[...]Est in vita quasi cum ludas tesseris: si id quod jactu opus erat forte non cecidit, id quod cecidit arte corrigas (sic fere).
Nella vita è come quando tu giochi ai dadi: se il punto che più ti occorre non è uscito fuori al getto, quello che il caso ha fatto uscire devi correggerlo da te, con la tua abilità (all'incirca così).
Terenzio, I due Fratelli, IV, 7, versi 739-741
La poetessa toscana Lucia Bonanni gioca a dadi (si fa per dire) con quattro libri pubblicati di recente dalla mia Libreria Editrice (nel contesto dello scritto le quattro copertine oggetto del suo intervento - Cliccando sulle copertine si va alle pagine dei relativi autori).
Non è facile avere recensioni dei miei libri ...non sono Mondadori, Rizzoli, Feltrinelli, Giunti e così via... né sogno di esserlo... In qualche modo questo intervento "corregge", e aggiunge qualcosa, come suggerisce Terenzio, per l'abilità di Lucia, a questa mia condizione "altra" di editore rispetto ai grossi editori... Ringrazio Lucia.
Francesco Urso
COME GIOCARE CON I LIBRI
BREVE LETTURA COMPARATA
PER QUATTRO OPERE
CON DENOMINATORE COMUNE
“Non si sa come si creano/costellazioni di galassie e di energia/giocano a dadi gli uomini/resta sul tavolo un avanzo di magia”, recita una nota canzone di Jovanotti…
E forse non è un po’ come giocare a dadi quando si intraprende la lettura di un libro e non si sa bene cosa ci aspetta tra le pagine che andiamo via via sfogliando? Certo c’è sempre un abstact ed una prefazione a fare da filo di Arianna nel labirinto delle parole, ma l’incognita, l’attesa e lo stupore restano sempre vivi a tendere tranelli. E non è forse un “avanzo di magia” quello che resta sul tavolo quando alla fine chiudiamo il libro per riporlo nello scaffale ed ogni tanto andiamo a riprenderlo per ritrovarvi le chiosature a margine, le righe evidenziate ed anche qualche angolo arricciato.
L’attrazione per i libri è sempre forte per cui mi piace sostare davanti alle vetrine delle librerie oppure ciacciare tra gli scaffali, togliere dalle mensole alcuni volumi e starmene in pace a leggere in qua e là, vagando con la mente da un posto all’altro del pianeta. Ma ancor di più mi piace leggere i lavori di persone che conosco già; è questo un sentire fascinoso, quasi esoterico, capace di richiamare presenze e allontanare dai pensieri le negatività del quotidiano.
Oggi gli avanzi di magia che sono qui sul mio tavolo riguardano quattro opere che hanno come denominatore comune, ma anche come multiplo comune, un fattore che può essere identificato in una sola parola: la vita. Una parola che nel suo campo semantico può essere intesa come andamento lineare nel suo inizio-fine oppure come carattere ciclico nel senso evolutivo di rinascita. Ecco quindi “ la vita come valore” e “la vita come fatto” che si ripete in questi scritti. Diversi sono i colori per intensità e tratteggio delle immagini delle copertine che annunciano e delineano il contenuto di ciascuno di questi libri da me letti con vero piacere ed attenzione.
Evoca una marinaresca dalle note arcaiche, il frontespizio di “Esiste il diritto di morire?” di Roberta Coffa che in questo lavoro è riuscita a fondere le dritte giuridiche con la propria umanità e sensibilità, appassionando il lettore ad un argomento che talvolta lascia sgomenti ed incerti. Quel blu intenso, degradante verso il basso, sembra quasi un mare le cui acque si fanno sempre più docili e meno profonde man mano che si avvicinano alla costa, mentre la catena che molla gli ormeggi e si spezza, mandando in frantumi l’ anello di congiunzione tra il bios e la stessa essenza di “forme di esistenza dolorose o ritenute non dignitose”, sta ad indicare un esistere che non è più.
Ma ecco il verde della speranza, se pur asciutto ed essenziale, su cui campeggia un “Urlo” le cui onde come in un sisma dell’animo, arrossano il cielo, si insinuano tra le rive di un approdo quasi surreale e inducono i passanti a procedere su una traiettoria che assomiglia più allo sferragliare di un treno su binari immaginari che ad un selciato urbano. Queste le per le parafrasi, le forme ironiche e surreali, i nonsense, le finzioni, la realtà sublimata per l’opera “La valle dell’ozio” in cui si cimenta Salvatore Di Pietro. Da un lato un testo, imperniato sul dualismo vita- morte, vita biologica, essenza-anima, in cui i personaggi risultano irrelati, generici, quasi astratti quel “ora per allora” che non pochi interrogativi ha e continua a suscitare a causa di quella divergenza diacronica, correlata ad una “distanza psicologica e temporale” tra la dichiarazione scritta e l’applicazione della stessa in ambito dell’eutanasia volontaria. Dall’altro lato una raccolta antologica di racconti in cui compaiono finali a sorpresa che lasciano il lettore incredulo e smarrito dentro i confini di una valle immaginaria dove “i pensieri più intimi sembrano esposti ai raggi del sole, come panni appesi ad asciugare”. Questo perché “la vita non è altro che un lungo divenire, una progressione di distacchi e partenze alla costante ricerca di nuove mete da cui ripartire, il viaggio da intraprendere giorno dopo giorno fino a quando non si giunge all’ultima tappa in cui non si trovano affissi gli orari degli arrivi e delle partenze”; e chissà per strane alchimie finalmente si torna ad essere raggiungibili anche al cellulare o addirittura, pur restando tra i vivi, si può anche correre il rischio di comparire su un piccolo annuncio mortuario con tanto di foto e cornice listata a lutto per non essere neanche riconosciuti dall’inquilino del piano di sopra. Oppure lasciarsi cogliere di sorpresa dalle stranezze della vita e rassegnare le dimissioni , scrivendo, forse per celia o forse per diletto, lettere alfabetiche dai suoni simili che a distanza di tempo restano il dilemma dei più sprovveduti e di chi non sa “fermare il tempo e ascoltare nell’aria il pa-pa-pa-pa-papà dei ricordi”. Visto, però, che “sacro è tutto ciò che ha un valore intrinseco , indipendente dall’utilità o dagli approssimati soggettivi” (R. Dworkin), l’assunto tra la qualità della vita e la qualità della morte ancor più si ripropone nel “diritto a morire con vera dignità” anche perché “Esiste (davvero) il diritto di morire?” anche al di là delle varie implicazioni di bioetica religiosa e laica che un simile argomento suscita e comporta? “O sono morto davvero? - pensò. Se sono vivo devo riuscire a parlare, a gridare, a far capire che sono vivo”.
“E’ Falena! Quel ragazzo che chiamano Falena” Ora veniva sollevato e adagiato su una barella, capì. "E meno male che hai telefonato, se rimaneva ancora un poco qua… la dose, questa volta, non l’ha sfottuto”. Ma chi è Falena! Falena è uno dei “Randagi” che Benito Marziano racchiude nel color rosso di una copertina su cui quasi si confonde la figura di un senza dimora, ridotta e distanziata sul retro quasi a significare la stessa invisibilità sociale a cui sono soggetti tali individui. "Da quel momento non ricordo più niente, non so cosa mi accadde, ma ora…ora…sto ricordando…mi svegliai , non so dopo quanto tempo in mezzo alla campagna, era notte… ma io non sapevo più chi ero, dov’ero, se avevo una casa, una famiglia. Vidi le luci della città e mi avvicinai”. Uomini, questi, costretti a vivere all’ombra dell’albero della vita, di quello stesso albero che nel quadrante di un piano cartesiano immaginario sulla quarta di copertina si staglia e si dirama come metafora e allegoria di un esistenza non sempre consona e dignitosa.
“Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rialzarsi” (G. G. Marquez)… ma io… io “Come potrò dire a mia madre che ho paura?”. Io che liberai un tenero pettirosso dalla gabbia in cui era stato rinchiuso e poi per ironia della sorte imprigionai me stesso “alla droga, alle continue entrate e uscite dagli istituti di penitenziari e comunità di recupero”.
Un lavoro da leggere con attenzione questo di Roberta Malignaggi, tenace e determinata a portare avanti un argomento dal forte impatto emotivo, un testo che per le implicazioni di natura emotiva risulta estremamente coinvolgente, un testo da leggere per la storia che vi si racconta, per quella competenza autentica della curatrice nel saper raccogliere, seriare e raccontare i documenti e rielaborarli in un trattato ben delineato e articolato nella forma e nei contenuti, un testo da considerare per la bontà di un editore che non ricusa ma accoglie, che non isola ma partecipa cultura a più livelli; un testo commovente non solo per la storia che vi si racconta ma anche per quel coraggio di madre che fa da collante a tutta la narrazione. “Non mi sono mai pentita delle scelte che ho fatto per mio figlio… l’ho amato a tal punto che in non poche occasioni sono stata proprio io a denunciarlo… e il carcere poteva essere più sicuro della strada”.
Devo dire che più di una volta durante la lettura io stessa mi son dovuta fermare e chiudere la pagina, fermarmi a pensare… a pensare alle vite che si sono intrecciate in questa vicenda umana e sociale, anche se con ruoli e vissuti ben distinti , ma mai divergenti. Però io… io che “mi muovo a tentoni andando a sbattere negli angoli dei ricordi che hanno tracciato una ridda di ferite che per ipotesi dovrebbero formare nel tempo la mia personalità , rendendola più savia” come posso far capire al mondo intero che “Sei dentro di me un vulcano in eruzione/ tracci sentieri eludendo il controllo del mio Io/ sovvertendo pensieri e sentimenti/ ardi dentro il mio cuore/ oh amore, che di nuove emozioni fai vivere il io cuore”.
Quanta delicatezza, quanta sensibilità, quanto bisogno di essere amato, quanto desiderio di “ vivere la vita nella bellezza del mondo” in questi scritti di Claudio, protagonista e interprete dell’intera vicenda! Delicatezza e sensibilità che si rinvengono nelle tinte pastello e nei tratti quasi infantili di un firmamento su cui si libra una figura in divenire tra l’occhio vigile ed il desiderio di poter volare in un cielo ripulito dalla “transitorietà del tempo” che sulla copertina parlano il linguaggio del silenzio.
Ed è così che nella vita di ciascuno di noi “Passano alcune musiche/sembrano esplosioni inutili/ ma in certi cuori qualche cosa resterà” (Jovanotti) e il mondo si fa sempre più piccolo ed a portata di mano quando le persone si incontrano sulle pagine di bei libri e condividono il medesimo sentire.
Come dice scrittore Orhan Pamuk “Chi scrive parla di cose che tutti conoscono ma che non sanno ancora di conoscere. Così scrittori e lettori, usando la fantasia, avvertono quanto tutti gli uomini hanno in comune. La grande letteratura non parla delle nostre capacità di giudizio, ma della nostra abilità di metterci nei panni di un altro”.
Un Vulcano-che dorme-la Vita-/Un luccichio intermittente nella notte-/profonda abbastanza da lasciare/ che esso si sveli-senza condurre alla cecità-/Silenzioso-come Onda Sismica-/mentre le città-scivolano lontano-“ (Emily Dickinson).
Lucia Bonanni |