di Mario
Thanavaro
Shunryu
Suzuki
La parola ‘buddhismo’ viene
associata a una grande varietà di pratiche religiose. Tutte
quante hanno la loro origine nel Buddha storico, Siddhartha Gautama
[1]
, detto anche Shakyamuni
[2]
, che visse per circa 80 anni nel VI-V secolo a.C.
nel nord dell’India. La cronologia è alquanto incerta
e la stessa biografia del Buddha è intessuta di elementi leggendari.
Questo ci rammenta che per studiare il buddhismo (o un qualsiasi insegnamento
religioso) occorre una certa elasticità mentale, non aggrapparsi
ai concetti. Il Buddha nacque a Lumbini, vicino a Kapilavatthu, dal
re Suddhodana Gautama e da sua moglie Maha Maya, la quale morì
dopo soli sette giorni dalla sua nascita. Siddhartha, “colui
che conosce la meta”, fu affidato alle cure della zia Mahapajati,
sorella della madre e seconda moglie di Suddhodana. Trascorse una
serena fanciullezza principesca sotto l’attenta sorveglianza
del padre che temeva l’avverarsi della profezia secondo cui
Siddhartha sarebbe divenuto o un grande re o un ‘liberatore
dei mali del mondo’. Il giovane principe si unì in matrimonio,
all’età di sedici anni, alla bellissima Yasodhara. Visse
nell’agio e nella spensieratezza, dimorando nei tre palazzi
e nei quattro giardini che il padre gli aveva via via donato per distoglierlo
dall’intraprendere la ricerca
spirituale. Ma un giorno, narra la tradizione, si avverrò
quanto temeva Suddhodana: recandosi da un giardino all’altro
sul suo cocchio dorato guidato dal fedele Channa, volle cambiare strada
e incontrò un vecchio sofferente per la sua avanzata età.
Ne rimase profondamente turbato ma al tempo stesso curioso di conoscere
quella realtà che per tanti anni gli era stata nascosta. In
tre successive uscite da uno dei suoi palazzi si imbatté in
un malato agonizzante, in un corteo funebre e per ultimo in un asceta
mendicante dallo sguardo sereno e profondo. Quest’ultimo incontro lo convinse a lasciare la vita agiata
condotta per ventinove anni e a intraprendere un cammino di rinuncia
dei piaceri terreni, al fine di scoprire il rimedio al male della
vecchiaia, della malattia e della morte. Preso congedo dal padre,
salutò senza svegliarli la moglie, il figlio neonato, Rahula
e si diresse verso la foresta. Questa storia può essere vista come
una metafora della condizione umana; il palazzo regale rappresenta
il nostro aggregato psicofisico, nel quale viviamo inseguendo continuamente,
con il contatto sensoriale, il piacere e fuggendo dal dolore. A volte
può succedere che questo approccio dualistico all’esistenza
venga messo in discussione e ci ritroviamo a cercare il senso della
vita. Questo cambio di direzione può scaturire dall’incontro
con l’insoddisfazione, il disagio fisico, mentale, emotivo,
spirituale, la sofferenza. Entriamo dunque nell’esplorazione
di un ambiente interiore intricato simile ad una foresta, apblankemente
oscuro e ostile. Seguendo le discipline ascetiche molto diffuse
già allora in India, Siddhartha Gautama praticò strenuamente
per ben sei anni, fino a giungere allo stremo delle forze. Il principio
che regolava queste tecniche era basato su un credo piuttosto diffuso
a quei tempi e tuttora presente nella cultura religiosa indiana, secondo
il quale l’anima era prigioniera del corpo e poiché il
corpo era il luogo di indicibili sofferenze, legato alla morte quale
suo destino ultimo, queste pratiche miravano a far emaciare il corpo
affinché l’anima, priva di base e di sostegno, potesse
finalmente prendere il volo verso la libertà. Il principe Siddhartha, ora diventato l’asceta
Gautama, aveva abbracciato l’ideale dell’ascetismo anche
come risposta alla sua vita agiata nei lussi del palazzo reale, dove
aveva ottenuto il massimo piacere sensoriale senza però raggiungere
quella felicità ultima alla quale intimamente aspirava. Dunque
il suo ardore, la sua passionalità nella pratica ascetica era
pari a quella che era stata la sua sensualità durante la vita
principesca. Attorno a lui si era radunato un piccolo gruppo di cinque
asceti della foresta che lo ammiravano per l’impegno profuso
nella pratica (Koãdañña, Bhaddiya, Vappa, Assaji, Mahánáma). I lunghi digiuni,
però, insieme alle altre privazioni cui era dedito, lo avevano
portato allo stremo delle forze, quasi alla morte. Si narra che un
giorno, recandosi al fiume Nerañjará che si trova nella stato del Bihar (attualmente
uno degli stati più poveri dell’India, se non il più
povero), svenne; dopo essersi ripreso si rese conto che doveva necessariamente
mangiare se voleva portare avanti la sua pratica. Lì vicino,
ai piedi di un albero, si trovava una donna del villaggio vicino,
di nome Sujátá, che stava offrendo
allo spirito di quell’albero un’offerta, una ciotola di
riso dolce, con la richiesta di rimanere incinta. Quando Sujàtà vide Siddhartha, che nel frattempo
era tornato a meditare, rimase colpita dalla luce che egli emanava,
e pensò che quello doveva essere lo spirito dell’albero.
Così offrì a lui la ciotola di riso. Siddhartha, avendo
riflettuto sull’inutilità di un’eccessiva mortificazione
del corpo, accetto l’offerta e mangiò. Aveva compreso
che il suo cammino spirituale percorso fino a quel momento era stato
privo di equilibrio, e gli tornò in mente il motivo di una
canzone che aveva udito. Le parole di questa canzone, accompagnata
dalla musica di un liuto, dicevano che le corde dello strumento non
dovevano essere né troppo tese né troppo lente, affinché
la corretta tensione producesse il giusto suono. Siddhartha intuì
quindi che era necessario accordare lo strumento della propria pratica. Questo strumento è costituito dal
nostro corpo e dalla nostra mente; dobbiamo avere cura del nostro
corpo ed è la mente che con retto discernimento può
comprendere ciò di cui il corpo ha bisogno. Se il corpo ha
freddo, deve essere coperto al fine di evitare un raffreddamento della
temperatura corporea e conseguenti malanni. Se il corpo ha fame, deve
essere sfamato, se ha sonno, deve riposare. Se il corpo è irrigidito,
ha bisogno di esercizi affinché i propri muscoli siano flessibili
e capaci di compiere i movimenti necessari. Se noi trattassimo il
corpo con la giusta attenzione non ci riuscirebbe troppo difficile
comprendere ciò di cui abbiamo bisogno sul piano fisico, e
potremmo meglio prevenire le malattie, gli incidenti. Dunque, è importantissimo il corretto
rapporto con il proprio corpo e questo può avvenire solo se
ne riconosciamo la sua natura istintiva; gli istinti primari sono
sicuramente delle pulsioni necessarie affinché il corpo possa
sopravvivere in condizioni più o meno favorevoli. Al tempo
stesso non possiamo fare della ricerca del soddisfacimento degli istinti
primari lo scopo unico della nostra esistenza. Vivere a un livello
meramente istintivo, sfrenato, offusca la coscienza, non la nutre
di valori e non la eleva a stati di purezza. È importante comprendere il ruolo
fondamentale della rinuncia. Per rinuncia qui si intende essenzialmente
rinunciare a ciò che nuoce, rinunciare all’eccesso, rinunciare
al superfluo: rinunciare, in altre parole, a star male. Se fossimo
veramente capaci di trovare nello spirito della rinuncia il senso
comune delle cose, questa stessa non ci peserebbe come un sacrificio,
anzi, sarebbe accolta come vera liberazione. La rinuncia, in effetti,
semplifica la vita, la alleggerisce da tutto ciò che non è
essenziale, non è necessario. Non è sempre facile. A
questo proposito ricordo di aver letto che Paolo VI, all’inizio
del suo pontificato, richiese la ristrutturazione di alcuni locali
all’interno del Vaticano perché sfoggiavano troppa ricchezza. Ebbene, i lavori che furono portati avanti furono così
costosi che egli fu accusato di aver speso un’enorme quantità
di denaro per un desiderio estetico di povertà. A volte il
desiderio di semplificare la vita implica un dispendio di energie
che di fatto non semplifica la vita. Disfarci delle cose che ci sembrano
superflue talvolta può creare molte complicazioni, crisi famigliari,
e portare a uno stato di confusione anziché di semplicità.
Invece che inseguire una semplicità apblanke, è preferibile
rinunciare alla smania di accumulare cose che di fatto non ci servono,
comprendere e lasciare andare il bisogno psicologico di colmare un
vuoto interiore che di fatto è incolmabile. La rinuncia, nel suo significato più
profondo, è quella totale spoliazione di ambizione da cui nascono
l’umiltà del cuore e l’accettazione della vita.
Siddhartha Gautama, nel consumare quel riso delizioso, attua di fatto
una rinuncia profonda. Rinunciava a quei modelli di pratica che sebbene
gli avessero fatto meritare la stima dei suoi cinque compagni, non
lo avevano condotto alla liberazione ultima. Mangiando quel riso probabilmente
sapeva di tradire la fiducia dei suoi compagni, ma era giunto il momento
di assumersi la completa responsabilità della sua pratica e
svincolarla dalle aspettative degli altri. È in quel momento
di totale rinuncia che egli scopre una autentica solitudine: i suoi
compagni, giudicando il suo gesto come una mancanza di fervore spirituale,
si allontanano da lui, e non ci sono più neanche quei concetti
sulla pratica che per ben sei anni avevano sostenuto i suoi sforzi.
In questa totale solitudine nella giungla indiana, Siddhartha ritrova
la fermezza per attuare nella sua vita quel cambiamento e quella rivoluzione
di prospettive che lo porteranno al Risveglio (Bodhi). Il Risveglio
avviene il mattino seguente la luna piena di maggio, ai piedi di un
albero che da allora verrà chiamato l’albero della Bodhi,
dove Siddhartha si era seduto in meditazione col proposito di non
rialzarsi fino a quando non avesse raggiunto la liberazione finale.
Si dice che nel corso della notte della luna piena di maggio del mese
del Vesak, i pensieri più turbolenti, i ricordi più
ammalianti e seducenti affollavano la mente del Buddha. Tradizionalmente,
questi pensieri erano emanazioni dell’archetipo del Male, Mara,
il signore della morte, che presiedeva al samsara
[3]
. Preoccupato dal fatto che qualcuno volesse uscire
dal ciclo delle rinascite, dal condizionato, Mara attaccò Siddhartha
con le sue armate e con le sue figlie, suscitando paure, desideri
e altre emozioni turbanti. Ma questi, riconoscendo tutti i fenomeni
come transitori, privi di realtà ultima e dunque fugaci, rimase
sereno con la fermezza e la quiete interiore. Nel corso della prima veglia gli venne il ricordo delle sue
vite precedenti. Durante la seconda veglia, egli comprese la legge
del karma percependo la morte e la rinascita degli uomini, a seconda
delle loro azioni, e sorse in lui compassione per la condizione di
tutti gli esseri. Nella terza veglia comprese la vera natura dell’esistenza,
il ciclo di nascita e morte. All’apparire della stella del mattino,
egli era un Risvegliato (Buddha), libero dall’attaccamento e
dall’identificazione con il corpo-mente, in intimità
con il senso profondo della realtà, con la natura luminosa
(pabhassara) della mente. Si rese
conto che l’universo intero non è altro che la sua stessa
natura, vacua, libera, spaziosa, pregna di potenzialità energetica
e di luce. Chiamò allora a testimonianza della
sua buddhità lo spirito della Terra, affermando la propria
liberazione da ogni legame egoico con le seguenti parole:
«Per il samsara – per molteplici nascite – Ho corso invano, cercando il costruttore della casa. Dolorosa è la nascita senza fine. Costruttore della casa, sei stato riconosciuto! Non erigerai più la casa! Tutte le travi sono state disfatte, la traversa del tetto è stata distrutta. La mente si è liberata dai coefficienti, è giunta al termine di ogni sete».
Dhammapada 153-4
[4]
Non era un dio, ma un uomo che aveva raggiunto
in terra la liberazione (vimutti), l’estinzione della sofferenza (dukkhanirodha), realizzando così
l’inscindibilità con il Dharma, la Legge Eterna
[7]
. Dimorando in una pace indescrivibile, il Buddha
rimase in meditazione per settimane, nel corso delle quali avvertì
l’esigenza di divulgare questo suo messaggio all’intera
umanità per il beneficio di innumerevoli esseri senzienti.
Questa decisione del Buddha ha un’importanza straordinaria nel
pensiero religioso dell’umanità. [1] (sanscrito; pali: Siddháttha Gotama). Trattandosi di un nome ormai noto anche in ambito occidentale, viene qui usato Siddhartha in sanscrito e senza i segni diacritici. La forma ‘Siddharta’ conosciuta in Italia deriva da un errore di trascrizione di Massimo Mila nella traduzione del romanzo Siddhartha di Hermann Hesse (si veda M. Piantelli, Il buddhismo indiano, in G. Filoramo (a cura di) Buddhismo, Editori Laterza, Bari 2001, nota a p. 21). [2] ‘Il saggio degli Shakya’. Gli Shakya erano la famiglia di origine di Siddhartha, a capo di un piccolo regno (l’Uttarakosala) che si estendeva dal Nepal meridionale fino al Gange, con capitale Kapilavatthu (Kapilavasthu), a circa 250 km da Benares. [3] Il ciclo delle nascite e delle morti. [4] Anekajáti samsára³ sandhávissa³ anibbisa³; gahakára³ gavesanto, dukkhá játi punappuna³ / Gahakáraka dißßhosi, puna geha³ na kahási; sabbá te phásuká bhaggá, gahakúßa³ visaýkhata³; visaýkháragata³ citta³, taãhána³ khayamajjhagá. Si è adottata la traduzione in italiano di Francesco Sferra, in La Rivelazione del Buddha, a cura di C. Cicuzza, R. Gnoli, F. Sferra, Milano 2001, I Meridiani Mondadori, p. 533. [5] (sanscrito; pali Bodhisatta): nella tradizione antica il termine Bodhisattva si riferisce solitamente al Buddha prima dell’illuminazione, sia nelle vite precedenti che in questa vita; nel buddhismo Mahayana il bodhisattva è colui che rinuncia a una liberazione individuale per la liberazione di tutti gli esseri, mosso da grande compassione (mahakaruãá). [6] (sanscrito; pali Nibbána): il termine nirváãa letteralmente significa ‘spegnere una fiamma con un soffio’ e si riferisce alla libertà dall’arsura (il fuoco) dell’attaccamento e dell’avversione. [7] In questo contesto il termine Dharma viene adoperato non nel suo significato di insegnamento del Buddha, ma nel significato di verità ultima, immortale. Nei testi antichi della tradizione buddhista ricorre sovente la definizione Asamkhata Dhamma, ‘la Verità Incondizionata’. |