La caponata è un piatto tipico siciliano… Pochissimi sanno che Andrea Camilleri ha scritto un eccellente racconto intitolato appunto “La caponatina”, ispirato, come lui stesso scrive in coda al racconto, dalla lettura de “I fatti di Avola” di Sebastiano Burgaretta pubblicato dalla Libreria Editrice Urso. Motivo di orgoglio per noi che in questa città di Avola, ed anche altrove, in Italia, pur con tante difficoltà, siamo presenti sempre!
Abbiamo voluto rilanciarlo con questa e-mai, per farne dono ai lettori, nel momento di apprensione che tutti stiamo vivendo per le sue condizioni precarie di salute in questo fine giugno del 2019.
Il racconto fu pubblicato a giugno del 2005 a cura di Paola Staccioli in una raccolta di racconti di quindici scrittori italiani dal titolo “Piazza bella piazza”.
Il racconto di Camilleri è straordinario per l’immedesimazione dello scrittore siciliano con il crescendo di tensione in quel 2 dicembre di cinquant’anni fa.
Nella lingua siciliana che gli è più vicina, l’agrigentino, Camilleri vede quei fatti dagli occhi di un bambino, Pino, e mette dentro la narrazione tutti gli argomenti che caratterizzarono quel giorno (dalla sensibilità dei braccianti nell’aprire il blocco in situazioni di emergenza, alla loro amicizia con le guardie della città, dalla presenza delle donne alla partecipazione del sindaco Giuseppe Denaro, dallo sparo dei fumogeni, allo sparo mirato all’uomo, in una violenza inconcepibile nelle lotte sindacali e per il lavoro).
AVOLA, 2 DICEMBRE 1968
LA CAPONATINA
La matina, appena che raprii l'occhi, talìai il calinnario che il varberi aviva arrigalato a mè patre e che signava il dù di dicembiro 1968. Però m'addunai macari, dalla finestra aperta, che la jornata era bona ma che avivo durmuto troppo a longo. Il letto granni indovi si corcavano 'u papà e a mamà era sfatto. L'altro letto nico che ci dormiva mè soro Annetta che aviva quattro anni meno di mia che ne avivo setti, era macari vacante. Come mai 'a mamà non mi aviva arrisbigliato a tempo per la scola? Col maestro Cosentino, se arrivavi doppo che era sonata la secunna campanella, non c’era verso: non ti faciva trasire in classe. Appena nisciuto da sutta la coperta il friddo m'agghiazzò di colpo, non ce la feci e tornai nuovamente dintra a lu lettu. Ristai tanticchia a pinsari se era megliu che mi lavavo tutto o se era meglio che mi davo solamenti una passata d'acqua sulla facci. Mi susii di cursa, mi detti una passata, mi vistii e andai nell'altra camera indovi c'erano il cufularo e il tavolino di mangiari. II foci del cufularo si stava astutando, mi quadiai tanticchia di latte, ci misi un cucchiarino di zuccaro ma doppo cinni misi un altro approfìttanno che la mamà era nisciuta e dintra la tazza ci fichi una pappanozza schiaccianno il pane col cucchiaro. Mangiai di prescia e stavo fìnenno quanno 'a mamà tornò.
«Oggi non fanno scola» mi disse.
«Pirchì»
«Pirchì c'è sciopero. In paisi tutti i negozi sono chiusi.»
Sapivo che era uno sciopero, avivo sintuto 'u papà che ne parlava, tri jorni avanti, cu 'na para d'amici.
«Allura pozzu andare a jocare con Totò!»
Totò Sigona, amico e compagno di banco, abitava a solo quattro case cchiù avanti.
«No. Mi servi qua pirchì devi fare una cosa.»
«E Annetta dov'è?»
«La portai in casa di tò zia Teresa. Io oggi non ci pozzo abbadare.»
La mamà pigliò la bisazza che 'u papà si portava a tracolla quanno che andava a travagliare e dintra c’infilò una buatta di sarde salate, una bruna di caponatina che aviva priparata la sira avanti, una forma di tumazzo, tri grosse scanate di pane, una bottiglia di vino, un pacchetto di “Nazionali” e una scatola di surfanelli.
«Ce la fai a portarla?»
«Certo che ce la faccio» replicai, offiso. «E a chi la devo portare?»
«A ‘u papà che se lo sparte con i compagni sò»
«E indovi è 'u papà?»
«Tu la sai indovi è quella contrata che si chiama Chiusa di CarIo sulla strata nazionale?»
«Certo. Doppo la pompa di benzina. Ci metto manco un'orata ad arrivaricci. E che ci fa?»
«Stanno lì e non fanno passari a nisciuno, machine, muturini, carretta, nenti di nenti. Macari stanotte sinni stette alla Chiusa.
Ora mettiti la mantillina, 'u birrittu di lana e la sciarpa ca fa friddo assà. Dicci a tò patre ca verso l'una ci porto, si m'arrinesci, tanticchia di pasta col suco.»
Maria! Quantu mi sintii cuntentu! Ero accussì cuntento che manco m'addunai che la bisazza pisava. Appena fonl paisi, mi sintii chiamari.
«Pino! Pinuzzo!»
Di darrè una casa era spuntato uno che stava supra a una bicicletta.
Quanno s'avvicinò l'arricconobbi. Era 'u zÙ Tanu Jacono, che tutti in paisi l'acchiamavano "testarutta" pirchì, accussì m'avivano cuntato, cinco anni avanti c'era stato un altro sciopero e le guardie avivano assicutato i braccianti con le gip tirreno tirreno a malgrado che chioviva forti e la terra era addivintata tutta fango e, con una manganellata, avivano rumputo la testa a zù Tanu.
«Indovi vai?»
«Staiu purtannu 'u mangiari a mè patre alla Chiusa.»
«Dammi sta bisazza ca ti pisa. lu macari staiu iennu alla Chiusa. Ci lo portu iu lu mangiari a tò patre.»
Gli pruii la bisazza, lui la mise attaccata alla canna della bicicletta.
«E tu tornatinni a la casa. Nun è cosa di picciliddrL»
«Iu nun sugnu picciliddru!»
«Va beni, ma tornatinni a la casa lu stissu.»
E accomenzò a pidalari. lu era arraggiatu da quello che m'aviva ditto 'u zÙ Tanu. Comu fari per addimostrargli che non ero cchiù un picciliddro? Mi vinni 'n testa di arrivari alla Chiusa prima di lui a malgrado che lui caminava in bicicletta e io a pedi. Non era 'mprisa difficile: 'u zù Tanu era obbligato a seguitari la strata, io no. Mi ghittai campagna campagna: se c'era una trazzera, bene; masannò caminavo supra 'u tirreno coltivato e satavo i muretti vasci di petram. Doppo una mezzorata che curriva e non sintiva cchiù friddo anzi ero sudatizzo, vitti a distanza la pompa di benzina che c'era sulla stratta a un centinaro di metri dalla Chiusa. Non era solo una pompa, era macari un bar che tinniva sempre fora, state o 'nverno, du tavolini e quattro seggie. Quanno che ci arrivai, i du tavolini erano stati accostati e le seggie erano addivintate otto.Tutte occupate. Altre cinco o sei pirsone erano addritta torno torno. Mi fermai non per la curiosità di sintiri quello che dicivano, ma per ripigliari tanticchia di sciato. Avivo curruto megliu di una lepre.
«Bisogna assolutamente convincere i compagni a levare il blocco!» disse un omo cinquantino, vistuto bono.
«Vacci tu, onorevole, a convincerli»gli arrispunnì uno che avivo visto in paisi e che 'u papà m'aviva spiegato che faciva il segretario della cammara del lavoro. «Ci sono state troppe chiacchere, troppe promesse non mantenute, troppi contratti non rispettati. I compagni ora vogliono i fatti. Perché sono pagati meno di altri facendo lo stesso lavoro?»
«Devo venire a spiegare a te cosa sono le gabbie salariali?» spiò l'onorevole.
«A me, no. E manco a loro. Ma perché vuoi che i compagni non vadano avanti nel blocco?»
«Perché ho chiamato Catania al telefono. Mi hanno detto che stanno arrivando qua reparti della Celere. Sono preoccupato, può finire a schifìo.»
Ripigliai a caminare, ma sulla strata vitti sulamenti una bitunerà ferma, il guidatore non c'era, gli sportelli erano tutti e dù rapruti, nel posto allato al guidatore ci stava assittato un picciliddro che mi taliò scantato. Caminai ancora e tanticchia cchiù avanti vitti una quantitò di pirsone, chiossà di un centinaro, 'na poco sulla strata,'na poco assittata supra un muretto, 'na poco sutta all'arboli. C'erano banneri russi e un grosso tronco d'arbolo miso in modo che nisciuna machina potiva passari sulla stratta. E infatti davanti al tronco c'era un'automobile che aviva torno torno cinco o sei omini. Uno era mè patre che parlava col guidatore dell'automobile. Allato al guidatore ci stava una monaca, un'aura monaca era assittata darrè e tiniva abbrazzata una fìmmina picciotta ma giarna giarna che pariva morta.
«Per favore» stava dicenno il guidatore «fateci passare. Dobbiamo portare d'urgenza questa donna all'ospedale.»
«Il blocco è blocco per tutti» disse uno che accanoscevo e che si chiamava Occhipinti. «Mi dispiace, ma dovete tornare indietro.»
«Se non ci fate passare, questa donna morirà» fece la monaca assittata davanti, talianno a Occhipinti.
«Spiamolo ai compagni» disse 'u papà.
Occhipinti si mise le mano torno torno alla vucca, domandò attinzioni, spiegò la situazione.
«Lassatele passare» fu la risposta quasi a coro.
Quattro omini spostarono il tronco, la machina passò e il tronco vinni miso nuovamente come a prima.
«Ma come?» fece uno che era vistuto con una tuta. «A quelle le lassate passari e a mia no?»
Allura capii che era quello che guidava la bitunera.
«Ti po' mettiri 'u cori in paci» disse 'u papà «tu non passi.» L’uomo con la tuta s'allontanò santianno.
«A mano vacanti arrivi?» mi spiò 'u papà appena mi vitti.
«No, 'a bisazza cu 'u mangiari la vosi portare 'u zù Tanu Jacono che sta vinenno in bicicletta.»
«E come mai nun è ancora arrivato?»
«Pirchì iu curro chiossà di lui che è in bicicletta.»
«Tò matre ce la mise la caponatina?»
«Sì.»
Tutto 'nzemmula sintimmo una vuci che chiamava a 'u papà.
Era 'u zù Tanu Jacono che era allura allura arrivato. Mi taliò imparpagliato, di certo si stava spianno come aviva fattu iu ad arrivari prima, ma non disse nenti, pruì la bisazza a 'u papà. Mè patre pigliò la bisazza, tirò fuori la burnìa con la caponatina e una scanata di pane e la bisazza se la mise incoddro.
Doppo pigliò a caminare verso una gip della polizia ferma supera la strata a una vintina di passi e dintra c’erano quattro guardie che facivano serviziu in paìsi e accanoscevano a tutti. Iu ci andai appresso. Appena dalla gip vittiro a 'u papà che s'avvicinava, scinnì una guardia e nni vinni incontri..
«Che c'è, Pasquà?» spiò la guardia.
«T'arricordi, Nicò, ca stanotti, quanno vinistivo a mangiari con noi dato che i vostri superiori s'erano scordati di voi, ti parlai della caponatina ca fa mè mogliere? Eccola qua, mangiatilla cu i tò cumpagni, vi portai macari una scanata.»
Ma la guardia non si pigliò la burnìa di caponatina che 'u papà gli pmiva. Era serio serio.
«Grazie, Pasquà. Ma abbiamo avuto l'ordine di tornarcene subito in paìsi.»
‘U papà parse cuntentu.
«Allura viene a dire che non hanno intenzione di farvi intervenire?»
La guardia Nicola fece 'nzinga di no con la testa.
«Ci è arrivato l'ordine di tornare narrè da un’altra stratta. Ci sostituiscono con quelli della Celere che a momenti arrivano da Catania. Se vuoi 'u mè consiglio di frati, macari voi dovreste tornare in paisi e levare stu blocco. Quelli non sgherzano. E voi lo sapete. Bona fortuna, Pasquà.» .
Votò le spalli, acchianò sulla gip, la gip fici dietrofront e s'allontanò. ‘U papà arristò con la burnìa in mano a vidiri la gip scompariri. E doppo, mentre tornavamo narrè, mi taliò e mi disse: «Vattìnni subito a la casa. Subito, di cursa!»
«Va beni» dissi.
Lo secutai ancora per qualichi passo e mentre lui si mittiva a parlari fìtto fitto cu tri o quattro cumpagni sò, io vitti arrivare 'a zà Ciccina, 'a zà Cruci, ’a zà Cuncittina e n'autra poco di fimmine ca non accanusciva. Purtavano cose di mangiari. Allura 'u papà si mise a fari voci.
«Non potete stare qua! Ora viene la Celere! C'è piricolo!»
Ma quelle manco lo stavano a sintiri. E po' la vitti, la Celere, che arrivava da Catania. Una fila che nun finiva mai di gip e di camionette. Allura mi misi a curriri e mi ghittai fora strata, a la campagna. Quanno stimai che 'u papà nun mi potiva vidiri, tornai narrè tinennomi calato darrè una filara d'erbaspina che stava allato alla strata. La prima gip della Celere ora si era fermata indovi prima ci stava la gip delle guardie del paìsi. Nisciuna delle guardie però si cataminava, stavano assittati che parivano statue. Sintii 'u papà che diciva: «Calma! Calma! Non possono farci nenti! Noi semo disarmati.»
Potivano essiri le unnici passate. Sempri calato, caminai fino ad arrivari all'altizza deIJa prima gip. Avivano 'u telefono a bordo e parlavano, ma non si capiva 'na parola di quello che dicivano. Siccome però non capitava nenti, mi stuffai e mi andai ad ammucciari sutta a una specie di ponticeddro, uno scolo d'acqua, che c’era a quattro passi. Mi stinnicchiai supera l'erba asciutta e comu fu e comu nun fu, mi pigliò una botta di sonno. Nun seppi quantu minni stetti a durmiri, qualichi orata di sicuro, fatto sta ca vinni arrisbigliato da voci arraggiate. Aviva fami e pinsai alla caponatina che forsi mè patre e i so cumpagni si stavano mangianno. Mi susii e tornai a taliare. C'era il sinnaco del nostro paisi che discutiva con un borgisi. Le gip e le camionette ora erano tanticchia arretrate. Ma le guardie erano tutte scinnute 'n terra, avivano l'elmetti calati, e stavano mittendo dintra alle canne dei fucili cose che mi parsero bumme. Possibile che volivano bombardari a 'u papà e all'amici sò? Erano nisciuti pazzi? Taliai verso 'u papà. Erano tanti, mascoli e fimmine, darrè 'u tronco che sbarrava la strata, addritta, fermi, in silenziu, con le bannere tinute alte.
«È inutile discutere» diciva l'omo in borgisi. «Ho ricevuto ordini precisi dal prefetto che a sua volta ha ricevuto ordini precisi per il ripristino della legalità. Il blocco deve essere rimosso, anche con la forza.»
«Ma se mi date ancora una diecina di minuti…» fici il sinnaco e pariva ca stava per mittirisi a chiangiri. «Ci sono donne e bambini!» «Tempo non ce n'è più» arrispunì l'omo in borgisi.
E isò un vrazzo. Sintii una trumma che sonava e strammai. Pirchi sonavano? Doppo, in un vidiri e svidiri, le guardie si mi siro a sparari. In un attimo unni prima c'erano 'u papà e i cumpagni ci fu solo fumu, una nuvola nivuna. E da dintra a quella nuvola accomenzarono a tirari pietrate e pietrate a tutta forza. lo mi scantai ca una pietrata tirata all’urbina mi spaccava la testa e mi calai sutta il punticeddro, chiangenno. Sintii una romorata e spuntò uno ca di nomu faciva Peppi Scibilia che aviva una gamma spit usata da una fucilata. Penso ca manco mi vitti, tanto era spirdato. Santiava che pariva pazzu.
«Prima nni levanu 'u pani e ora nni vonnu livari la vita» arripitiva e trimava tuttu.
Arrivò di cursa uno che si chiamava Pepè Maggio, affannato.
«Nni vonnu ammazzati a tutti, sti gran cumuti. Appuiati a mia, Scibì, ca ti portu allo spitali.»
«Ma quali spitali e spitali!» fici Scibilia.
Si susì e zuppichianno sinni tornò supra la strata che appresso a lui ci andava Peppi Maggio. Sparavano ca ti sparavano. Iu mi fici curaggiu e niscii da sutta il punticeddru sino ad arrivari all'altizza di la strata. E fu allura che m'addunai che avivano nuovamenti sparato a Scibilia e l'avivano pigliatu 'n pettu. Era stinnicchiatu 'n terra e allatu a lui Peppi Maggio si dispirava. Vitti a Paulinu Caldarella che corriva verso le guardie con le mano isate e quelle gli spararono un colpo e lo pigliarono propio in un mano. C'era un fumu ca non faciva vidiri nenti, faciva tussiri e lacrimiari l'occhi Doppo vinni una hotta di ventu e accussì potti vidiri ca supra la strata e torno torno c’erano 'n terra 'na quarantina di pirsone. C'era chi si strascinava, chi chiangiva, chi non faciva nenti e pariva mortu.
Mi scantai che 'n mezzu a quelle pirsune c’era mè patre, ma non arriniscii a capirlo. Le guardie intanto sparavano e l'amici di mè patre tiravano pietrate. Ma si erano sparpagliati e avivano accerchiato le guardie. 'Na poco di guardie sparavano da dintra le camionette.
Tutto 'nzemmula si sintì una voci potenti che supirchiò sparatine e vociate:
«A 'Ngilino Sigona ammazzaro!»
lo l'accanosciva, ad Angilino Sigona. Era il patre dell'amico mè, quello col quale jocavo. Mi vinni pena, a pinsari a Totò Sigona senza patre. Mi misi a chiangiri tanto che non ce la fici chi. Mi calai e mi ammucciai nuovamente sutta il ponticeddro. Ci stetti tempu assà. Non arrinisciva a pinsari a nenti. A picca a picca finero di sparati. Appresso sintii dari ordini, sintii biastemiari, sintii fari vociate e doppo la rumorata delle gip e delle camionette che sinni ripartivano. Appresso ancora sintii le sirene delle ambulanze che vinivano a pigliarisi i feriti. Doppo ci fu solo silenziu. Mi scantava a turnari a la casa, mi ero fatto pirsuaso che appena tradivo vidiva a mè patre supra 'u lettu, mortu. E iu a mè patre morti nun lo vulva vidiri. Appresso una voci mi chiamò, arripitiva ‘u nomu mio.
L'arriccanobbi: era la voci di zì Stefanu, ’u frati di mè matre. Allura niscii e ci andai incontro. Appena ca mi vitti, m’abbrazzò stritto stritto.
«Tò matre sta niscennu pazza, pensa ca sei mortu. Ma indovi te ne sei stato tuttu 'stu tempu? Veni, t'accumpagno io a la casa.»
«E 'u papà?»
«L'arristaro, a tò patri. Se lo portarono a Catania.»
Megliu carzaratu, pinsai, ca firuto o mortu. E mentri passavamu unni prima c’era il tronco d'arbolo vitti 'n terra macchie russe di sangue, cammise strazzate, fazzuletta, scarpe perse, coppole. E appena fora strata, ai pedi d’una fratta d'erbaspina, qualichi cosa sbrillucicò. Taliai megliu e m’addunai che era la burnìa di caponatina, sana. Va a sapiri comu c'era andata a finiti. Allura m'avvicinai, mi calai e me la ripigliai. 'U papà, stanno 'n carzaro, non avrebbe avuto travaglio e perciò non avrebbe potuto portari sordi in casa per accattare il mangiari. Quella burnìa di caponatina ci sarebbe stata commoda assà nelle jornate che vinivano.
N.B. Questo è un racconto liberamente ispirato ai fatti di Avola e quindi alcuni dettagli, ma solo dettagli, sono di mia invenzione. Il materiale storico-documentario del quale mi sono servito è tratto dal libro “I fatti di Avola” di Sebastiano Burgaretta (Libreria Urso editrice, Avola 1998).
Andrea Camilleri |