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I FATTI DI AVOLA
Sebastiano Burgaretta, I fatti di Avola, 2008 (Terza edizione)
8°, pp. 142, € 15,00 EAN 978-88-96071-08-3
Questo volume che ripropongo in nuova edizione fu il primo volume da me pubblicato e segnò nel 1981 la nascita della mia attività editoriale;
il libro è contemporaneamente anche il primo libro pubblicato da Sebastiano
Burgaretta e, sicuramente è il mio best e long-seller, con oltre duemila
copie vendute.
È stato da me riedito nel 1998, dopo tante richieste di lettori,
con un saggio di Giuseppe Astuto e un'intervista-novità all'avv. Fausto
D'Agata (vicesindaco di Avola all'epoca dei fatti). Il 2 dicembre di quel famoso 1968 ad Avola ebbe tragico epilogo uno sciopero di lavoratori dell'agricoltura che si protraeva da oltre dieci giorni per giuste rivendicazioni sindacali.
La polizia sparò e due di quei braccianti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, furono uccisi e altre decine di lavoratori feriti.
Ministro dell'interno dell'epoca era il democristiano Franco Restivo, siciliano.
Tutta l'Italia si sdegnò e un numero infinito di manifestazioni si svolsero ovunque.
A seguito dei Fatti di Avola l'allora ministro del lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, venuto ad Avola il 4 gennaio 1969, qui promise una emanazione di norme a favore dei lavoratori, e così in effetti fece, con la legge 300 del 20 maggio 1970, conosciuta come lo Lo Statuto dei lavoratori.
L'intera storia di quegli eventi è documentata nel libro di Sebastiano Burgaretta dal titolo I fatti di Avola, adesso riproposto dalla Libreria Editrice Urso nella sua terza edizione, per far conoscere ai giovani quella brutta storia e, ricordarla, a chi facilmente dimentica.
Francesco Urso
ABBIAMO DISPONIBILE IL LIBRO IN FORMATO CARTACEO E PUOI RICHIEDERLO
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2 DICEMBRE 1968
2 DICEMBRE 2018 DOMENICA 2 DICEMBRE 2018
IN PIAZZA UMBERTO I
A PARTIRE DALLE 16,00
nello spazio del Cafè dell'Orologio
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... A CINQUANT'ANNI DAI "FATTI DI AVOLA"... COM'ERAVAMO,
COME SIAMO
E COME SAREMO?
PER CONTATTI: Liliana Calabrese Urso e Francesco Urso
SARAI CON NOI IN PIAZZA AD AVOLA?
Parleremo di quel che accade quel 2 dicembre 1968 – minuto per minuto – dalle 6 del mattino alle 15,40 di quel giorno.
L’Anpi di Avola, su proposta della presidente Liliana Calabrese, sta pensando di organizzare per domenica pomeriggio 2 dicembre un evento dedicato ai “Fatti di Avola” del 2 dicembre 1968, che già cinquant’anni fa posero al centro della discussione politica il caporalato, per esempio, nonché la centralità dell’Ufficio di collocamento, quello che oggi vien chiamato “Centro per l’impiego”…
L’esperienza nostra di allora può servire anche oggi alla società italiana?
Salvatore Bonadonna e il cinquantesimo dei "Fatti di Avola" e del '68
L’intervento di Salvatore Bonadonna al dibattito civile in piazza ad Avola sul cinquantesimo dei "Fatti di Avola" e del '68.
Avola rappresentò una data cruciale nella formazione di militante politico – e di dirigente sindacale –, in quel ragazzo, che, all’epoca, era un giovane studente universitario iscritto al primo anno.
Così esordì Salvatore Bonadonna nella testimonianza espressa con le ragioni del cuore e con quelle della ragione… E il suo discorso fece impressione in tutti i presenti!
E volemmo registrare tutte le sue preziose parole, perché capimmo di aver a che fare con un protagonista di primo piano di quell’epoca.
Avola 2 dicembre 2018, Piazza Umberto I, spazio Cafè dell’Orologio, dalle 16 alle 19 coltivammo l’amicizia, l’accoglienza, la memoria, la riflessione, l’analisi dei fatti, il sogno di un progetto.
Come Anpi e come Libreria Editrice Urso volemmo proporre col nostro contributo dal basso la riflessione su una coincidenza importante, il cinquantesimo anniversario dal Sessantotto e dai “Fatti di Avola” del 2 dicembre di quell’anno. Rispetto ad altri eventi svoltisi nella città, pensavamo di dare – così come accade nei nostri eventi – un tocco di semplicità, di non programmato, e, soprattutto, di partecipativo per tutti, pubblico e testimoni di quei fatti di cinquant’anni prima, a persone che erano state escluse dal cerimoniale a cura dei sindacati e del Comune di Avola. E in qualche modo abbiamo colmato un vuoto nell’economia dell’intelligenza.
Orazio Agosta e il cinquantesimo dei "Fatti di Avola" del '68 (2-12-2018)
L’intervento di Orazio Agosta al dibattito civile in piazza ad Avola sul cinquantesimo dei "Fatti di Avola" e del '68.
All’inizio del video Ciccio Urso parlò dei vari video su quei “Fatti di Avola” da lui pubblicati on line, e fece opportuno riferimento a due protagonisti ancora vivi, sebbene in condizione fisica non ottimale per età avanzata, come Sebastiano Di Maria, o per incidente, come Paolo Di Mauro.
E poi cominciò a parlare Orazio Agosta, ex leader provinciale della Lega Federbraccianti siracusana. Nel corso del suo intervento si riferì più volte a Salvatore Bonadonna, che lo aveva preceduto negli interventi… E Agosta parlò di Collocamento, di commissioni paritetiche, di condizione avventizia dei braccianti, della relazione telefonica col questore dal telefono a gettoni del bar dell’ex Gulf di Avola, Agosta parlò dell’arretramento dell’agricoltura, di strategia della tensione e di quant’altro, e raccomandò che Avola non può essere utilizzata solamente come una commemorazione formale… E concluse il suo intervenendo, affermando: “… Avola è una pagina della storia nazionale, non da fare celebrare a Musumeci, o da fare a celebrare non si capisce a chi, senza radici, senza cultura e senza retroterra, Avola è patrimonio della classe operaia, dei braccianti, del movimento democratico, dell’Anpi, dei giovani, che credono in un futuro migliore, che lo vogliono costruire con la cultura, la preparazione e l’impegno”.
Eravamo ad Avola, domenica 2 dicembre 2018, in Piazza Umberto I, nello spazio del Cafè dell’Orologio, dove dalle 16 alle 19 coltivammo l’amicizia, l’accoglienza, la memoria, la riflessione, l’analisi dei fatti, il sogno di un progetto.
Franco Monello studente all’epoca dei “Fatti di Avola” del 2-12-1968
Ecco l’intervento di Franco Monello in occasione del Cinquantesimo dei "Fatti di Avola" del ’68, proposto dall’ANPI e dalla Libreria Editrice Urso nel pomeriggio di domenica 2 dicembre 2018 in Piazza Umberto I, nello spazio del Cafè dell’Orologio.
Nel video viene descritta per la Rai da un giovanissimo inviato di nome Emilio Fede l’atmosfera di quei giorni nella cittadina avolese. Volti scavati prima dalla fatica e, poi, dal dolore vengono inquadrati dalla telecamera. Coppole, abiti scuri, sigarette in bocca,… e tanto sbigottimento per l’accaduto!
L’epilogo tragico dopo undici giorni di sciopero per ottenere circa trecento lire in più al giorno, per affermare la centralità dell’Ufficio di Collocamento nel mondo del lavoro e contro le forme di caporalato; sul terreno due morti e tanti feriti per una carica della Polizia a Chiusa di Carlo, a Nord-Est della cittadina del Siracusano.
Il 2 dicembre 1968 è questa la scena: da una parte si risponde con sassi ai fumogeni e alla carica della Polizia, dall’altra con le armi. Vi ricorda altre scene simili nel mondo?
Due braccianti, Giuseppe Scibilia, 47 anni, e Angelo Sigona, 25 anni, vengono uccisi, 48 braccianti risulteranno feriti, di cui 5 gravi: Salvatore Agostino, detto Sebastiano, Giuseppe Buscemi, Giorgio Garofalo, Paolo Caldarella, Antonino Gianò. Nessuno ha pagato per l'eccidio di Avola poiché l'inchiesta giudiziaria fu archiviata nel novembre del 1970.
... QUANDO SI ERA BRACCIANTI
E CON IL SINDACATO SI IMPARAVA A PARLARE E AD ESPRIMERSI
SENZA AVERE FREQUENTATO L'UNIVERSITÀ
Un grande servizio televisivo di un eccezionale inviato della Rai, Sergio Zavoli.
Si occupò di Avola e chiamò “giardini” quei poderi dove si consumava la vecchiezza di una Sicilia indomabile e su questi temi si impegnò nel suo libro “Viaggio intorno all’uomo” nel capitolo che titolò proprio “I giardini di Avola” (Sei, Torino 1969)
Nel video, come in altri che siamo riusciti a ritrovare, si ha l’opportunità di riconoscere i quadri sindacali locali, come Peppino Vaccarella (segretario della CGIL), Gino Caruso (segretario della CISL), Sebastiano Di Maria (della Federbraccianti), Turi Emmolo (del direttivo della CGIL), persone tutte impegnate politicamente come Peppe Guastella, o nel sociale, come Nuzzo Germano, e tanti altri paesani e curiosi.
Eccellente l’argomentazione sulle motivazioni della lotta in perfetta lingua italiana di Sebastiano Di Maria… Tant’è che se ne accorge anche Sergio Zavoli, che a più riprese torna a intervistarlo. Sebastiano Di Maria alla data di novembre 2018 è ancora vivo, ha ottantasei anni, anche se in non buone condizioni per un grave ictus di una quindicina di anni prima. Gli altri quadri sindacali, oggi, dopo cinquant’anni, sono tutti scomparsi, quelli rappresentavano anche una identità locale forte, e riconoscibile, in tutto il Siracusano, prima che questa positività venisse aggredita dalla fuga nel privato e negli interessi opportunistici consumati con la protezione del sistema di potere prima democristiano, e poi degli altri colori.
SERGIO ZAVOLI
Debutta a soli vent'anni nel 1943 sul periodico dei Gruppi Universitari Fascisti riminesi “Testa di Ponte”, che venne chiuso lo stesso anno in seguito alla caduta del fascismo. Dal 1947 al 1962 esercitò l'attività di giornalista radiofonico all'interno della RAI, per poi passare alla televisione, dove ideò un fortunatissimo programma, "Processo alla tappa", trasmissione sportiva incentrata sul Giro d'Italia. Zavoli condusse e fu autore di altri programmi di successo come "Nascita di una dittatura" (1972).
Vicino al Partito Socialista Italiano, dal 1980 al 1986 fu presidente della RAI e nel 1981 pubblicò il suo primo libro, "Socialista di Dio", che vinse il Premio Bancarella. Una volta dimessosi dall'incarico di presidente continuò sia la sua carriera televisiva (presentando programmi come “Viaggio intorno all’uomo”, “La notte della Repubblica”, “Viaggio nel Sud”) sia quella letteraria e nella veste di autore vinse il Premio Basilicata con “Romanza” (1987). Dopo il reportage Nostra padrona televisione (1994) entrò in politica con i Democratici di Sinistra.
È stato eletto al Senato nelle liste dei Democratici di Sinistra nel 2001, nelle liste dell'Ulivo nel 2006 e nel Partito Democratico nel 2008 e nel 2013. (da Wikipedia)
LO STATUTO DEI LAVORATORI DA MORO, NENNI, SINO A BRODOLINI
Lo Statuto dei lavoratori era un progetto che aveva voluto nel suo programma di governo a dicembre del 1963 già Aldo Moro, con Pietro Nenni vice primo ministro.
Accade che la polizia spari ad Avola e che qui arrivi il ministro del lavoro (non, Restivo, il ministro degli interni!).
E a quel punto Giacomo Brodolini dichiara che avrebbe voluto che quella sciagura non si fosse verificata… e che se si trova ad Avola è per impedire che altre sciagure come quella possano accadere ancora.
Anche in questo video, come negli altri che abbiamo già passato, si individuano anche qui persone del popolo, il sindaco Giuseppe Denaro, il vicesindaco Faust D’Agata, Giovanni Ferrara, e tanta gente che partecipava ai vari momenti.
AVOLA – DICEMBRE 1968, DI TURI MAIOLINO
La polizia il 2 dicembre 1968 spara ad Avola, caricando un posto di blocco di uno sciopero di braccianti agricoli.
Tutto il movimento operaio nazionale e la comunità avolese deve dire grazie a Turi Maiolino per averci regalato questo filmato direttamente dai luoghi dei “Fatti di Avola” del 2 dicembre 1968.
Il video, originariamente senza audio, è stato da noi integrato con canti relativi a quei fatti e alla storia di Avola, eseguiti con chitarra da Liliana Calabrese.
Il video è per nostra fortuna in tutta la sua originalità del dilettantismo di chi riprende, ma, perché privo di elaborazioni tecniche, fedele alla realtà che riprende, così come si presentava poco dopo l’eccidio; si vede di tutto in contrada Chiusa di Carlo, ed anche altrove. A distanza di cinquant'anni vediamo volti di un altro tempo, nostri parenti e conoscenti, nel bianco-nero di quegli anni e l’ambiente dove si consumò l’eccidio, nonché il funerale, il dibattito civile e appassionato in piazza, il comizio, anche, dei rappresentanti nazionali dei movimenti giovanili, ecc.
Solamente per queste immagini, che non troverete altrove, si può avere idea di quel che accadde quel 2 dicembre del 1968 ad Avola.
La caponata è un piatto tipico siciliano… Pochissimi sanno che Andrea Camilleri ha scritto un eccellente racconto intitolato appunto “La caponatina” ispirato, come lui stesso scrive in coda al racconto, dalla lettura de “I fatti di Avola” di Sebastiano Burgaretta pubblicato dalla Libreria Editrice Urso. Motivo di orgoglio per noi che in questa città di Avola, ed anche altrove, pur con tante difficoltà, siamo presenti sempre!
Abbiamo voluto rilanciarlo, per farne dono ai lettori. Fu pubblicato a giugno del 2005 a cura di Paola Staccioli in una raccolta di racconti di 15 scrittori italiani dal titolo “Piazza bella piazza”.
Il racconto di Camilleri è straordinario per l’immedesimazione dello scrittore siciliano con il crescendo di tensione in quel 2 dicembre di cinquant’anni fa. Nella lingua siciliana che gli è più vicina, l’agrigentino, Camilleri vede quei fatti dagli occhi di un bambino, Pino, e mette dentro la narrazione tutti gli argomenti che caratterizzarono quel giorno (dalla sensibilità dei braccianti nell’aprire il blocco in situazioni di emergenza, alla loro amicizia con le guardie della città, dalla presenza delle donne alla partecipazione del sindaco Giuseppe Denaro, dallo sparo dei fumogeni, allo sparo mirato all’uomo, in una violenza inconcepibile nelle lotte sindacali e per il lavoro).
AVOLA, 2 DICEMBRE 1968 LA CAPONATINA
La matina, appena che raprii l'occhi, talìai il calinnario che il varberi aviva arrigalato a mè patre e che signava il dù di dicembiro 1968. Però m'addunai macari, dalla finestra aperta, che la jornata era bona ma che avivo durmuto troppo a longo. Il letto granni indovi si corcavano 'u papà e a mamà era sfatto. L'altro letto nico che ci dormiva mè soro Annetta che aviva quattro anni meno di mia che ne avivo setti, era macari vacante. Come mai 'a mamà non mi aviva arrisbigliato a tempo per la scola? Col maestro Cosentino, se arrivavi doppo che era sonata la secunna campanella, non c’era verso: non ti faciva trasire in classe. Appena nisciuto da sutta la coperta il friddo m'agghiazzò di colpo, non ce la feci e tornai nuovamente dintra a lu lettu. Ristai tanticchia a pinsari se era megliu che mi lavavo tutto o se era meglio che mi davo solamenti una passata d'acqua sulla facci. Mi susii di cursa, mi detti una passata, mi vistii e andai nell'altra camera indovi c'erano il cufularo e il tavolino di mangiari. II foci del cufularo si stava astutando, mi quadiai tanticchia di latte, ci misi un cucchiarino di zuccaro ma doppo cinni misi un altro approfìttanno che la mamà era nisciuta e dintra la tazza ci fichi una pappanozza schiaccianno il pane col cucchiaro. Mangiai di prescia e stavo fìnenno quanno 'a mamà tornò.
«Oggi non fanno scola» mi disse.
«Pirchì»
«Pirchì c'è sciopero. In paisi tutti i negozi sono chiusi.»
Sapivo che era uno sciopero, avivo sintuto 'u papà che ne parlava, tri jorni avanti, cu 'na para d'amici.
«Allura pozzu andare a jocare con Totò!»
Totò Sigona, amico e compagno di banco, abitava a solo quattro case cchiù avanti.
«No. Mi servi qua pirchì devi fare una cosa.»
«E Annetta dov'è?»
«La portai in casa di tò zia Teresa. Io oggi non ci pozzo abbadare.»
La mamà pigliò la bisazza che 'u papà si portava a tracolla quanno che andava a travagliare e dintra c’infilò una buatta di sarde salate, una bruna di caponatina che aviva priparata la sira avanti, una forma di tumazzo, tri grosse scanate di pane, una bottiglia di vino, un pacchetto di “Nazionali” e una scatola di surfanelli.
«Ce la fai a portarla?»
«Certo che ce la faccio» replicai, offiso. «E a chi la devo portare?»
«A ‘u papà che se lo sparte con i compagni sò»
«E indovi è 'u papà?»
«Tu la sai indovi è quella contrata che si chiama Chiusa di CarIo sulla strata nazionale?»
«Certo. Doppo la pompa di benzina. Ci metto manco un'orata ad arrivaricci. E che ci fa?»
«Stanno lì e non fanno passari a nisciuno, machine, muturini, carretta, nenti di nenti. Macari stanotte sinni stette alla Chiusa.
Ora mettiti la mantillina, 'u birrittu di lana e la sciarpa ca fa friddo assà. Dicci a tò patre ca verso l'una ci porto, si m'arrinesci, tanticchia di pasta col suco.»
Maria! Quantu mi sintii cuntentu! Ero accussì cuntento che manco m'addunai che la bisazza pisava. Appena fonl paisi, mi sintii chiamari.
«Pino! Pinuzzo!»
Di darrè una casa era spuntato uno che stava supra a una bicicletta.
Quanno s'avvicinò l'arricconobbi. Era 'u zÙ Tanu Jacono, che tutti in paisi l'acchiamavano "testarutta" pirchì, accussì m'avivano cuntato, cinco anni avanti c'era stato un altro sciopero e le guardie avivano assicutato i braccianti con le gip tirreno tirreno a malgrado che chioviva forti e la terra era addivintata tutta fango e, con una manganellata, avivano rumputo la testa a zù Tanu.
«Indovi vai?»
«Staiu purtannu 'u mangiari a mè patre alla Chiusa.»
«Dammi sta bisazza ca ti pisa. lu macari staiu iennu alla Chiusa. Ci lo portu iu lu mangiari a tò patre.»
Gli pruii la bisazza, lui la mise attaccata alla canna della bicicletta.
«E tu tornatinni a la casa. Nun è cosa di picciliddrL»
«Iu nun sugnu picciliddru!»
«Va beni, ma tornatinni a la casa lu stissu.»
E accomenzò a pidalari. lu era arraggiatu da quello che m'aviva ditto 'u zÙ Tanu. Comu fari per addimostrargli che non ero cchiù un picciliddro? Mi vinni 'n testa di arrivari alla Chiusa prima di lui a malgrado che lui caminava in bicicletta e io a pedi. Non era 'mprisa difficile: 'u zù Tanu era obbligato a seguitari la strata, io no. Mi ghittai campagna campagna: se c'era una trazzera, bene; masannò caminavo supra 'u tirreno coltivato e satavo i muretti vasci di petram. Doppo una mezzorata che curriva e non sintiva cchiù friddo anzi ero sudatizzo, vitti a distanza la pompa di benzina che c'era sulla stratta a un centinaro di metri dalla Chiusa. Non era solo una pompa, era macari un bar che tinniva sempre fora, state o 'nverno, du tavolini e quattro seggie. Quanno che ci arrivai, i du tavolini erano stati accostati e le seggie erano addivintate otto.Tutte occupate. Altre cinco o sei pirsone erano addritta torno torno. Mi fermai non per la curiosità di sintiri quello che dicivano, ma per ripigliari tanticchia di sciato. Avivo curruto megliu di una lepre.
«Bisogna assolutamente convincere i compagni a levare il blocco!» disse un omo cinquantino, vistuto bono.
«Vacci tu, onorevole, a convincerli»gli arrispunnì uno che avivo visto in paisi e che 'u papà m'aviva spiegato che faciva il segretario della cammara del lavoro. «Ci sono state troppe chiacchere, troppe promesse non mantenute, troppi contratti non rispettati. I compagni ora vogliono i fatti. Perché sono pagati meno di altri facendo lo stesso lavoro?»
«Devo venire a spiegare a te cosa sono le gabbie salariali?» spiò l'onorevole.
«A me, no. E manco a loro. Ma perché vuoi che i compagni non vadano avanti nel blocco?»
«Perché ho chiamato Catania al telefono. Mi hanno detto che stanno arrivando qua reparti della Celere. Sono preoccupato, può finire a schifìo.»
Ripigliai a caminare, ma sulla strata vitti sulamenti una bitunerà ferma, il guidatore non c'era, gli sportelli erano tutti e dù rapruti, nel posto allato al guidatore ci stava assittato un picciliddro che mi taliò scantato. Caminai ancora e tanticchia cchiù avanti vitti una quantitò di pirsone, chiossà di un centinaro, 'na poco sulla strata,'na poco assittata supra un muretto, 'na poco sutta all'arboli. C'erano banneri russi e un grosso tronco d'arbolo miso in modo che nisciuna machina potiva passari sulla stratta. E infatti davanti al tronco c'era un'automobile che aviva torno torno cinco o sei omini. Uno era mè patre che parlava col guidatore dell'automobile. Allato al guidatore ci stava una monaca, un'aura monaca era assittata darrè e tiniva abbrazzata una fìmmina picciotta ma giarna giarna che pariva morta.
«Per favore» stava dicenno il guidatore «fateci passare. Dobbiamo portare d'urgenza questa donna all'ospedale.»
«Il blocco è blocco per tutti» disse uno che accanoscevo e che si chiamava Occhipinti. «Mi dispiace, ma dovete tornare indietro.»
«Se non ci fate passare, questa donna morirà» fece la monaca assittata davanti, talianno a Occhipinti.
«Spiamolo ai compagni» disse 'u papà.
Occhipinti si mise le mano torno torno alla vucca, domandò attinzioni, spiegò la situazione.
«Lassatele passare» fu la risposta quasi a coro.
Quattro omini spostarono il tronco, la machina passò e il tronco vinni miso nuovamente come a prima.
«Ma come?» fece uno che era vistuto con una tuta. «A quelle le lassate passari e a mia no?»
Allura capii che era quello che guidava la bitunera.
«Ti po' mettiri 'u cori in paci» disse 'u papà «tu non passi.» L’uomo con la tuta s'allontanò santianno.
«A mano vacanti arrivi?» mi spiò 'u papà appena mi vitti.
«No, 'a bisazza cu 'u mangiari la vosi portare 'u zù Tanu Jacono che sta vinenno in bicicletta.»
«E come mai nun è ancora arrivato?»
«Pirchì iu curro chiossà di lui che è in bicicletta.»
«Tò matre ce la mise la caponatina?»
«Sì.»
Tutto 'nzemmula sintimmo una vuci che chiamava a 'u papà.
Era 'u zù Tanu Jacono che era allura allura arrivato. Mi taliò imparpagliato, di certo si stava spianno come aviva fattu iu ad arrivari prima, ma non disse nenti, pruì la bisazza a 'u papà. Mè patre pigliò la bisazza, tirò fuori la burnìa con la caponatina e una scanata di pane e la bisazza se la mise incoddro.
Doppo pigliò a caminare verso una gip della polizia ferma supera la strata a una vintina di passi e dintra c’erano quattro guardie che facivano serviziu in paìsi e accanoscevano a tutti. Iu ci andai appresso. Appena dalla gip vittiro a 'u papà che s'avvicinava, scinnì una guardia e nni vinni incontri..
«Che c'è, Pasquà?» spiò la guardia.
«T'arricordi, Nicò, ca stanotti, quanno vinistivo a mangiari con noi dato che i vostri superiori s'erano scordati di voi, ti parlai della caponatina ca fa mè mogliere? Eccola qua, mangiatilla cu i tò cumpagni, vi portai macari una scanata.»
Ma la guardia non si pigliò la burnìa di caponatina che 'u papà gli pmiva. Era serio serio.
«Grazie, Pasquà. Ma abbiamo avuto l'ordine di tornarcene subito in paìsi.»
‘U papà parse cuntentu.
«Allura viene a dire che non hanno intenzione di farvi intervenire?»
La guardia Nicola fece 'nzinga di no con la testa.
«Ci è arrivato l'ordine di tornare narrè da un’altra stratta. Ci sostituiscono con quelli della Celere che a momenti arrivano da Catania. Se vuoi 'u mè consiglio di frati, macari voi dovreste tornare in paisi e levare stu blocco. Quelli non sgherzano. E voi lo sapete. Bona fortuna, Pasquà.» .
Votò le spalli, acchianò sulla gip, la gip fici dietrofront e s'allontanò. ‘U papà arristò con la burnìa in mano a vidiri la gip scompariri. E doppo, mentre tornavamo narrè, mi taliò e mi disse: «Vattìnni subito a la casa. Subito, di cursa!»
«Va beni» dissi.
Lo secutai ancora per qualichi passo e mentre lui si mittiva a parlari fìtto fitto cu tri o quattro cumpagni sò, io vitti arrivare 'a zà Ciccina, 'a zà Cruci, ’a zà Cuncittina e n'autra poco di fimmine ca non accanusciva. Purtavano cose di mangiari. Allura 'u papà si mise a fari voci.
«Non potete stare qua! Ora viene la Celere! C'è piricolo!»
Ma quelle manco lo stavano a sintiri. E po' la vitti, la Celere, che arrivava da Catania. Una fila che nun finiva mai di gip e di camionette. Allura mi misi a curriri e mi ghittai fora strata, a la campagna. Quanno stimai che 'u papà nun mi potiva vidiri, tornai narrè tinennomi calato darrè una filara d'erbaspina che stava allato alla strata. La prima gip della Celere ora si era fermata indovi prima ci stava la gip delle guardie del paìsi. Nisciuna delle guardie però si cataminava, stavano assittati che parivano statue. Sintii 'u papà che diciva: «Calma! Calma! Non possono farci nenti! Noi semo disarmati.»
Potivano essiri le unnici passate. Sempri calato, caminai fino ad arrivari all'altizza deIJa prima gip. Avivano 'u telefono a bordo e parlavano, ma non si capiva 'na parola di quello che dicivano. Siccome però non capitava nenti, mi stuffai e mi andai ad ammucciari sutta a una specie di ponticeddro, uno scolo d'acqua, che c’era a quattro passi. Mi stinnicchiai supera l'erba asciutta e comu fu e comu nun fu, mi pigliò una botta di sonno. Nun seppi quantu minni stetti a durmiri, qualichi orata di sicuro, fatto sta ca vinni arrisbigliato da voci arraggiate. Aviva fami e pinsai alla caponatina che forsi mè patre e i so cumpagni si stavano mangianno. Mi susii e tornai a taliare. C'era il sinnaco del nostro paisi che discutiva con un borgisi. Le gip e le camionette ora erano tanticchia arretrate. Ma le guardie erano tutte scinnute 'n terra, avivano l'elmetti calati, e stavano mittendo dintra alle canne dei fucili cose che mi parsero bumme. Possibile che volivano bombardari a 'u papà e all'amici sò? Erano nisciuti pazzi? Taliai verso 'u papà. Erano tanti, mascoli e fimmine, darrè 'u tronco che sbarrava la strata, addritta, fermi, in silenziu, con le bannere tinute alte.
«È inutile discutere» diciva l'omo in borgisi. «Ho ricevuto ordini precisi dal prefetto che a sua volta ha ricevuto ordini precisi per il ripristino della legalità. Il blocco deve essere rimosso, anche con la forza.»
«Ma se mi date ancora una diecina di minuti…» fici il sinnaco e pariva ca stava per mittirisi a chiangiri. «Ci sono donne e bambini!» «Tempo non ce n'è più» arrispunì l'omo in borgisi.
E isò un vrazzo. Sintii una trumma che sonava e strammai. Pirchi sonavano? Doppo, in un vidiri e svidiri, le guardie si mi siro a sparari. In un attimo unni prima c'erano 'u papà e i cumpagni ci fu solo fumu, una nuvola nivuna. E da dintra a quella nuvola accomenzarono a tirari pietrate e pietrate a tutta forza. lo mi scantai ca una pietrata tirata all’urbina mi spaccava la testa e mi calai sutta il punticeddro, chiangenno. Sintii una romorata e spuntò uno ca di nomu faciva Peppi Scibilia che aviva una gamma spit usata da una fucilata. Penso ca manco mi vitti, tanto era spirdato. Santiava che pariva pazzu.
«Prima nni levanu 'u pani e ora nni vonnu livari la vita» arripitiva e trimava tuttu.
Arrivò di cursa uno che si chiamava Pepè Maggio, affannato.
«Nni vonnu ammazzati a tutti, sti gran cumuti. Appuiati a mia, Scibì, ca ti portu allo spitali.»
«Ma quali spitali e spitali!» fici Scibilia.
Si susì e zuppichianno sinni tornò supra la strata che appresso a lui ci andava Peppi Maggio. Sparavano ca ti sparavano. Iu mi fici curaggiu e niscii da sutta il punticeddru sino ad arrivari all'altizza di la strata. E fu allura che m'addunai che avivano nuovamenti sparato a Scibilia e l'avivano pigliatu 'n pettu. Era stinnicchiatu 'n terra e allatu a lui Peppi Maggio si dispirava. Vitti a Paulinu Caldarella che corriva verso le guardie con le mano isate e quelle gli spararono un colpo e lo pigliarono propio in un mano. C'era un fumu ca non faciva vidiri nenti, faciva tussiri e lacrimiari l'occhi Doppo vinni una hotta di ventu e accussì potti vidiri ca supra la strata e torno torno c’erano 'n terra 'na quarantina di pirsone. C'era chi si strascinava, chi chiangiva, chi non faciva nenti e pariva mortu.
Mi scantai che 'n mezzu a quelle pirsune c’era mè patre, ma non arriniscii a capirlo. Le guardie intanto sparavano e l'amici di mè patre tiravano pietrate. Ma si erano sparpagliati e avivano accerchiato le guardie. 'Na poco di guardie sparavano da dintra le camionette.
Tutto 'nzemmula si sintì una voci potenti che supirchiò sparatine e vociate:
«A 'Ngilino Sigona ammazzaro!»
lo l'accanosciva, ad Angilino Sigona. Era il patre dell'amico mè, quello col quale jocavo. Mi vinni pena, a pinsari a Totò Sigona senza patre. Mi misi a chiangiri tanto che non ce la fici chi. Mi calai e mi ammucciai nuovamente sutta il ponticeddro. Ci stetti tempu assà. Non arrinisciva a pinsari a nenti. A picca a picca finero di sparati. Appresso sintii dari ordini, sintii biastemiari, sintii fari vociate e doppo la rumorata delle gip e delle camionette che sinni ripartivano. Appresso ancora sintii le sirene delle ambulanze che vinivano a pigliarisi i feriti. Doppo ci fu solo silenziu. Mi scantava a turnari a la casa, mi ero fatto pirsuaso che appena tradivo vidiva a mè patre supra 'u lettu, mortu. E iu a mè patre morti nun lo vulva vidiri. Appresso una voci mi chiamò, arripitiva ‘u nomu mio.
L'arriccanobbi: era la voci di zì Stefanu, ’u frati di mè matre. Allura niscii e ci andai incontro. Appena ca mi vitti, m’abbrazzò stritto stritto.
«Tò matre sta niscennu pazza, pensa ca sei mortu. Ma indovi te ne sei stato tuttu 'stu tempu? Veni, t'accumpagno io a la casa.»
«E 'u papà?»
«L'arristaro, a tò patri. Se lo portarono a Catania.»
Megliu carzaratu, pinsai, ca firuto o mortu. E mentri passavamu unni prima c’era il tronco d'arbolo vitti 'n terra macchie russe di sangue, cammise strazzate, fazzuletta, scarpe perse, coppole. E appena fora strata, ai pedi d’una fratta d'erbaspina, qualichi cosa sbrillucicò. Taliai megliu e m’addunai che era la burnìa di caponatina, sana. Va a sapiri comu c'era andata a finiti. Allura m'avvicinai, mi calai e me la ripigliai. 'U papà, stanno 'n carzaro, non avrebbe avuto travaglio e perciò non avrebbe potuto portari sordi in casa per accattare il mangiari. Quella burnìa di caponatina ci sarebbe stata commoda assà nelle jornate che vinivano.
N.B. Questo è un racconto liberamente ispirato ai fatti di Avola e quindi alcuni dettagli, ma solo dettagli, sono di mia invenzione. Il materiale storico-documentario del quale mi sono servito è tratto dal libro “I fatti di Avola” di Sebastiano Burgaretta (Libreria Urso editrice, Avola 1998).
Andrea Camilleri
QUESTO IL TESTO DELLA TESTIMONIANZA E DEL CONTRIBUTO DI SALVATORE BONADONNA:
RIFLESSIONI E TESTIMONIANZA DI SALVATORE BONADONNA
SUI FATTI DI AVOLA DEL 2 DICEMBRE 1968
A cura di Franco Monello
OMISSIS...
Anche nel settore agricolo le lotte sindacali si fanno più decise e qualificate. Rivendicare salario è necessario ma non è sufficiente; si reclama la copertura previdenziale, il pagamento dei contributi sociali, la fine del lavoro nero organizzato dai “caporali” che arruolano in piazza per conto degli agrari e fissano i salari a seconda della quantità e dell’urgenza del lavoro da compiere, specie nei periodi di raccolta.
“Facciamo come in fabbrica” era diventato uno slogan diffuso nelle piazze dove avveniva il reclutamento.
Si vuole che sia l’Ufficio di Collocamento ad avviare i braccianti sulla base della “chiamata numerica” e non la selezione individuale che i caporali operavano sui braccianti e sulle braccianti in ragione della loro giovinezza, della vigoria, della disponibilità a sottostare alle condizioni del padrone se non dello stesso caporale.
In questo quadro in tutto il Mezzogiorno si aprono vertenze provinciali e di zona per rivendicare, oltre al salario e all’orario di lavoro, anche la costituzione di Commissioni di Controllo sul Collocamento in modo che fossero direttamente i braccianti a garantirsi contro la evasione contributiva e contro le pratiche discriminatorie di cui troppo spesso erano gli stessi Collocatori Comunali gli autori.
Il padronato agrario aveva i mezzi per blandire, anche attraverso la cooptazione nei circoli che contavano della città, le frustrazioni di tali dirigenti pubblici.
La vertenza per l’adeguamento del salario giornaliero per la raccolta degli ortaggi nella piana di Avola, in provincia i Siracusa, ha queste motivazioni che coniugano il bisogno economico e la rivendicazione di dignità, la domanda di parificazione ai trattamenti riconosciuti nelle zone limitrofe e quella di potere mandare i propri rappresentanti a controllare il collocamento. Questo colpiva al cuore il potere padronale e l’intermediazione dei caporali, metteva in crisi l’ordine della gerarchia sociale che aveva dominato per secoli e che, purtroppo, tornerà a dominare e, anzi, ad estendersi e perfezionarsi, con la restaurazione padronale prodottasi e partire dagli anni ’80, fino a giungere alle forme di neoschiavismo che caratterizza, oggi, in particolare il lavoro degli immigrati nelle campagne.
Avola: testimonianza su di una lotta e una strage del ’68.
a Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona, braccianti
Questa testimonianza riprende uno scritto pubblicato da Liberazione nel quarantesimo anniversario della strage di Avola; non saprei scriverlo diversamente!
Quella mattina del 2 Dicembre il freddo era pungente. Più delle altre quindici mattinate precedenti a Chiusa di Carlo, la località meglio intesa dagli avolesi come “ Sant’Antuninu” dall’edicola al santo dedicata e posta al bivio per la marina di Avola. La sera prima, dopo l’assemblea, ero tornato a casa, a Siracusa, perché era Domenica e perché l’indomani sarebbero venuti i trasportatori a caricare i pochi mobili e i libri per il mio trasferimento a Porto Marghera, deciso qualche mese prima, perché Vittorio Foa me lo aveva proposto e mi aveva convinto. Era l’ultima vertenza che avrei seguito a Siracusa e con il gruppo dirigente dei braccianti, e di Avola in particolare, avevo un rapporto molto forte. Avevo partecipato alla elaborazione della piattaforma e allo sviluppo quotidiano della vertenza. Non potevo mancare il giorno dello sciopero generale.
Arrivai che ancora era buio. Peppe Vaccarella, il segretario della Camera del Lavoro, una vita da bracciante, era già li con la sua coppola calcata sulla pelata. Andiamo, come al solito, a prendere il caffè nel bar del riquadro della Piazza riservato ai braccianti. Si, perché in un altro riquadro ci stanno i commercianti, nell’altro i contadini coltivatori diretti, nell’altro ancora gli agrari e gli altri proprietari e i professionisti, con i loro circoli “dei civili” e i loro bar. Peppe, uomo calmo, coraggioso e deciso, è inquieto: l’incontro sindacale di ieri, strappato al Prefetto qualche giorno prima, si era risolto in una beffa degli agrari che avevano mandato un funzionario dell’Associazione per ribadire che non c’era nulla da trattare; poi l’intervento della polizia persino nella giornata di Domenica, con l’inseguimento dei braccianti nella piazza e nelle strade, ha esasperato gli animi. La tensione la sente direttamente con il suo carattere di bracciante avolese e l’ha raccolta nei capannelli in piazza, dopo l’assemblea che ha proclamato lo sciopero generale. Infatti, l’assemblea della sera aveva espresso l’orgoglio per avere respinto, nella mattinata, l’attacco dei celerini e aveva segnalato la determinazione a intensificare la lotta per chiudere la vertenza. I braccianti ci avevano detto delle pressioni e dei ricatti dei “caporali” mandati dagli agrari anche con promesse di premi in danaro per chi avesse rotto il blocco e l’unità. Si rivolgevano con blandizie ai più giovani e con ricatti ai più anziani padri di famiglia.
Ormai è l’alba dello sciopero generale.
Da quindici giorni lo sciopero va avanti ad oltranza dopo settimane di lotta “articolata”, e i tentativi di aprire la trattativa sono stati vani. Il fronte agrario siracusano è determinato e si sente sostenuto oltre che dalla Confagricoltura nazionale diretta dal conte Gaetani, anche dal Prefetto, notoriamente legato agli agrari, dal Ministro dell’Interno Franco Restivo, siciliano e uomo degli agrari.
In effetti, la vertenza dei braccianti di Avola è decisiva per i contenuti di potere che intende perseguire; una vertenza “pilota”. È stata preparata con mesi di studio dalla Federbraccianti per analizzare la trasformazione dell’azienda capitalista moderna che non era più solo quella dei proprietari terrieri, magari i vecchi baroni, ma quella di nuovi imprenditori che prendevano in affitto le terre dei vecchi agrari assenteisti. E vogliono manodopera flessibile e a basso costo anche se pronti a dare il superminimo se debbono accelerare la raccolta. Hanno a che fare con veri e propri operai agricoli e vogliono mano libera.
La piattaforma rivendicativa, preparata e discussa in decine di assemblee in tutte le leghe bracciantili della zona Sud, da Siracusa a Noto e Pachino, è impegnativa e risente del clima delle lotte studentesche ed operaie che in quel ’68 avevano segnato l’Europa e l’America. I giovani politicizzati, e non sono pochi, portano anche nelle famiglie dei braccianti l’eco del Maggio francese: nei Licei ci sono le prime assemblee e le occupazioni e dall’Università di Catania giungono i volantini che invitano all’unità degli studenti e degli operai. Peraltro, nel Luglio, gli operai della SINCAT Montedison di Priolo avevano scioperato, per la prima volta dopo una pesante sconfitta subita nel ’63, con gli stessi obiettivi conquistati al Petrolchimico di Marghera: 10.000 lire di aumento uguale per tutti sul premio di produzione. Si era rotto il muro della paura e della subordinazione.
E i braccianti di Avola erano sensibili a questi segnali. Per di più, si sentivano discriminati da un vecchio accordo sindacale che divideva la Provincia in due zone. Nella zona Nord, quella dell’agrumeto, attorno a Lentini, classificata “A”, un salario giornaliero di 3.480 lire per sette ore e mezza di lavoro; nella zona Sud, quella dell’ortofrutta, attorno ad Avola, classificata “B”, il salario è di 3.110 lire per otto ore di lavoro.
Si rivendicava, dunque, il superamento di tale differenza e un aumento della paga del 10%, circa 350 lire giornaliere. Del resto, CGIL, CISL e UIL chiedevano di superare le “gabbie salariali” tra le zone del paese e rivendicavano la parità retributiva tra uomini e donne: a uguale lavoro uguale salario!
Ma la rivendicazione più di ogni altra sentita dai braccianti come conquista di dignità e di libertà era eliminare il caporalato, era la istituzione della Commissione Sindacale per il Controllo del Collocamento della manodopera in modo da rompere il ricatto sul mercato del lavoro di piazza gestito dal “caporale”. Dalla gestione del collocamento poteva derivare, infatti, per i braccianti, la chiamata secondo un ordine di graduatoria senza discriminazioni e, cosa importantissima, la registrazione delle giornate di lavoro ai fini previdenziali e della indennità di disoccupazione e, allora, dell’assistenza sanitaria.
È evidente, dunque, il motivo della resistenza oltranzista degli agrari che vedevano messo in discussione il proprio potere. E i collocatori, per parte loro, erano molto sensibili alle pressioni e alle generosità degli agrari interessati alla registrazione minima indispensabile delle giornate di lavoro in quanto a questa era legato il pagamento dei Contributi Agricoli Unificati.
Per questo lo scontro fu durissimo e il risultato fu pagato ad un prezzo altissimo: una strage con due morti e decine di feriti.
Da quando lo sciopero, per decisione delle assemblee, era stato proclamato ad oltranza, secondo una visione propria dei braccianti avolesi, che erano definiti un po’ anarchici, la forma di lotta prevedeva i picchetti sulle strade in uscita dalla città e sulle strade che dai paesi di montagna vengono alla piana e attraverso le quali i pullman organizzati dagli agrari portavano le donne di Buccheri o di Ferla a raccogliere ortaggi nelle serre e nei campi con salari da fame e condizioni di sfruttamento indicibili. Li venivano bloccati i tentativi dei crumiri che si erano accordati con i “caporali”; li si faceva opera di convincimento, si davano le informazioni, si spiegava la piattaforma. Erano luoghi delicati nei quali si gestiva il grado di consenso e si tentava di costruire le alleanze popolari a sostegno della lotta. Passavano operai delle fabbriche e gli edili, impiegati pubblici e insegnanti e gli studenti delle scuole superiori; passavano amici, ma anche gli avversari, talvolta anche violenti e mandati dai padroni.
Il blocco dei braccianti è diverso dal picchetto davanti alla fabbrica o ad un ufficio.
Dal blocco, nella mattinata, partivano squadre di giovani compagni, generalmente in moto, per andare a controllare che nelle aziende non fossero entrati a lavorare i crumiri. Occorreva conoscere tutti i luoghi e tutte le trazzere anche secondarie, le diverse colture pronte per la raccolta nelle diverse aziende, la collocazione delle serre e le vie d’accesso per evitare di essere bloccati dalla Polizia e dai Carabinieri che cercavano di seguire, quasi sempre con scarso esito, per la verità, le squadre dei braccianti in motocicletta. Quando era il caso d’intervenire dentro le aziende, per convincere i crumiri ad unirsi alla lotta, l’auto della Camera del Lavoro, con gli altoparlanti, doveva guidare la squadra di braccianti e il dirigente doveva mostrare sul campo coraggio e capacità. Talvolta dentro le serre dove avevano persino passato la notte, si nascondevano gruppi di raccoglitrici impaurite per l’arrivo degli scioperanti e terrorizzate per le possibili rivalse dei caporali. Qualche volta le donne, invece, ci facevano sapere dove andarle a cercare per denunciare la propria condizione.
Nei giorni scorsi era capitato che agrari particolarmente arroganti e caporali particolarmente servili minacciassero con i fucili le squadre di scioperanti; fu l’intelligenza ed il coraggio di tre giovani braccianti a sottrarmi, in una circostanza, ad un sicuro pestaggio da parte di caporali e massari di un’azienda: due crearono un’abile diversivo e il terzo mi portò via con la sua moto.
Venerdì 29 Novembre il conflitto si era indurito e la situazione era diventata sempre più tesa; le notizie di arrivi notturni di squadre di crumiri aveva irrigidito il blocco sulla strada di Avola. Si temeva la vanificazione della lotta se i crumiri avessero provveduto alla raccolta degli ortaggi anche in una sola azienda. Una piccola falla avrebbe potuto produrre il crollo della lotta e la sfiducia del movimento. Un centinaio di braccianti decide di fare un blocco stradale sedendosi a terra. Inizia un lungo braccio di ferro con le autorità, il Prefetto in primo luogo. Non c’erano i telefonini allora e le comunicazioni avvenivano tramite il Comune nella persona del sindaco socialista Giuseppe Denaro che era anche deputato regionale. Talvolta, anche attraverso la radio della pattuglia della polizia; quel giorno si vide subito che non c’era il clima adatto per avviare approcci distensivi su posto.
Una delegazione formata dal Sindaco, dal deputato Nino Piscitello segretario della Federazione Comunista, dal Pretore di Avola che aveva tentato una mediazione per togliere il blocco, e dal segretario della Federbraccianti, il giovane Orazio Agosta, viene mandata dal Prefetto a chiedere una convocazione urgente delle parti. Quando tornano ci dicono che la convocazione dell’incontro tra le parti è in corso; i braccianti, anche se poco convinti, liberano la strada. Qualche ora dopo, ottenuto lo sgombero, il Prefetto rinvia l’incontro all’indomani. E l’indomani gli agrari non si presentano. Dice, beffardamente, il Prefetto “perché impediti dai blocchi stradali” che rendono difficile la circolazione nella Provincia. E quindi nuovo rinvio, prima a Martedì 3 Dicembre e poi, dato il crescere della tensione, alla giornata di Domenica quando un funzionario della Associazione Agricoltori, senza poteri e senza mandati, ci dice che per loro non c’è nulla da trattare della nostra piattaforma. Gli interventi di Denaro e di Salvatore Corallo del PSIUP, deputati regionali, sulla Giunta Regionale non sortiscono alcun effetto. Quelli sul Governo Leone, dimissionario, ancor meno. Noi, con i mezzi disponibili, chiamando dai bar coi telefoni a gettone, ci tenevamo in contatto con Carlo Cicerchia, con Giacinto Militello, con Feliciano Rossitto dirigenti regionali e nazionali della CGIL e della Federbraccianti che, a loro volta, cercavano contatti con il Governo per sbloccare la vertenza. Un pensiero affettuoso a Carlo e a Feliciano, compagni autorevoli e prestigiosi scomparsi prematuramente.
Era, dunque, inevitabile che l’assemblea di Domenica sera proclamasse lo sciopero generale e il blocco di tutte le attività.
Commentavamo e ragionavamo di queste cose con Peppe mentre osservavamo l’arrivo dei braccianti, il formarsi dei capannelli e notavamo che solo il bar del lato “nostro” era aperto, per spirito di servizio. Con soddisfazione abbiamo notato che i commercianti avevano accolto l’invito allo sciopero e i coltivatori diretti – verso i quali avevamo cercato, con fatica, i modi per differenziare la pressione della lotta – avevano anch’essi deciso, quel giorno, di non andare nei campi. Quando arriviamo a Sant’Antuninu il blocco è in corso e c’è un vero e proprio raduno di alcune migliaia di braccianti. Attorno ai fuochi, seduti sulle pietre, braccianti mangiano pane con le olive nere o col formaggio o con le sarde salate. Nei capannelli si commenta e Peppe, con l’altoparlante, torna a parlare dei motivi della lotta e invita alla calma e alla autodisciplina.
La pattuglia di polizia e carabinieri, che ormai staziona dall’inizio dei blocchi, dice che bisogna sgombrare la strada; il funzionario presente fa intendere che questa mattina arriveranno i rinforzi da Catania, il reparto Celere. Sono preoccupato perché quel reparto, l’anno prima, a Lentini, il 13 Dicembre, aveva sferrato un attacco immotivato e proditorio mentre noi del sindacato, con il Sindaco Otello Marilli, un partigiano emiliano approdato e rimasto in Sicilia che ci faceva da mediatore, ci apprestavamo ad incontrare i funzionari di polizia. Ne seguirono ore di vera e propria battaglia, sassi da una parte e cariche e spari dall’altra, con alcuni braccianti feriti da arma da fuoco, per fortuna in modo non grave. Quel reparto, finalmente, era stato costretto a ritirarsi e a cessare le violenze; sfilò tra due ali di braccianti e di popolo. Visti gli interventi del giorno prima, in città, occorre stare attenti, ci dicevamo con Peppe e gli altri compagni sindacalisti e parlamentari.
Abbiamo la conferma delle nostre preoccupazioni quando arriva il Sindaco Denaro che, salutando con calore e ansia persino me, dopo quasi una anno di polemiche per la mia uscita dal PSI, ci dice che il Prefetto D’Urso l’ha chiamato quasi ad intimargli che “il blocco della strada deve sparire”. Passa la mattinata con questo clima di tensione crescente, con i compagni di Priolo che ci avvisano che i gipponi della Celere sono sulla superstrada e stanno per arrivare. Il funzionario di polizia conferma quello che il Sindaco aveva riferito del Prefetto: il blocco va tolto “costi quel che costi”.
Eravamo preoccupati ma eravamo anche più di cinquemila; difficilmente la celere tenterà una carica in queste condizioni, ci dicevamo.
E, in effetti, la Celere non caricò questa volta.
Quando i gipponi della polizia arrivano ad un centinaio di metri dal blocco, gli agenti scendono armati di mitra, moschetti e zaini pieni di bombe lacrimogene e si schierano come per una battaglia; prima fila in ginocchio con i lacrimogeni innestati ai moschetti, seconda fila in piedi con altri fucili e mitra. Non sono armati di sfollagente. Il vice questore Camperisi - divenuto famoso nella circostanza - è pronto a comandare l’attacco.
Il Sindaco fa un estremo tentativo per convincere il Prefetto ad evitare un attacco che avrebbe potuto portare gravi conseguenze sulla popolazione inerme, anche di donne e bambini, che si era aggiunta al raduno. Quando torna dalla telefonata ci dice che il prefetto, per tutta risposta, gli aveva intimato di dare man forte alla polizia per togliere il blocco.
È evidente che l’ordine viene dall’alto e non lascia margini. Il vicequestore, sequestrando di fatto una betoniera che era stata fermata ai margini della strada, ordina ai suoi uomini di porla trasversalmente alla strada, davanti al reparto schierato. Quando lo schieramento è pronto, indossa la fascia tricolore e fa suonare i tre squilli di tromba che, normalmente, preludono all’ordine di sgombero. Questa volta sono, invece, il segnale dell’attacco.
Parte, da dietro la betoniera, una salva impressionante di bombe lacrimogene; i braccianti rispondono con lanci di pietre disperdendosi al riparo dei muri a secco che costeggiano la strada e dividono i campi, per scampare ai fumi dei lacrimogeni. E lanciano pietre sulla strada per evitare che la polizia possa caricare direttamente dalle camionette, come aveva cominciato a fare, creando il panico in mezzo a migliaia di persone. Cerchiamo di metterci al riparo; è inutile persino pensare ad un tentativo di parlamentare con la polizia. I funzionari e i comandanti sembrano invasati, vogliono colpire alla cieca, terrorizzare.
Presto ci rendiamo conto, e con noi i braccianti, che, contrariamente alle aspettative dei poliziotti, il vento porta i fumi dei lacrimogeni proprio addosso a loro; ma un candelotto è esploso praticamente addosso ad un bracciante. I suoi compagni cercano di allontanarlo. Investiti dal gas dei lacrimogeni, i poliziotti lasciano la loro postazione dietro la betoniera e vengono addosso ai braccianti sparando all’impazzata. Le pietre disperate non possono nulla contro le raffiche di mitra.
Il vicequestore chiama rinforzi che arrivano alle nostre spalle; siamo presi tra due fuochi. Noi inermi, con i lanci di sassi dei braccianti più giovani e la polizia armata che, con un ordine preciso, ormai inizia a sparare raffiche di mitra e colpi di moschetto ad altezza d’uomo. Sparano tutti; sparano direttamente i funzionari con le loro pistole e, per spronare gli uomini, uno di loro prende un moschetto dalle mani di un agente e spara diritto su un gruppo che cerca riparo dietro un muretto.
Mentre i braccianti in fuga si disperdono nei campi e cercano riparo dietro i muri a secco e qualche albero di ulivo, la polizia organizza un inseguimento forsennato continuando a sparare; una sorta di feroce caccia all’uomo.
Cominciamo a sentire attorno le grida di dolore dei feriti, i pianti, i lamenti, le imprecazioni, urla selvagge dei poliziotti; e gli spari e le raffiche. Gridiamo a squarciagola “basta, ci sono feriti, forse ci sono morti”. Proviamo a sventolare qualche fazzoletto.
Quando dopo quasi mezzora di quest’inferno, che sembrava non dovesse finire mai, sentiamo smettere i colpi e i comandanti richiamare gli agenti, intuiamo che la situazione è drammatica, più di quanto potevamo vedere da dietro il muretto che era diventato il nostro rifugio. Ci organizziamo per raggiungere e soccorrere i feriti sparsi come in un campo di battaglia. Le ferite sono tutte da armi da fuoco; i feriti perdono molto sangue. Alcuni sono in condizioni molto gravi. Ci sono macchine in fiamme e altre crivellate di proiettili; anche le moto dei braccianti addossate ai muretti hanno i serbatoi forati dalle raffiche . Orazio Agosta aveva visto cadere Sebastiano Agostino, un bracciante colpito al petto, poco distante da lui. Si organizza, in ogni modo, con le poche auto disponibili e funzionanti, di portare i feriti in ospedale. I reparti di polizia, evidentemente paghi della loro impresa e per sfuggire all’indignazione generale anche di quanti accorrono dalla città, crescente alla vista della strage, si organizzano per tornare in caserma portandosi dietro decine di fermati.
I feriti sono in un raggio di oltre trecento metri dal blocco stradale e Giuseppe Scibilia, 47 anni, bracciante di Avola, è morto colpito al petto a ridosso di un albero, a trecento metri dalla strada.
Il mio racconto in diretta dal luogo della strage finisce qui perché, intanto, si sono fatte le quattro del pomeriggio; il camion del trasloco, a Siracusa, davanti casa, aspetta per caricare anche la cinquecento che, finalmente, avevo comprato a Luglio. La mia compagna e mio figlio aspettavano me per andare a prendere l’aereo che ci avrebbe portato a Roma e, da li, in treno, proseguire per Venezia.
Ci abbracciamo con Peppe Vaccarella, con le lacrime agli occhi; ci salutiamo con Orazio e anche Peppino Denaro volle abbracciarmi come a ricostruire, in quel dramma, il legame tra compagni che avevano fatto scelte diverse. Chiamai al telefono Gino Guerra, segretario della CGIL, e lui convenne che dovessi accompagnare la famiglia a Venezia; sarei tornato per la manifestazione di protesta e i funerali.
Giunto a Roma richiamai Gino che mi fa il quadro della situazione e mi mette al corrente che, in tutta Italia sono in atto manifestazioni di protesta e si preparano scioperi per l’indomani. Mi dice anche che gli agrari sono stati costretti alla trattativa da subito e con la partecipazione dei dirigenti nazionali e i segretari confederali di CGIL CISL UIL.
Il racconto che mi fa è tremendo: Angelo Sigona, di 25 anni, è morto all’ospedale di Siracusa dopo essere stato raccolto dietro ad un muretto colpito come per una fucilazione. Finiscono in ospedale Paolo Caldarella, ferito alla mano che aveva alzato in segno di tregua, Giorgio Garofalo con l’intestino perforato, Giuseppe Buscemi, Rosario Migneco, Orazio Di Natale, colpiti, come Caldarella, da colpi di pistola, quindi direttamente dai funzionari.
Con queste notizie prendo il treno della notte per Venezia, vagone cuccette, e nello scompartimento c’è uno dei capi delle Comisionas Obreras spagnole, allora ancora clandestine, con un compagno dell’Ufficio Internazionale della CGIL. Era stato a Siracusa, aveva avuto incontri di solidarietà in tutto il Mezzogiorno e ora, da Venezia, avrebbe iniziato un giro di incontri al Nord. Una notte di racconti e commenti; il compagno spagnolo aveva ceduto il suo posto più comodo alla mia compagna per meglio accudire il piccolo. La notte la passammo nel corridoio a parlare e a fumare quella notte; non amava parlare del carcere subito, il compagno spagnolo preferiva che gli raccontassi la vertenza di Avola e dopo mi ha parlato delle Comisionas e di come queste stavano svuotando il sindacato ufficiale franchista.
E arriva l’alba del giorno dopo alla stazione di Mestre presidiata dagli operai in sciopero di protesta che chiedevano il disarmo della polizia. E capita di essere riconosciuto da due fratelli, “trasfertisti” dei montaggi industriali, che mi avevano conosciuto a Siracusa e credono che sia in fuga, ricercato dalla polizia. Quando spiego come stanno le cose, si offrono di organizzare l’assistenza alla mia compagna e a mio figlio per accompagnarli alla nuova casa dove il camion del trasloco scaricherà le poche masserizie. Loro mi portano alla SIRMA di Marghera dove il padre è il capo storico della Commissione Interna ed era stato autorevole partigiano comunista. Quella fonderia d’alluminio non c’è più: la multinazionale svizzera l’ha ceduta oltre venti anni fa all’americana ALCOA che, dopo averla chiusa si appresta, in queste settimane, a dismettere in Italia la produzione di alluminio. Arriviamo alla fabbrica attraversando uno spettacolo impressionante di blocchi stradali con i copertoni in fiamme e operai, carichi di rabbia e di pietà, con le lacrime agli occhi. Entriamo in fabbrica, in mezzo a duemila fonditori d’alluminio schierati, silenziosi, su due file.
Presentato dal compagno Bosello, il vecchio partigiano, che racconta come lui aveva conosciuto i braccianti di Siracusa e di Avola quando i suoi figli lavoravano a Priolo, mi viene chiesto di portare la testimonianza della giornata della strage. Bosello aveva portato la tensione tra gli operai alle stelle; quei duri fonditori carichi di rabbia si asciugavano gli occhi con la manica della tuta impregnata di nerofumo. Seppi accennare a quanto era accaduto la mattina precedente e dire solo che la prima fila di celerini era in ginocchio e la seconda in piedi, dietro la betoniera, con i fucili spianati quando si è scatenato l’inferno. Un nodo alla gola e, finalmente, un pianto a dirotto ha sciolto il corto circuito tra il posto di blocco del massacro del giorno prima e quello di copertoni in fiamme appena attraversato entrando nel mio nuovo incarico.
2 DICEMBRE 2014
I FATTI DI AVOLA E LA LETTERATURA A quarantasei anni dai "Fatti di Avola del 2 dicembre 1968 la Consulta Giovanile di Avola oganizzò delle giornate a ricordo di quei tragici eventi che sboccarono poi in superiori e positive forme contrattuali per i lavoratori in lotta e, successivamente, nel 1970, nella la formulazione dello Statuto dei lavoratori a opera dell'allora ministro del lavoro Giacomo Brodolini. La nostra Libreria Editrice curò l'incontro realizzato il 2 dicembre con il tema Da Leopardi a Salvo Di Pietro, attraverso Sebastiano Artale, Giovanni Parentignoti, Corrado Morale e Andrea Camilleri. I fatti di Avola e la letteratura
Con Liliana Calabrese (voce e chitarra), Giuseppe Pignatello (tastiera), Alba Caligiore (voce), Santa Argentino (pennello).
Iniziammo alle ore 18,30 del 2 dicembre in viale Piersanti Mattarella ad Avola
Fausto Bertinotti legge "I fatti di Avola" di Sebastiano Burgaretta
[...]Con questo lavoro, Burgaretta ci consegna una ricostruzione precisa e articolata sull’eccidio di Avola, e in generale sulle lotte operaie e bracciantili del biennio 1968-'69 avvenute in provincia di Siracusa. Certo a partire da quegli anni molti progressi sociali sono stati compiuti, molte libertà politiche sono state conquistate e poi difese, lo spazio della partecipazione popolare alla cosa pubblica è aumentato. Ma via via che questo processo duro e faticoso si apre la strada, pur fra lotte aspre e fra le insidie del ritorno al passato, è lecito interrogarsi sul significato di quelle battaglie, sugli obiettivi raggiunti e sui problemi indicati, ma che attendono una soluzione. E se è vero che la contraddizione dello sviluppo italiano degli anni Settanta e Ottanta consiste, ancora, nelle particolari condizioni del Mezzogiorno e nella forte disoccupazione, allora la riflessione su quegli eventi acquista ulteriore legittimità.
Il libro di Burgaretta risponde proprio a questa esigenza. L’autore, attraverso una ricerca scrupolosa e puntuale, ha ricostruito i drammatici giorni di Avola e il tragico epilogo. Per fare il punto sui fatti e per comprenderne la dinamica ha utilizzato tutte le fonti esistenti, dalla stampa dell’epoca agli atti parlamentari e alle interviste dei protagonisti. Burgaretta ci consegna «una memoria ordinata» (direbbe Giarrizzo) di quegli eventi, che servirà, come ha scritto l’autore, «a farli conoscere ai giovani che non sanno alcunché di quegli avvenimenti, a ricordarli a chi facilmente dimentica». E in una fase nella quale la domanda di conoscenze storiche va via via crescendo, gli studiosi dell’Italia repubblicana troveranno in questo volume elementi utili per approfondire questo periodo così difficile della nostra storia, contrassegnato da episodi drammatici come quello di Avola, ma anche carico di sollecitazioni e tensioni della società civile che chiedeva un profondo rinnovamento politico e sociale.
La ricostruzione degli avvenimenti, dall’inizio della lotta bracciantile fino al tragico epilogo, le reazioni nel paese dopo l’eccidio, l’atteggiamento del governo e della magistratura sono i punti fondamentali attorno ai quali si articola il lavoro di Burgaretta. Sulle reazioni nel paese si è accennato. Per quel che riguarda la dinamica degli avvenimenti, dalla esposizione dell’autore appare netto che l’intervento fu voluto e che in nessun modo si può parlare di legittima difesa da parte della polizia.
Come è noto, con la lotta che i braccianti iniziano nel novembre 1968 si rivendica la parificazione delle due zone salariali, in cui è divisa la provincia di Siracusa, miglioramenti economici e l’introduzione di una normativa volta a consentire nelle aziende il controllo delle applicazioni contrattuali. Mentre gli aspetti economici della vertenza non costituiscono un serio ostacolo al componimento della stessa; viceversa, si manifesta subito da parte degli agrari una ostilità preconcetta sulla parte normativa che le organizzazioni sindacali hanno concretizzato nella istituzione di commissioni comunali paritetiche e nel controllo sulla esecuzione dei contratti. Di fronte alle resistenze degli agrari a trattare su questi punti della vertenza, lo sciopero si protrae per alcuni giorni e fino a quando il prefetto di Siracusa, dietro le pressioni del movimento sindacale e di esponenti della classe dirigente siracusana più vicina ai lavoratori, convoca di nuovo le parti. Ma per ben due volte i rappresentanti degli agrari non si presentano alle trattative. In questo clima matura la decisione dello sciopero generale del 2 dicembre e poi lo scontro alle ore 14 sulla statale 115.
Gli aspetti più interessanti di questa parte del volume sono le interviste ai testimoni. Per capire l’atteggiamento e gli umori che serpeggiano negli ambienti dell’apparato statale è opportuno far riferimento alle dichiarazioni di alcuni protagonisti di quelle vicende. «Ad un determinato momento,— afferma l’on. D’Agata — mentre trattavamo in prefettura e si stava arrivando al dunque, il prefetto fu chiamato al telefono da Roma. Non parlò davanti a noi, si allontanò e si fece passare la comunicazione dall’altra parte. Poco dopo ritornò con atteggiamento cambiato di punto in bianco: mentre prima aveva una posizione mediatrice e tendeva a far raggiungere un accordo alle parti, dopo la telefonata diventò collaterale e di sostegno alle posizioni di intransigenza degli agrari. Non ricordo se in quella riunione o in quella successiva minacciò di far intervenire i militari, non più la polizia, i militari». Di carattere analogo è la dichiarazione del sindaco di Avola del tempo, on. Denaro, il quale era presente a quella seduta: «L’impressione che io ebbi, per quello che avvenne, fu a causa di una telefonata (al prefetto) venuta dall’alto, proprio forse dal ministro Restivo, in seguito alla quale il prefetto fece allontanare dal gabinetto il colonnello dei carabinieri e il questore, cambiando tattica».
L’atteggiamento ambiguo e ostile della prefettura e degli organismi statali verso i lavoratori verrà richiamato più volte anche nel corso del dibattito parlamentare. Il deputato comunista Antonino Piscitello, che era stato presente agli avvenimenti, nel suo intervento dirà che fin dall’1 dicembre era stata segnalata telegraficamente al ministro del Lavoro la drammatica situazione della zona e che egli «era riuscito ad avere assicurazione da parte del prefetto di Siracusa che la polizia non sarebbe intervenuta».
Giustamente Giarrizzo rileva che «la decisione politica di cui il prefetto di Siracusa fu strumento interpretò anticipandole scelte reazionarie quali erano maturate in settori decisivi dell’apparato statale e della classe politica italiana». E poi conclude domandandosi se la reazione di destra, e cioè le motivazioni e gli obiettivi della cosiddetta «strategia della tensione», non vadano ricercati nelle vicende di questi mesi e nella crisi politico-sociale in atto nel paese. «La prova generale, — continua Giarrizzo — come è noto, sarebbe stata ad un anno preciso da Avola la strage di Piazza Fontana: è arbitrario proporre che le radici di quel radicalismo di destra abbiano tratto succhi ed alimento da iniziative di repressione e di scontro, proposte all’opinione pubblica come ‘errori’?» (Giarrizzo, nota introduttiva).
Si tratta di suggerimenti e riflessioni, sui quali non si può non convenire. Ma chi voglia approfondire la storia del Mezzogiorno e della Sicilia, ed in particolare la storia delle campagne e del movimento contadino non può non interrogarsi sul significato e sull’importanza delle lotte bracciantili del 1968, di cui i fatti di Avola assumono ormai un carattere periodizzante. In che senso queste lotte innovano rispetto alla tradizione del movimento contadino siciliano e da quale contesto economico-sociale traggono alimento?
dal Saggio storico di Giuseppe Astuto
in I fatti di Avola, pag. 13
Avola 2 dicembre 1968
di Giorgio Morale
Da giorni ci domandavamo:
“Si sciopera o no?”. Il 2 il dilemma fu sciolto dai braccianti. Accolti da grandi applausi, fecero uscire tutti (e noi, fra spintoni e urla, fummo velocissimi). Ricordo ancora come fu tirata giù la saracinesca. Uno schianto: la scuola chiusa. Come negozi e uffici. Chissà per quanto. Senonché si sentirono invocazioni d’aiuto: il bidello era rimasto dentro. La scuola fu riaperta per farlo uscire.
Orazio propose di andare al blocco sulla statale per vedere gli scioperanti. Andammo, per curiosità. Felici di occupare la strada nella sua larghezza e di celebrare ore di inaspettata libertà chiedendo sigarette a destra e a manca.
Man mano che ci avvicinavamo al blocco la folla s’infittiva, i discorsi si facevano più accesi. Circolava l’energia che si crea quando s’incontrano tante persone, tante volontà, tanti gesti. Alcuni scioperanti erano seduti in circolo, per terra; altri erano intenti a spiegare agli automobilisti le loro ragioni. Ai lati della strada, di qua e di là dei muri di sassi, languivano i resti di fuochi notturni. Il cielo era limpido, come a benedire la vacanza, ma l’aria fredda, come a sottolineare i disagi. Le facce stanche, le barbe lunghe. Io ero colpito della padronanza con cui i braccianti tenevano la strada. Tutto si svolgeva come obbedendo a un ordine naturale: questo era possibile, dunque, per difendere un diritto.
Giovani conosciuti in paese come comunisti sembravano nel loro elemento: parlavano con cognizione, formavano crocchi. Si muovevano nella ressa secondo necessità solo a loro evidenti. Si riconoscevano dall’aspetto: larghi maglioni, lunghe sciarpe, lo sguardo e la parola pronti per tutti. Il sindaco e le autorità parlamentavano, evidenziati da un vuoto attorno.
La polizia arrivò mezz’ora dopo che io e Orazio eravamo andati via. Fra gli ulivi si scatenò la battaglia. Il vento spinse i lacrimogeni contro gli stessi poliziotti, che persero la testa: si videro circondati da mille braccianti e aprirono il fuoco.
La notizia volò di bocca in bocca. Nel pomeriggio io e Orazio, increduli che tanto fosse successo dove noi eravamo stati, ci recammo alla sede del partito comunista. Ma non fu possibile entrare. Il dolore e la rabbia formavano un muro spesso di gente fin sulla porta. Sulla strada erano rimaste pallottole e pietre. Si erano contati due morti e due chili di piombo.
L’indomani gli agrari, che da giorni disertavano le riunioni, si presentarono alla firma del contratto. Il giorno dei funerali tutta Avola si vestì a lutto. Il corteo si svolse il 4, sotto la pioggia, fra una selva di ombrelli neri.
Io pensavo ai miei nella terra di nessuno dell’emigrazione, a tante case che si svuotavano per addii sommessi, al via vai nella strada Nord Sud, agli sguardi obliqui di chi restava, che percorrevano tutti i marciapiedi, fermi sulla soglia della disoccupazione.
Pensavo alla tessera della Dc di mio padre, riposta nel cassetto delle cose che non si usano, ma non si buttano.
“Se no, quando tu eri piccolo, non lo facevano lavorare” mi aveva spiegato mia madre.
Ricordai una sera che mio padre tardava più del solito: era stato pagato per affiggere manifesti della DC.
“Se lo incontrano i carabinieri, lo arrestano” diceva mia madre nell’attesa. “Se lo incontrano quelli di un altro partito, lo picchiano”.
Mio padre arrivò che io già dormivo: fui svegliato dalla sua voce. Mio padre raccontò che i manifesti erano tanti: i più li aveva portati a casa. Finirono nascosti nell’ultimo cassetto dell’armadio. Per tanto tempo avevo pensato ad essi con un senso di colpa. Ne guarii quel 2 dicembre.
“Tutta propaganda in meno per la DC” pensai con soddisfazione.
Chi si ricorda oggi dei fatti di Avola?
di Grazia Maria Schirinà
Era il 1977 e mi trovavo in treno, per tornare a casa per le vacanze, forse quelle pasquali; il treno era affollatissimo, ma io avevo trovato il posto e mi sentivo fortunata. Stavo comodamente seduta mentre tante persone, soprattutto del Sud, con una giornata intera di viaggio da fare, erano in piedi nel corridoio. All’epoca, viaggiare, soprattutto nel periodo delle vacanze, era un vero problema. Ci si avventurava, ma non sempre il viaggio era comodo: del resto anche ora, e per di più in aereo, non è che i problemi siano di meno. Ma non voglio divagare, altrimenti andrei troppo lontano e invece in questo momento voglio ricordare dei fatti ben precisi.
Eravamo dunque nel tratto di strada che porta da Milano a Bologna (io insegnavo al “Sarpi” di Bergamo) e mi sentivo, ed in effetti lo ero, fortunata, anche se la mia fortuna era frutto, almeno credo, di un lavoro intenso e appassionato di studi classici e letterari. Mi trovavo dunque in treno, intenta, come sempre quando i viaggi sono lunghi, alla lettura di un buon libro (ora non ricordo quale); ogni tanto scambiavo una battuta con mio marito, che spesso interferiva con le mie letture e mi invitava a parlare. Una signora, seduta davanti a me, dopo le prime nostre battute, cominciò a guardarci in maniera sempre più insistente. Non la conoscevamo, ma si capiva che voleva dirci qualcosa. Tra una battuta e l’altra, infatti, esordì col chiedere da dove venissimo. Senza esitazione rispondemmo che eravamo di Avola.
– Ah! Il paese dei famosi fatti! Avevo ben capito che eravate siciliani!
Non capii cosa volesse dire e che tipo di discussione volesse intavolare. Era una signora ben vestita, sui quarant’anni, una del Nord, una docente universitaria che si recava a Bologna a tenere una sua lezione. Questo ovviamente lo sapemmo dopo.
– Cosa ne pensate, voi giovani, dei fatti?
Evidentemente non si era resa conto, forse dal nostro comportamento o forse dal nostro modo di essere, che poi tanto giovani non eravamo, dato che io ero docente e mio marito medico in un ospedale del Nord. Aveva un cipiglio strano, che non mi convinceva; la sua non era solo curiosità, l’espressione era troppo seria, arcigna quasi, che faceva contrasto con i suoi lineamenti e tutto il portamento. Noi parlammo dei braccianti e della loro condizione di vita, del fatto che ci volesse un’attenzione diversa ai problemi della gente, dei lavoratori nei campi in particolar modo, che, all’epoca, non erano garantiti e che lottavano per una giusta causa. Parlammo anche dei morti ammazzati e facemmo le nostre considerazioni sul fatto che i militari erano altri giovani del Sud che, per non avere trovato un posto di lavoro, si erano arruolati e si erano trovati di fronte i loro stessi fratelli. Due giovani erano caduti, Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia, appena fuori della città, nel tafferuglio generale. Due che neanche c’entravano avevano perso la vita e avevano lasciato le loro famiglie in preda alla disperazione più nera. Noi, sia io che mio marito, al momento dei fatti, eravamo in terza liceo e, fino alla mattina del 2, quando ci fu riportata la notizia, vivevamo quegli avvenimenti con partecipazione sì, ma forse anche con goliardia: lo sciopero si sa, quando si è studenti, fa sempre un certo effetto. La notizia di quelle morti ci aveva fatti svegliare di botto, ci aveva resi partecipi di una realtà più grande di noi; la moglie di uno degli uccisi era una nostra coetanea, aveva appena diciannove anni; fu allora forse che cominciammo a vedere la protesta con occhi diversi.
Era il 1968 e tutti i giovani reclamavano qualcosa, chi consapevolmente chi inconsapevolmente. In Francia il movimento studentesco era in subbuglio, alla televisione ci facevano vedere cortei di giovani studenti manifestanti, giovani e operai insieme… era una protesta che noi, allora, accettavamo, condividevamo ma della cui portata non ci rendevamo tutti conto. Ci indispettì tuttavia la proiezione della nostra bella città che, durante TG7, venne proposta dalla televisione italiane. Tutte le donne erano velate, quasi con la cappa nera, e gli uomini sembrava quasi nascondessero sotto le giacche la lupara. Dove era andato a pescarle Sergio Zavoli quelle immagini? Non appartenevano alla nostra città, sicuramente non erano veritiere; dov’erano i giovani che scioperavano accanto agli operai?
Il viaggio in treno proseguiva con i nostri ricordi e, in verità, diventava anche meno stancante, noi rispondevamo alle domande sempre più incalzanti della nostra interlocutrice che voleva sapere e non capivamo cosa volesse farci dire. Per noi il ricordo era, se non fosse stato per quelle morti, anche piacevole (gli anni della scuola, col senno di poi, sono sempre i più belli). Eravamo stati anche soddisfatti che fosse stato sancito, proprio ad Avola, lo Statuto dei lavoratori, e, in quel momento, forse anche la curiosità della nostra interlocutrice ci rendeva un po’ orgogliosi per il suo interesse ai fatti. Non sapevamo dove volesse arrivare e non capivamo il suo cipiglio finché non sbottò: Ad Avola si è originato anche tanto altro danno. Nelle università non se ne può più. A Bologna gli studenti sono diventati insostenibili! Tutti pretendono, anche il diciotto politico, a tutti si deve tutto! Mettono sempre davanti le rivendicazioni degli operari, dei braccianti di Avola, come se fosse una cosa che appartenesse anche a loro.
Restammo sbalorditi, la sua era vera e propria rabbia nei confronti del cambiamento, che i giovani universitari volevano attuare negli atenei (il cambiamento ci fu ma i baroni c’erano allora e ci sono anche ora); forse non tutti eravamo preparati ad accettare quello che era successo, forse non tutti volevano ammettere che i tempi erano cambiati (così come oggi non tutti siamo disposti ad ammettere che qualcosa non ha funzionato). Noi non credevamo, allora, che la nostra interlocutrice potesse nutrire tanto rancore nei confronti dei giovani universitari, anche se ci avevano detto che a Bologna la situazione era stata molto calda e che al “Sarpi” stesso, dove io insegnavo le rimostranze degli alunni avevano indotto a prendere seri provvedimenti nei confronti di alcuni facinorosi che avevano malmenato dei docenti. A me sembrava pressoché impossibile una situazione del genere; a Catania ci eravamo riuniti con gli altri studenti, avevamo discusso e manifestato anche noi, ma forse come sempre, da noi, al Sud, la situazione è sempre molto più soft. Eppure c’erano stati i morti dei fatti di Avola e Avola, cittadina del profondo Sud, aveva dato prova ancora una volta di partecipazione sociale ai problemi della nazione, aveva fatto sventolare per prima, ancora una volta, la bandiera della libertà, come nei famosi moti del 1848, quando il tricolore sventolò dal balcone di una casa sita in quello che poi fu chiamato Corso Garibaldi. Negli occhi della nostra interlocutrice notai anche una punta di stizza nei nostri confronti che, gente del Sud, avevamo trovato un posto di prestigio al Nord: emigranti di livello diverso da quello del primo ‘900.
Si era arrivati intanto nei pressi di Bologna e, oserei dire fortunatamente, la prof.ssa scese; forse fui un poco sollevata, non mi piaceva più il tono di quella discussione; io non mi sentivo in colpa se gli studenti e i lavoratori avevano reclamato i loro diritti, anzi mi sentivo orgogliosa anche se avevo nel cuore, ancora di più, la rabbia per quelle morti ingiuste che tuttavia avevano attirato, col loro sangue, finalmente, un po’ di interesse.
Continuammo a parlare con mio marito, non ero più serena come prima, quel discorso mi aveva turbata e ancora ora, quando ci penso, mi sento ribollire il sangue. Solo molto dopo fui capace di prendere il mio libro per continuare la lettura, ma non fu più la stessa cosa.
Foto tratte dall'archivio fotografico della Camera del lavoro CGIL di Siracusa
CHE
FINE HANNO FATTO I BRACCIANTI?
Ormai
a lavorare la terra sono rimasti in pochi e anziani
Domenica
mattina. Fa freddo e piove. La piazza è deserta. Qui non piove
mica spesso. Eppure piove oggi come pioveva il giorno dei funerali, trent'anni
fa, e tutti ricordano il mare di ombrelli. Tra pochi giorni è il
2 dicembre: il sindaco diessino, dopo qualche tentennamento, celebrerà
l'anniversario. Il professor Burgaretta e il suo amico editore Ciccio
Urso - vero eroe che ha una libreria dove si fornisce tutta la provincia
e che è l'ultima libreria d'Italia, perché sta più
a sud di Tunisi - stanno aspettando dalla tipografia le bozze della nuova
edizione del libro, e sembra che resistano in trincea come quel giapponese
sull'isola tanti anni dopo la guerra. Vogliono tenere vivo il ricordo
del 2 dicembre a tutti i costi, ma per i nobili di allora e di ora fu
solo una cosa che mise in cattiva
luce Avola. I ragazzini che sfrecciano sui motorini non ne sanno niente,
né gliene frega.
Si vedono tutti sul viale che porta al Lido, la sera sono così
tanti che gli abitanti non riescono a entrare in casa. Protestano e sono
stati anche minacciati. I ragazzi non stanno nella piazza, in nessuno
dei quattro angoli, e chissà se quando saranno grandi riusciranno
almeno a cacciare via questa tradizione. Di braccianti ce ne saranno sempre
meno. Poco male: perché quei tanti che stavano sulla statale il
2 dicembre 1968 stavano lì perché non volevano più
il caporalato e lottavano contro quella specie di gabbie salariali che
facevano differenze tra la provincia di Siracusa del nord (dove si veniva
pagati di più perché arrivavano le grandi industrie, e allora
la campagna poteva svuotarsi) e quella del sud, dove ogni ora veniva pagata
oltre trecento lire in meno. Ora a lavorare la terra sono rimasti in pochi,
per lo più anziani: il caporalato è risorto (e non molto
tempo dopo l'approvazione dello Statuto dei Lavoratori) ed è vivo,
e dal decreto Berlusconi in poi anche legittimato; di gabbie salariali
si torna a parlare e non sembrano affatto lontane; e finanche lo sciopero
pare che debba essere autoregolamentato, perché così non
va più bene. E che ce la ricordiamo a fare la tragedia di Avola?
Toto
Roccuzzo
InDiario della settimana, Anno III numero 48 2 dicembre
1998- I fatti di Avola 1968-1998 pag. 24
LA TESTIMONIANZA SU "I FATTI DI AVOLA"
DEL BRACCIANTE AVOLESE PAOLO DI MAURO
EVENTI
E ACCADI...MENTI DA SEGUIRE
GIORNO PER GIORNO