come erba medica solo a partire dal 1485. Spesso lo aggiungo all’ortica e ne ricavo infusi.
Cammino fra i viali del giardino, ascolto con amore la cinciallegra,che in Francia ha il dolce nome di mésange, il merlo, e suoni sottili, modulati lentamente, di uccelli sconosciuti. Una  brezza leggera che arriva dal mare  attenua la calura del pomeriggio, mi siedo ai piedi di un fico - gesto abitudinario dell’infanzia - simbolo dell’abbondanza nel testo Ebraico.
La mia passeggiata meditativa continua, la consapevolezza della complessità,  della non separazione, è  dentro di me, sento molti valori attorno, differenti energie che si accentrano a nutrire la mente. Ci diceva Chomsky che i valori bisogna interiorizzarli, probabilmente pensava a situazioni di sensibilità acuita. Questo momento di bellezza che vive nell’involucro dello spirito fu presente in  Assagioli, quando insegnava che l’arte di pensare è l’arte di lasciarsi penetrare dalle utili energie che esistono nello spazio intorno a noi.
Mi sento nutrito da una illimitata ricchezza di percezioni, so che l’integrità dell’universo è l’integrità del mio corpo/mente, sono profondamente consapevole di essere la realtà ultima di me stesso. Mi guardo, mi simbiotizzo con l’ambiente e ne vivo la coscienza partecipatoria . Le parole non rispondono piú ai miei tentativi di ordine descrittivo, che è un ordine logico sebbene di una logica meravigliosamente anarchica; le parole si rivelano per quel che sono : involucri  vuoti, inariditi, relitti di un pensiero immaginativo ma non comprendente, strascichi di una modalita’ del guardare prima che lo sguardo fosse addestrato a penetrare anfratti abissali dove anche la luce è fatta di pietre.
Non mi resta che lasciarmi avvolgere  dall’unica realtà percettiva che è quella dei sensi, sensi portati all’estremo della loro ricettività, sensi che sanno intuire la purezza della realtà nascosta dietro l’apparenza di immagini, profumi, e robaccia inutile quale ricordanze libresche o colorazioni suggerite d’altrove. Ma che cos’è  “altrove”? Nulla, fuori dal qui e ora, Naka-Ima ci suggeriscono i meditanti Zen Giapponesi, albergano solo proiezioni illusorie di un subconscio non ancora  disossato dal suo scheletro di desideri, di  fame assurda, di costruzioni monoltiche fondate sull’acqua.
La mia meditazione camminata di oggi nel giardino dei miei amici volge alla fine; si, ne sono convinto, la trascendenza integrale dei sensi è la porta che apre verso il giardino della conoscenza, dove non esistono alberi proibiti né animali incantatori. Un giardino dell’essenziale, un giardino Zen.
Mi accorgo ora di non avere “vitalizzato” il sogno del mio giardino. Più tardi vi racconterò forse di come un sogno  uscì da sé stesso.
E’ quasi sera, sento melodie di chitarre oltre il portale, e ho bisogno di un grande bicchiere di acqua calda. Mi avvio verso l’uscita e sento invadermi da un corale di profumi al sentore di sale, il mare è a pochi passi.
SiglaIl grande, controverso, discusso e geniale monaco Zen giapponese del 15o secolo, Ikky_ Sojun, ci lasciò versi di inebriante consapevolezza dei sensi, come questi:
La notte scorsa la pioggia ha sparso fiori  dappertutto,
Ora torrenti di profumi inondano l’intero villaggio.
Chân Phâp Y   

Quale sentiero per l’uomo ?
sentieroCarissimi amici,
la proposizione avanzata non so se da Rochan, o da Ciccio, poco importa, è stimolante perché svela un’esigenza ed è eccitante perché al contempo nasconde un pericolo. Un sentiero per l’umanità di oggi. Quale domanda fu più antica e più irrisolta? Quale più pericolosa? E quale più economicamente redditizia?
Non conosco la data o le date in cui l’umanità iniziò la sua ricerca del Graal, non so quanti Graals siano stati inventati, non ho mai assistito a fenomeni surnaturali, non ho mai testimoniato miracoli. Non ho mai visto simboli di salvezza sulla via di Damasco o di Kabul o di Bagdad. Neanche sulle vie di Roma e di Benares.
E pertanto questa variegata umanità non ha mai cessato di inquisire sulla propria natura, la ragione della propria esistenza, la miglior maniera di costruirsi una vita felice. Ogni tentativo di penetrare la realtà dell’esistenza ha sempre prodotto risultati massacranti. Perché il concetto stesso di esistenza fu sempre legato alle necessità dell’immediatezza fisica, perché anche la visione metafisica o mistica della realtà mai sciolse il cordone ombelicale radicato nel perimetro delle abitudini del corpo.
Perché la sociologia e la epistemologia accettate rimanevano lo scudo protettivo da eventuali scoperte o intuizioni che avrebbero potuto scardinare, sebbene superficialmente, l’ordine costituito che era e doveva restare incorrotto.
Ma scardinato fu l’ordine, e da molti. Quanti? Non serve contarli tutti, di certo il Buddha, il più antico nella lista, e poi Pitagora, Socrate, Epicuro, il Cristo, il Profeta dell’Islam, e tanti altri fino ad oggi.
Risultato? Milioni di esseri umani hanno vissuto e vivono, grazie a loro, una visione dell’esistenza che aiuta a trasformare la sofferenza in felicità.
Le generazioni pero si susseguono l’una dietro l’altra e il bisogno di nuovi sentieri, di nuove risposte all’eterno quesito , cresce piò solido, geneticamente più forte.
E si susseguono, cambiando, anche le condizioni socio-economiche nel cui contesto l’umanità si pone domande. Nel cui contesto agiscono mestatori e mercanti dello spirito, guaritori al balsamo delle coscienze, facitori di felicità a basso prezzo, imbonitori da lupanari medioevali che calano a orde sulla massa degli infelici che infelici non vogliono più essere. E poi i miracolanti, quelli che aspergono al borbottio di abracadabra in lingue perlopiù sconosciute anche a loro. Basta guardarsi attorno e abecedare quante barbe intrecciate, mantelli arancioni, sottane rosse e turbanti bianchi accatastano su strade, piazze, oggiorno anche in antichi manieri e, soprattutto, sulle pagine pubblicitarie di gazzette specializzate.
Tutti pesatori di monete. In inglese c’è un termine molto efficace per definirli, moneymongers. Tutti all’agguato. Le prede potenziali sono tante. Noi siamo fra queste. Ma anche loro stessi, gli allettatori, poiché sono esseri profondamente complessati e infelici.
Guardiamoli con amorevole compassione ma proteggiamoci da loro.
Qui giace, purtroppo non morto, il pericolo cui accennavo al principio della lettera.
Il pericolo che la debolezza insita nell’insicurezza possa trasformare un essere umano in clone. Il lavaggio del cervello é pratica sottile ma facile, occorre solo una ferma attenzione, intelligenza nell’intruppamento. Immediata potatura dei rami a produzione incerta. Ripetizione costante degli stessi esercizi, mai una variante, e un lento delicato lavoro, molto evanescente, dedicato alla instaurazione del culto della personalità. Ovviamente quella del Guru, del Maestro, della Guida, del Consigliere.
Bene, non ho alcuna intenzione di sviluppare un’analisi sociologica del fenomeno piò appariscente del nostro secolo. E’ un fenomeno sì largo che include non solo la sociologia e la filosofia, ma la psichiatria, la psicologia, l’antropologia culturale, la criminologia, l’economia e forse pure... la meccanica dei quanta.
Troppo, almeno per me che vivo al fruscio della clessidra.
La mia intenzione è molto meno ambiziosa: stimolare l’attenzione di tutti coloro che vorranno intervenire a questo interessante e proficuo dialogo.
Grazie ancora Ciccio e Rochan, esiste una frase idiomatica che dice mettere la mano nella piaga. Voi ne avete messe quattro di mani. Bene, perché no? Può diventare una sfida; non so quante siano le vittime, gli illuminati, i liberati lungo la penisola. So che solo in California sono state contate 19.000 (Diciannovemila) sette "religiose", so cosa sta accadendo negli USA, in Europa e perfino in alcuni paesi africani. É sintomatico. Il bisogno di una nuova realtà della vita, cioè della comprensione della vita, che significa bisogno di nuovi valori o ritrovamento di valori perduti, é sentito da maggioranze crescenti. Sempre crescenti purtroppo sono anche le maggioranze con bisogni immaginari, i fuggitivi dalle responsabilità sociali, i mitomani, i falsi mistici, gli scavatori di reliquie nascoste, i piagnoni patologici, i mammoni senza mamma. Certo, anche loro soffrono, anche a loro son dovuti compassione e comprensione, ascolto e dialogo. Ogni sofferenza ha il suo alfabeto.
La storia dei sentieri e dei cercatori di sentieri mi tocca da presso. Non ho mai avuto molta propensione per le greggi e per i loro pastori ma ho scrutato le stelle molto spesso. Mai mi si è manifestato un sole. Oggi sono intimamente libero dalla frenesia delle piste, non ho più bisogno di torce resinose a darmi luce nella notte.
Amo comunque tutte e tutti coloro che ancora nuotano nei salmastri stagni dell’ansia e vogliono liberarsi, vogliono una vita di libertà. Soprattutto a loro dedico la mia metafora "Di come un sogno uscì da se stesso".
Per quel che mi riguarda la risposta è la domanda.
Contribuisco al dialogo con una prima condivisione che è appunto una metafora concepita per altre isole e con motivazioni diverse, ma adatta al nostro scopo.
La metafora è di lettura facile, anche se a volte gioisce di se stessa, oltretutto fu iniziata come gioco. Alcuni passaggi sono volutamente non accessibili alla prima lettura; se c’è interesse a comprendere, un minimo di sforzo vale la candela.
Il Suono è il cammino della speranza, è il Logos, il Vac degli Hindu, la supposta e agognata liberazione. Il resto snoda avventure d’incontri. Che sono prolegomeni, e sentieri, alla liberazione finale. L’avevo iniziata a scrivere per alcuni amici che pubblicano una rivista negli USA, in un momento di sofferenza, di eccitamento e di felicità. E’ stata liberatoria, in parte. Pressoché riscritta per il Giardino acquisisce, per me, ulteriore virtù autoliberatoria.
La metafora doveva svilupparsi per un’altra diecina di pagine ma così come è, una sintesi, gioca più agilmente la sua parte nel dialogo in giardino.
Spero non vi annoi troppo. Grazie a Ciccio che, con grandezza d’animo, apre le porte del suo sito perché ci si possa incontrare, e una terza volta grazie al mio amico Rochan dalle creative intuizioni.
Fraternamente vi abbraccio
Chân Pháp Y

Di come un sogno uscì da se stesso

I vecchiardi della valle incantata ci dissero che aldilà dei canali avremmo osservato una parte del mondo che ci era stata promessa dai sornioni e astuti indagatori di tarocchi. Non potemmo giurare sulla fiducia nei centenari della valle però promettemmo loro la nostra partenza. Quegli anziani erano sette e non molto saggi a notar dai logori scialli legati alle gambe. Anche il colore dei loro volti non ci dava molto affidamento. Erano di pelle cobalto con striature sottili e vagabonde di carminio, al contrario dei veggenti al tarocco che invece erano di un bel solido verde e arancio e dalle mani azzurro cristallino.

Uscimmo dalla valle ansiosi di nuove scoperte, gli occhi dilatati ad assorbire vasti orizzonti che, alla luce delle dimensioni appianate di Euclide, vasti non erano proprio. Vasta e profonda scoprimmo era la fame e ancor di più la sete. Rinviammo all’indomani gli innamoramenti-flash con i panorami dedicando forza e acume alla ricerca di vettovaglie.

Su tutta la distesa non c’era un solo albero da frutta né orti di cavoli oblunghi, zucchini quadri, alberi-lattughe o pomodori dalla polpa saporosa di triglia.

Neanche una gallina in vista per un’omelette al tartufo siberiano con germogli di canne palustri e pinoli di Tamanrasset. Ci era stato comunque insinuato che le galline del pianeta DD (Dreamtime Dimension) erano sterili.

Né scavando la sabbia corallina emersero radici di bergamotto e cannella. Fummo costretti a digiunare, ci consolammo pensando al povero Gandhi che si trovò desellato e monumentato da complotti più grandi, indianamente segreti, di quanto la storia da pizza al tarassacco ci abbia siringato. Digiunammo sapendo che anche la salute era irreale nel pianeta dei rododendri nani ma bere, no, bere dovevamo sennò chi ci avrebbe evitato la fine della tigre nel deserto del Gobi mentre azzannava una yurta vuota?

Si dice che la tigre si aprì, con una striscia di cuoio duro della yurta, una grossa ferita ad una gamba posteriore per bere il proprio sangue ma non potendo stirare il collo sino al taglio morì non solo disidratata ma anche dissanguata.

Il nostro gruppo, rappezzato da dodici sognatori di pace, si chiamava Dreamtime Company. Una sorta di omaggio agli aborigeni australiani.

Ma anche alla dimensione spazio-atemporale nella quale vivevamo.

Cantare, danzare, suonare era il nostro esercizio dell’anima, ricreammo il jazz di New Orleans per l’uso di cembali, sistri, arpe e violoncelli. Barklove, una ragazza della banda, d’origine Armena o qualcosa del genere, tamburellava gli alberi quali strumenti di “percussione d’amore”.

Junglaboy, sottonipote di Tarzan e Jane, vissuto sempre nei boschi tenebrosi delle motropolitane, suonava invece un didjerido che si portava sempre appresso da una delle sue misteriose scomparse presso gli sciamani dell’East Kimberleys.                                           

   Didjerido

 

Spesso ci costruivamo gli strumenti manipolando selci, lunghi steli d’erba, rami di nespolo, ciotoli, e foglie di loto. Canopius, uno che veniva dall’isola delle tartarughe, soffiava in un teschio di bisonte ricoperto d’oro. Triko invece, che da bambino aveva ascoltato melodie di trinacriose lupare, creava lamentazioni colorate ditando il maranzano. Per lungo tempo usammo il canto gregoriano, ovviamente rivisto e riciclato.

Eravamo andati da mari a terre in cerca di strumenti antichi, dai poteri acustici segreti, rivelanti, catartici, illuminanti. E di Maestri che ce ne insegnassero l’uso ché senza Maestri ci sentivamo perduti.

Trovammo rare terrecotte cinesi ma il loro suono era troppo sibilante, acuto, piatto. Ci furono regalati strumenti indiani dalle vibrazioni di apparenze culminanti come il Basuris, il Sarod, la Veena. Scoprimmo anche il dolce flauto Khangling dei Ladakhis, il flauto persiano Nay, i flauti cinesi Yu dalla voce voluttuosa, di penetrazione organica.

Joublette, la gallo-balalaika ultima immissione nel minilab della coscienza, ebbe in dono alcuni timpani, atabales,  Maya in legno cavo de sonido pesado y triste, dal suono grave e triste. Ma era un suono che condivideva la saggezza degli alberi andini di millenaria nascenza. Come il suo omologo fenicio, cioè mediterraneo, tammurro  che é vivace, ballerino, incostante. Può essere osservato nei dipinti degli orci ellenici.

La nostra aspirazione ultima era pervenire alle radici del suono; il suono della danza shivaita; il suono della trasformazione elementare, alchemica; il suono che dà inizio alla vita nella placenta cosmica. Il suono nella sua natura di comunicazione primeva, il suono quale voce intima e atemporale dell’anima, della mente che sa vedere oltre l’ event horizon dove la velocità della luce non è più una costante, non è più termine di referenza; il suono nella sua essenza di espressione dell’assoluto, assoluto significante la dimensione, o una delle dimensioni, della comprensione trascendente. In Sanskrito si chiama Prajnaparamita oppure Nirvana. I Cristiani dicono presenza di Dio, gli Hindu convertono il lemma in Brahma e chiamano il suono nada (che si pronuncia naad), gli Islamici hanno un luogo di felicità assoluta. Tutti esprimono lo stesso bisogno di liberazione ma tutti usano dizionari differenti, tutti hanno disparate visioni, tutti mistificano attraverso l’etnicità dei linguaggi. L’infelicità della parola, la sofferenza dei vocabolari!

Il suono come sentiero verso la comprensione dell’esistenza, il cammino che porta alla dissoluzione del desiderio, alla liberazione dall’attaccamento, alla trasformazione del sé, alla realizzazione del non-io.

Un koan chiede: due mani che battono l’una contro l’altra emettono il suono dell’applauso. Quale suono emette una sola mano? Sappiamo che il koan è soltanto un mezzo abile per stimolare la mente a oltrepassare il signficato immediato della verbalità, non c’è risposta al koan perché una mano non emette rumore eppure una risposta c’è perché una sola mano non è una entità indipendente, autonoma.

Non esistono koan a cui si possa rispondere, perché non sono domande ma stimoli, suggerimenti, indicazioni, sfide all’ozio della mente. Vidi una volta, in un’altra dimensione, la pubblicità di un libro, una sorta di antologia di tutti i koan cinesi e giapponesi con relative catalogate risposte. No comment!

Il cerchio resta aperto, l’integralità si manifesta nelle singolarità apparenti. É questo suono che volevamo indagare, è questo suono che volevamo vivere.

Ascoltavamo i suoni delle foreste, le melodie e le tempestose risonanze delle nuvole in trasformazione. In stato di meditazione potevamo percepire il battito delle ali di uccelli nei cieli, la gioia delle foglie nell’azione di assorbire la luce e donare nuova linfa alla vita degli alberi.

                                                                 *

Ma dovevamo bere. La nostra stessa esistenza era in pericolo. Ci affidammo alla grazia degli dei.

Invocammo il piccolo dio del Texas, un sabbioso pianeta della mitologia waspiana, con danze e canti non sempre rispettosi e armoniosi, tuttavia il divino pastore di vacche, dopo qualche ora, nella sua compassione, ci inviò uno stormo di gru coronate e ognuna di esse aveva appeso al collo uno jerrycan colore dell’alba a Samarra.  

La nostra gioia fu macdonaldianamente euforica, ruscelli di bollicine clonate ad Atlanta sgambettavano dai pori degli occhi mentre correvamo all’incontro con gli alati messeri di Huston cui assegnammo il tassonomico di idrofori.                                           

Driedskin, è il nome di uno della company, sgattò sulla schiena del più vicino avionico, l’abbrancò di sinistro mentre svelta la destra-le destre sono sempre immancabilmente leste- gli scollava la corba di plastica non biodegradabile. D’un pugno ne svitò il coperchio, anch’esso di plastica fertilizzante alla diossina, e se lo inchiodò alla bocca avida di erbosa frescura.

Driedskin, siamo grati alla sua irresistibile avidità, siderale divenne all’istante proiettando se stesso contro il cielo che si attardava a scurarsi mentre un filo di liquido carbonaro gli serpeggiava dalla gola sul petto.

Lo ancorammo d’acchito prima che svanisse, come un polipo incollerito, negli anfratti tortuosi e jungleschi dei cirri alla melassa cubana.

Quest’affare inconsueto non ci fu previsto dai taroccari né gli antenati della valle ci misero all’erta. Impauriti dalla faccia contorta di Driedskin lasciammo i pennuti da parte, non toccando i plasticati dell’acqua per quanto la sete cominciasse a bruciarci le budella, e ci affannammo sul corpo epilettico del compagno il quale d’improvviso si rimise su talloni e ci guardò di uno sguardo incredulo e cattivo.

Allargò le gambe, arcuò soldatescamente le braccia sui fianchi e tuonò: acqua non è, il dio vaccaro s’è burlato di noi, ci ha mentito. É petrolio. Niente acqua niente vita. Cartapecora diventiamo, parcemino!

Sbalorditi fummo incapaci di commento, poi Kyra disse: è il dio dei bugiardi e un sottodio dell’olio nero che gli fermenta sotto i piedi là dove pascola vitelli già grigliati e capre sterili. Abbiamo danzato e cantato per niente.

Tristezza modulava d’attorno, le voci divennero sospiri.

Enoch propose di tornare indietro ma i portali della valle, lo sapevamo già, erano chiusi e invalicabili.

                                 *

Vagammo a vuoto fra deserti e savane, montagne e pianure di cloro. La stagione dei fiori d’acqua era lontana e i pochi saguari che vedemmo sudavano solo aria secca. Alle soglie della disperazione ci sedemmo in cerchio, prendemmo i nostri strumenti e dedicammo l’ultimo canto al momento che sapevamo prossimo della nostra trasmutazione genetica.

Triko chiese al maranzano, che usualmente non è molto allegro, di convertire le aspre note di metallo in armonia di gioia. Noi seguimmo e nell’arco di un tempo non definibile l’intorno tremò, sussultò, danzò nel cuore della nostra musica; dal cielo scesero gabbiani rosa e falchi dalle ali a foglie di ginkgo biloba, le gazzelle trottarono a frotte per adagiarsi sulle ginocchia e acoltare, alcune nuvole dall’odore di curry indiano scesero ad avvilupparci e d’un tratto sentimmo la frescura di ruscelli e dolci acque di laghi.

Poi la stanchezza ci obbligò ad arrestare la musica, i cirri scomparvero e davvero potemmo vedere nastri d’acqua intersecarsi in arabeschi di trasparente felicità. Lentamente ci avvicinammo ai canali, affondammo i nostri corpi nell’acqua dal colore di brezza, bevemmo, nuotammo e tutti si ritornò insieme in silenzio, ancora ebbri di stupore, al cerchio del suono. Nessuno però toccò gli strumenti. Le nostre menti sapevano che avevamo appena ascoltato il suono che scorre nelle vene dell’universo.

Ma sapevamo anche di non averlo immesso nelle nostre vene.

Yelaina, ch’era nata nelle steppe Siberiane, propose di dare un’occhiata dietro le sinuose colline da dove i ruscelli scendevano e veder se c’erano erbe da mangiare o frutti. Tre di noi partirono, fecero il giro di una collina e ritornarono carichi di lattughe rosa, cetrioli al tulsi, agli con l’anima di prezzemolo e cento meraviglie ancora a noi sconosciute ma dal profumo acuto e tentatore. Junglaboy, l’imprevedibile, spuntò dal nulla con un sacco di yuta verde alla spalla, gonfio di qualcosa.

Con l’aria sorniona che gli era solita, tese il braccio destro verso di noi e sorrise:

 Immaginate?

 Immaginare cosa? Rispondemmo in coro.

Questo, disse lui, e brandì il sacco verde. Noi restammo muti e in attesa che ci svelasse qualche mistero davvero inconsueto; cosa avrebbe potuto stupirci, noi i viandanti dei misteri?

E misteriosamente Junglaboy affondò il braccio nel sacco e ne trasse una manciata di fili rigidi giallastri fitti di puntini colorati.

Vedete?

Vediamo.

Cos’é ?

Bohhhh!!!!!!!

Guardate bene, avvicinatevi, toccate, gustate. Canopius strisciò l’ombra della sua immobilità verso Junglaboy, staccò un segmento di filo, l’apportò alle narici per odorarlo, se lo mise in bocca e l’assaporò. Nel mezzo della sua degustazione sbarrò gli occhi allucinato, spalancò la bocca e urlò: spaghetti! Ci avvicinammo tutti a Junglaboy e tutti volemmo una brancata di fili per esaminarli, masticarli, sputarli fuori e sorridere di Canopius.

Ma...spaghetti erano, spaghetti a pois, microscopici punti verdi, rossi, blu, gialli.bruni, malva, bianchi e neri.

All’unisono chiedemmo a Junglaboy: dove? Là dietro, fu la risposta.

Oh tu pensi di ciurmare? Chiese Barklove, lì certo non ci stanno bancarelle spaghettare.

No che non ci stanno, rispose Junglaboy, ma che tu non hai visto l’albero?

Che albero?

Ma l’albero degli spaghetti, no?

Fu cosí che cucinammo per la prima volta da quando avevamo lasciato l’albergo dei tarocchi. E ci scoprimmo raffinati cuochi. Il primo piatto fu spaghetti alla salsa verde. E che salsa! Ne condivido la ricetta: petali di asfodelo, virgulti di menta carminia, pinoli del Kalahari, sale dal mare di Galileo e aglio, cosmica panacea; il tutto sminuzzato e pestato in un vaso di giada dell’epoca Ming (patrimonio segreto di Goldenheart sin da quando era una monaca Ch’an nel tempio di Mount Emei), dà un gusto di amarene tostate. Se non possedete una scodella di giada, potete usare un mortaio di basalto, lava, e un pestello di frassino che é legno dolce.

                                                              *

Dopo un pasto gratificante decidemmo ch’era tempo di continuare la nostra ricerca di nuovi continenti dove pensavamo di scoprire registrato in qualche roccia diamantifera l’eco di suoni immemoriali.

Camminammo a lungo e molte strane cose si svelarono agli occhi quando arrivammo al pianoro delle pagode dimenticate.

Vedemmo alberi e vacche giocare a rugby fra cespugli di torte al pistacchio. Le nuvole erano di marzapane e giovani impala volavano dalle cime di margherite verso le nebulose di zucchero e mandorle ma i gatti del territorio accanto arrivarono prima, balzando dai boschi di eleuterococchi allo zenzero, e una lunga pioggia di filamenti policromi dal gusto di miso inondò le arate spiagge di melanzane e convolvoli.

Vedemmo una capra planare sul tetto della pagoda blu nell’isola dei canali ridenti ma non era una capra. Ci vollero trentasei secondi per capire che la capra era houdinamente Einstein scrutando da quelle sacre altezze le galassie certo che l’espansione fosse un tristo gioco di Hubble.

Non eravamo interessati al canuto Albert e proseguimmo nella nostra avventurosa ricerca.

Gli inviai però un messaggio sublimale: che ne pensi, old boy, se il campo unificato fosse la mente?

Fra rocce smussate, dal colore viola bruciato, si stagliava una costruzione simile a una pagoda ma molto piò prossima a una stalla o a un fienile. Ci avvicinammo tutti insieme verso la porta aperta che si mostrò essere quattro assi male inchiodati e dalla quale uscì un vecchio dalle sembianze orientali, vestito di stracci, e una donna giovane, bellissima, dallo sguardo vacuo e fisso. Sembravano Giapponesi.

Irasyamase (Benvenuti)! Lanciò il vecchio, posso aiutarvi? Entrate, c’è dell’acqua calda per un buon té. La sua voce era tenera, adescante, non paternale, amichevole.

Ringraziammo ma preferimmo sederci nella veranda, accettando tuttavia l’offerta del tè. Tè verde.

Dall’interno si udivano rumori di tazze e fruscii di paglia rimestata. Il vecchio si accosciò con noi e ci chiese le ragioni della nostra presenza in quelle lande solitamente inabitate. Partecipammo con lui i nostri sogni ma la risposta che gli sortí fu una tonante risata carnascialesca. Il suono? Quale suono? Davvero credete sia possibile trovarne le radici? Ascoltate, ascoltate questo canto, e chiese alla giovane accanto di cantare. E lei cantò. Una melodia soffusa di nebbie ma di una purezza solare, la nervatura della voce era una trama di colori, una cavalcata di onde oceaniche dalle schiume di cristallo, un canto struggente, di quelli che prendono l’anima alle caviglie e ti proiettano fuori della dimensione dell’ascolto. Dove la voce ascoltata e chi ascolta rompono i confini della separazione.

Ascoltammo a bocca aperta, attoniti, stupiti, immobili, incapaci di seguire i nostri pensieri. La voce, la voce era di una potenza accecante, vibratile, sinuosa, con toni da rami di giunco, penetrante, ammaliante. Fu allora che ci accorgemmo che la cantatrice era cieca. E sembrò ancora più bella.

Il suo nome è Mori, sussurrò il vecchio, Lady Mori, la più grande menestrella del paese di Nippon. È la manifestazione del mio amore, forse il mio ultimo amore, poiché volgo verso gli 80 e lei è cinquant’anni più giovane di me.

Al suono del nome Mori, Anthea balzò in piedi e balbettò tremante, nonostante volesse gridare: ma è Ikkyu, il grande Ikkyu Sojun!  E questo il suo famoso tempio, Shuon-An.

-Si, sono Ikkyu- disse in risposta il Vecchio.

Ikkyu, il favoloso monaco Zen vivo e incontaminato in questa nuova dimensione del Dreamtime! Il grande saggio

che seppe esprimere l’universalità della visione Zen in

termini di vita quotidiana, e pertanto bollato di anatema!

Il suono - stavolta assunse un tono meditativo come se               

stesse ascoltando lontane risonanze o vedendo qualcosa invisibile a noi – chi vi ha detto che bisogna cercarlo o scoprirlo in dimensioni che sono proprie del sogno?             

Qualcuno un tempo venne da me e mi disse che cercava il Buddha. Gli diedi un calcio nel didietro e lo spinsi giù in una conca di mota.

L’indomani ritornò. Stessa storia. E così per giorni e settimane finché una notte si avvicinò alla mia capanna tenendo in mano una lanterna spenta. Dove vai al buio? Gli chiesi. E chi ti dice che è buio? mi rispose. E mi spinse nel fango. Aveva trovato Dio o il Buddha o, molto più probabilmente, se stesso, la sua vera natura, che è quella di Dio o del Buddha, come vi pare. [1]

Posso condividere qualche pensiero. Suonate lo strumento del vostro corpo, cantate con la mente, apritevi ai suoni del cielo, come ora già fate, ma lasciateli fuori. Allenatevi all’ascolto di voi stessi, senza arpe né Kora, ascoltate il silenzio.Quando le note della comprensione, che è amore integrale, compassione cosmica, penetreranno tutte le cellule, anche quelle virtuali, del vostro essere, allora sentirete la voce di un’altra Lady Mori. È il Suono. È l’essenza profonda dell’essere.

Ci guardammo l’un l’altro e i nostri sguardi lacrimavano eloquenza, non ci servivano parole, i nostri pensieri comunicavano a velocità e intensità mai assaporate prima. Con un lontano sentore di vaniglia.

Un grande pesce verde-issopo e bianco volava intorno ai pilastri, semplici tronchi già erosi, della veranda e sembrava ridesse di noi. E cantava, sì il pesce cantava; le Foglie Morte, cinguettò Junglaboy, me la ricordo.

Lentamente ci alzammo, uno a uno, ci inchinammo al mitico monaco Zen e cominciammo ad allontanarci in silenzio quando Barklove chiese: ci offriresti uno dei tuoi poemi?

Ikkyu ciondolò  la testa spelacchiata, sussurrò qualcosa a Lady Mory e Lady Mori cantò:

 

Questo mondo

Non è che

Un sogno fuggente.

Le inconsistenze della vita

Per quanto dolorose

Ci insegnano

A non attaccarci

A questo mondo evanescente.

Molti sentieri partono dai piedi della montagna

Ma dalla sommità

Noi tutti fissiamo lo sguardo  a una

Singola brillante luna. [2]

 

Camminammo muti per vie di notte, non c’erano lampare, né stelle di fragole glassate brillavano sopra di noi. Camminammo muti su sentieri di giorno, e c’erano arcobaleni all’orizzonte. Ne raggiungemmo uno, ne salimmo titubanti i primi scivolosi passi, in un angolo sulla striscia del viola vedemmo la caricatura di un flauto, Mozart in cerca di se stesso. Avrei voluto salutarlo ma Canopius mi tirò per il polso e mi spinse ad andare avanti. E tutti avanti andammo, non più muti ma raucando in armonia, al suono del maranzano di Triko. Fu in quel momento che mi sovvenne un altro poema di Ikkyu che non mi aveva comunicato molto quando lo lessi per la prima volta, l’avevo mentalizzato troppo zen, ma che adesso mi tuonava nel cervello, scannava sciami di orrifiche formazioni mentali, rilasciava l’ossigeno del mondo fluire nelle arterie.

Vorrei

Offrirti qualcosa

Ma nello Zen

 Non abbiamo proprio alcunché.

 Quando fummo a metà strada, al sommo dell’arcobaleno, sentimmo una calda vibrazione ondeggiare nell’aria e odorammo effluvi di mango. Triko lasciò il maranzano scivolare giù per il pendio della fascia blu, noi tutti lasciammo che i nostri strumenti prendessero la stessa via dell’esilio, Barklove a malincuore lasciò scivolare il suo bambù delle percussioni d’amore.

Ci prendemmo per mano formando un angolo acuto, chiudemmo gli occhi e seguimmo la nostra respirazione, inspirare espirare, inspirare espirare, inspirare espirare.

Il respiro trascendeva la materialità dei nostri corpi, i nostri corpi trascendevano la consapevolezza di se stessi, sentimmo l’aura di uno zeffiro marino penetrarci, dilatare la nostra coscienza. Sentimmo la vibrazione insinuarsi dentro di noi, puntare agli occhi, al cervello, alla lingua. Poi tutto svanì e noi volammo. Volammo nell’infinito profondo del Suono.

 

Chân Pháp Y

West Hamlet, 2003


[1] Forse Ikkyu non raccontò mai questa storia, ma avrebbe potuto.

[2] Collage di estratti da tre diverse poesie di Ikkyu, libera ma fedele traduzione.


ZEN
L'intensità di un
istante
Il nulla
dell'eterno
E vago-
stando immobile
nell'immobilità
dell'essere
Ora
e
sempre-Sono
Lorena

" Perché non è, questa mia,
una scienza come tutte le altre:
essa non si può in alcun modo comunicare,
ma come fiamma si accende al fuoco che balza:
nasce d'improvviso nell'anima
dopo un lungo periodo di discussioni sull'argomento
e una vita vissuta in comune,
e poi si nutre di se medesima "

Platone, VII lettera

ZAZEN
Invito le persone a sedersi con me in zazen
non ci sono ricette o regole, se non quella di conoscersi ed ascoltarsi.
quale modo migliore , se non sedersi senza far nulla, senza profitto, senza scopi....sei obbligato a fare i conti con te stesso, a sentire cosa ti vuoi dire - e soprattutto a ciò che non ti vuoi dire, relegandolo normalmente in un angolo nascosto...

siamo degli esseri illimitati che si sono limitati
se ci "riappropriamo" di ciò che siamo, riscopriamo chi siamo e le nostre potenzialità, scopriamo una grande verità.....
"nulla ci appartiene, neppure la nostra vita"
quindi perché preoccuparci
viviamo il più armoniosamente possibile, siamo sinceri con noi stessi e con gli altri
Noi viviamo pensando sempre che abbiamo tempo, ci sarà del tempo, ma poi, se guardiamo bene a fondo, quante cose non abbiamo fatto e non faremo perché siamo "incastrati" in questa illusione.
noi siamo qui ed ora.
il domani non esiste
ogni istante è irripetibile, e non torna...

Lorena


Un seme per il giardino...
Rochan

"...quando questi singoli elementi (nomi, definizioni, vista ed altre sensazioni) vengono con sforzo sfregati gli uni contro gli altri e sottoposti a confutazione in dispute benevole e in scambi di domande e risposte fatti senza animosità, allora, a chi compie ogni sforzo consentito alle possibilità umane, riluce d'un tratto intorno a ciascun problema comprensione e intuizione..."
PLATONE, VII Lettera

 




Il Sangha nel Giardino Zen
E' difficile, se non impossibile, praticare la via della Comprensione e dell'Amore senza un Sangha, e cioè senza una comunità di amici che praticano nello stesso modo. Nel mio paese diciamo che una tigre che lascia le montagne per scendere in pianura sarà catturata dagli uomini e uccisa. Praticare al di fuori di una comunità di pratica è la stessa cosa. Nella nostra società la spinta verso l'indifferenza è talmente forte che abbiamo bisogno del sostegno di amici che ci aiutino a essere in contatto con il nostro desiderio più profondo: amare e aiutare tutti gli esseri.
Abbiamo tutti un gran bisogno di un sangha: la nostra pratica dovrebbe essere sostenuta dalle persone che ci sono vicine, e noi possiamo imparare a sostenerle a nostra volta. Possiamo sostenerle guardando in profondità in modo da riconoscere i semi di pace, gioia e gentilezza amorevole in loro. Entriamo in contatto con quei semi, li innaffiamo ogni giorno in modo che gli altri possano sbocciare come fiori, e quando questo accade noi tutti saremo più felici. Dobbiamo aiutarci l'un l'altro nella pratica, la pratica della meditazione non è una questione individuale.
Dobbiamo pensare agli amici e alla comunità come a un investimento, come alla nostra proprietà più preziosa. Essi possono darci conforto, aiutarci nei momenti difficili e condividere le nostre gioie. E' facile morire in seguito ad una grande sofferenza anche se si ha molto denaro in banca. Investire su un amico, fare di un amico un vero amico, costruire una comunità di amici è una fonte di sicurezza di gran lunga maggiore. (Thich Nhat Hanh)
Thay

COME INTERPRETARE
IL TEMPO?

Risposte
Il tempo? Un meraviglioso paradosso che apre la porta verso l’infinito.
di
Chan Phap Y

TEMPO E DOMANDA

di Carmelo Pisasale

Che bisogno ha un poeta di tempo e di economie per cantare, amare, e nuotare
in un Mediterraneo di sogni?

di Chan Phap Y

novità Come interpretare il tempo?

di Rochan

Il tempo e le Sacre Scritture

di Andrea Cavaliere

voeux 2004
di Vincent Kesselring

Vivre avec grâce dans le moment,
Solide dans le présent
La méditation zen comporte deux volets:
Stop ici et maintenant, je m'arrête. "Samattha"
Je contemple ce qui est présent. "Vipassana"
Ce sont comme les deux ailes de l'oisillon
courageux qui s'élance dans le présent!
Petit à petit, mature et libre, il médite habile
sans effort il se laisse porter par les tourbillons
L'aigle devient son territoire sans frontière.
Dans le mouvement comme le non-mouvement
l'harmonie de la respiration génère la pleine
conscience et identifie les merveilles de la vie.
Cet effort de relaxation comme pratique guérit
et nourrit l'esprit. Alors le regard profond naît.
En paix et installé dans le monent présent.
Vipassana est ce regard profond qui contacte
la réalité des phénomènes liés aux pulsions
de peur et de désir. Dans l'espace de ce contact.
le souffle dénoue tensions et énergies d'habitudes.
Cette transformation apporte joie et sagesse.
Je peux m'identifier à toi, comme une vague
ne peux pas s'identifier à une autre vague
Leurs présences se renforcent mutuellement
dans leur voyage. L'eau est leur vraie nature.
Sans venir et sans partir est notre nature.
Pas né
et pas mort.
Non-être
et être.
...Nirvana...

PeaceZuppa Zen
Meditando e ricordando nel Giardino di Avola

Carissimi,

Ho aperto la porta del giardino e sono entrato. Esplicito e invitante il "perché" di Nino. Spero che stimoli molti amici a entrare, scegliere una panchina o sedersi sull'erba - molto più rilassante - e offrire fiori o steli di felce o qualche calda arancia siciliana di cui ho perduto la memoria ma non la nostalgia.

Questo è tempo di fioritura campestre, i prati devolvono messi di papaveri e piccole margherite primaverili, quelle che i Francesi chiamano, al singolare, pâquerette perché sbocciano durante il tempo della Pasqua e gli Inglesi semplicemente daisy che nella loro lingua èun nome collettivo per tutte le margherite.

Condivido una ricetta: insalata di petali di pavavero, margherite senza lo stelo, lattuga romana non contaminata. Deliziosa. E se volete usare anche le foglie del papavero, bollitele insieme a dell'ortica fresca, dal verde ancora dolce quasi pallido, aggiungete una o due grandi cucchiaiate di zucca gialla, passate tutto al mulino elettrico per averne una crema, e poi timo, origano fresco, due foglie di menta, un po' di sale e....godetevi una deliziosa zuppa Zen.

I Siciliani chiamano giardino il sito degli aranci. Quand'ero bambino si scorrazzava in questi giardini per cogliere le zagare e farcene collane, bracciali e ghirlande. Inconsciamente ripetevamo un rito antico, vissuto dalla memoria genetica. L'arancio, datoci dagli Arabi, è meno antico del rito che probabilmente risale alla nascita di Demetra, prima che l'idea di tempo sorgesse negli anfratti dell'illusione umana.

Nel giardino si gioca, si condividono gioie, opinioni, sogni. Il giardino è l'agora esistenziale della cultura araba, quella di Harun al Rashid e delle Arabian Nights, quando Bagdad era la capitale dell'Eden e le virtú umane vi tenevano luogo di legenda. Siciliani, e Pugliesi e Campani e Calabresi, hanno anche plasma arabo fuso a quello greco, che venne prima, e a quelli latino, normanno, svevo e.... quanti altri?

Il giardino fu, per lungo tempo, nella tradizione Zen del Giappone, un centro di espressione e di culto della bellezza essenziale, quella del pensiero intuitivo, spesso simbolizzata da pietre levigate poste fra cespugli quasi fiori silenziosi, dall'aspetto metallizzato, scivolante, sottile, pregno di significati e testimoni di lunghe contemplazioni.

Gli Italiani, che per antonomasia sono adoratori della bellezza, amano giardini lussureggianti dove tutte le dinastie dell'universo efflorescente hanno dominio. La ricchezza dell'interazione floreale va avanti al dialogo dell'impollinazione, va oltre la stessa idea di fioritura, è il vigore della vita, l'entusiasmo dell'interessere che si manifesta . E' la danza primaverile dello Zen. Aldilà di Vivaldi, che visse fra le brume, sopra la percezione immediata della mente, verso la comunione delle appariscenze cromatiche, la trascendenza dell'estetica, lo stato irenico della mente.

Gli Inglesi, grandi esteti del giardinaggio, discretamente allergici alla briosità mediterranea, architettano giardini dalla geometria sobria ma viva. I giardini inglesi non hanno l'accattivante mistura dei colori siciliani o provenzali ma c'é in essi un'attenzione alle forme che va aldilà del disegno, c'è intimitá, espressione meditativa, una leggiadria che invita al sommesso dialogo delle intuizioni e degli umani sentimenti. I giardini inglesi sono prolegomeni al rilassamento totale, che è terapia Zen .

Mi fu detto un tempo di altri giardini, quello di Creta che fu una prigione; quello delle Esperidi, aureo monumento all'umane illusioni; il giardino di Gilgamesh, scomparso nell'ineguale scontro con un tank del Minnesota; quelli pensili di Babilonia, ricordo di ricordi altrui - ma sulla tomba di Babylon abbiamo versato lacrime; i giardini norrenici di ghiaccio; i giardini di Arcadia tanto cari al Fucino e a Pico; quello dove, secondo alcune mitologie, scaturì l'origine dell'umana sofferenza; quelli di Versailles, orto di obsoleta grandeur; il giardino di goiave e passiflore che avevo ricavato a forza di machete da un fitto grumo di cactacee. Su uno di quei cactus, un candelabro, ogni mattino all'alba, un leopardo si accucciava sfidando la mia difesa; quello di Getsemani in cui, per talun credo, la meditazione sulla morte imminente fu preludio alla redenzione; il giardino di bambù di Anathapindika dove il Buddha amava riposarsi e insegnare; e il mio, quello mai avuto, dovre avrei desiderato coltivare dente di leone, luppoli (Sciascia ne amava la zuppa), basilico a foglie larghe, salvia bianca e aneto. Con vialetti di ciotoli levigati e coppelle di pietra sparse a caso per bruciarvi ambra e bastoncini aromatici di incenso Buthanese.

Romanticismo della contemplazione? No. Oltre il breviario delle illusioni, nella kitchen reality della quotidianità calda di vita, dagli orizzonti bassi e pragmatici, dove non si balbettano formule all'indirizzo di statue. Dove fra i rovi e il boschetto di millefoglie puoi udire l'upupa, simbolo di saggezza secondo Attar, e divinare che invece è la voce scanzonata di Lin Chi . Siamo negli abissi incontornabili dello Zen puro.

E' tempo d'estate, non so quali odori e colori danzino ora nei giardini di Sicilia ma so che, certamente in questo giardino, il Giardiniere ha già seminato grani di inconsueta bellezza e dalle mirabolanti proprietà nutrizionali.

Aspetto il suo ritorno dalle terre del nord per chiedergli una manciata in più di semi e spartili fra i corsi irrigati del giardino di Avola. Mi auguro che siano in molti ad attendere la fioritura e accendere i falò della gioia.

Ho scorto un angolo, all'ombra di un altissimo sommacco ­ l'albero della mia prima infanzia- , mi siedo. C'è silenzio, ascolto. Percepisco il profumo di rose antiche, entro nella mente dentro la mente, visualizzo il Giardiniere che mi dice: non fuggire, non ci sono rose qui attorno, la grande trappola delle illusioni ti segue, si addossa alla tua stessa ombra. Mi alzo, cammino. Sento che il giardino mi penetra e si espande, io sono il giardino, il giardino e io siamo una sola entità. L'entità della consapevolezza, il grande volo dello Zen.

Non è un sogno né una divagazione pseudopoetica. Camminiamo insieme, voi e io, in questo giardino che è una metafora della mente, impariamo ad accettare i fenomeni per quel che sono, spoglie della realtà apparente, Eckhart diceva istkeit, ricchissimi dell'interessenza di ogni particella; radichiamo i piedi sul petto di madre terra, e il profumo delle rose non sarà solo profumo di rose ma una complessa danza di aromi e la pizza e le bruschette che Nino ci propone avranno il sapore del grano duro, giallastro, delle mie terre e del sole che ci vide nascere.

Forse Empedocle, che usò anche la musica per guarire i mali del corpo e che disse l'amore unisce tutti gli elementi dell'esistere, voleva scoprire il giardino incantato della natura intima della vita quando si tuffò nelle budella della montagna; mai immaginando, lui che di creatività ne aveva grandi bisacce, che la teneva stretta in pugno. Non la seppe intravedere. E comunque morì nel suo letto deluso di non ulteriori scoperte ma il mito serve, è didattico. Aldilà della sua giocosa vanità, l'antico agrigentino ci lasciò qualcosa di buono da trasformare per il nostro giardino.

Il giardino ci aiuta a guardare, il giardino ci segna i viali, l'erbe mediche, le gramigne. Gli occhi dello Zen ci sono strumenti per comprendere le stagioni delle erbe, la maturazione dei frutti, il gesto consapevole della raccolta, la responsabile azione del dare, l'espansione della coscienza di compassione.

Un monaco Zen viveva solitario sulla cima di una collina dove aveva trasformato l'esiguo spazio intorno alla sua capanna in un giardino di crisantemi. Ogni giorno all'alba e al calar del sole incrociava le gambe in zazen e dialogava con i fiori da mente a mente, la sua mente e quella dei crisantemi.

Un giorno l'anziana donna del villaggio in basso che gli arrancava il cibo delle offerte gli chiese con curiosità e irritazione perché al posto di inutili fiori non coltivasse cavoli e carote.

Il monaco non rispose. Guardava le api che ciondolavano da un fiore all'altro. Poi si chinò verso il più vicino dei crisantemi, lo raccolse e, con un ampio sorriso di felicità, l' offrì alla vecchia contadina che si vide svelato il segreto dello Zen.

 Sicilianamente vostro

 Chan Phap Y

nell'ultimo giorno di Maggio, il mese del Vesak e delle rose, 2003


Thay

Carissimo Chan Phap Y,
mi ha fatto molto piacere ricevere la tua lettera, impregnata del ricordo comune dei bellissimi giorni passati insieme. Sono nel cuore molto felice che ne abbia parlato con Thay, la cui sola memoria dei momenti di insegnamento e comune meditazione rinsalda la gioia presente nel quotidiano vivere: ricordare Thay è ricordare se stessi e spero che sia sempre più cristallizzata e leggera come il vento la sua presenza fin a dissolversi in tanti, e lo spero con fiducia.

Come noterai questa mia è inviata anche a Ciccio in uno spirito di comune attenzione ai tempi che viviamo, come se tre amici seduti nelle nostre bianche città meridionali bevendo un'orzata, si domandino che fare per noi stessi e per tutti per vivere in armonia, migliorarsi e migliorare i momenti e il mondo che viviamo?

Questo spirito di ricerca - veramente rivoluzionario - anima il sito sensibile di Ciccio a cui collaboro cercando di far del mio meglio. Abbiamo inserito, per darti un esempio, tra le poesie della settimana il canto di Thay sul vento ed è stato molto apprezzato da tutti. Il sito è www.libreriaeditriceurso.com e visitandolo tutto ti consiglio tra i Link consigliati quello Zen, ti metterà ancor più di buon umore.

Ciccio è uno spirito libero e scriverà egli stesso della sua indipendente attività editoriale, e di libraio al servizio del Bello e del Bene.

Cosa possiamo fare insieme? La libreria potrebbe parlare di Thay e dello Zen, esporre alcuni suoi libri, eventualmente vedere qualche video-cassetta a loro fornita dai centri italiani con alcuni bellissimi discorsi. Pensavo anche di impegnarmi per sbobinare alcuni cd dei discorsi a Roma di quest'anno e immetterli sul sito per sensibilizzare i visitatori, già da tempo abituati alle belle letture, alle serate di poesia. Preparare un po' il terreno e sperare che qualcuno di Avola venga a visitare la comunità in Francia per sentire e vedere Thay. Da parte mia spero di organizzare la visita in Francia per il lungo ritiro autunnale.
Ecco, cari amici, con semplicità iniziamo a mettere in comune quel che abbiamo: i siti www.libreriaeditriceurso.com e il sito italiano di Thay www.esserepace.org e quelli in esso indicati, e con franchezza scambiamoci idee, opinioni. Siamo in buona compagnia e chissà che un giorno con Thay si possa celebrare noi tre la cerimonia del tè sorseggiando orzata e dolcetti delle nostre parti. A risentirci a presto
Un abbraccio
Rochan

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