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Benvenuti sul sito della Libreria Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni
Giorgio Morale

copertina Giorgio MoraleGiorgio Morale
Acasadidio, Anno 2008, 136 pagine - € 14,00 - ISBN: 978-88-6266-117-1
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Un Presidente a cui danno tutte le presidenze, un Centro di volontariato che fa i soldi con gli sfigati, amministratori democraticamente eletti che in ufficio fanno le parole crociate, mentre negli aperitivi si rincorre l’invocazione “Borsa! Borsa!”.
Sullo sfondo una Milano non piu' da bere, con il suo carico di umanita' sconosciuta e con gli intrecci tra le stanze della politica e una Compagnia che ha sbaragliato la concorrenza nel campo dell’assistenza.
In primo piano due madri, una albanese e una italiana; una figlia che viene uccisa e un figlio che nasce.

 

 

 

MoraleGiorgio Morale
Paulu Piulu ( Romanzo),
Pagine 176, € 15,00acquista

Il sogno, l’infanzia, la memoria sono protagoniste di questo romanzo che si muove in una Sicilia che è paese dell’anima
Un racconto che procede senza far caso alla cronaca degli eventi ma a quel magico insieme di visioni, sogni, atmosfere che rappresentano il modo di stare al mondo di ogni bambino, gli strumenti primi per conoscere la realtà. Un romanzo di formazione in cui l’infanzia diviene l’età delle scoperte - di ognuno e di tutti - e rende il libro capace di parlare ad ogni lettore. Sullo sfondo gli anni Cinquanta e la Sicilia, luogo dell’anima; poi gli anni Sessanta e il lavoro in Germania; infine l’abbandono e la solitudine che diventano scoperta dell’amore, degli affetti e della morte.
Giorgio Morale è nato ad Avola (Siracusa) nel 1954. Dal 1972 vive a Milano dove si è laureato in filosofia e ha lavorato nel giornalismo e nella promozione culturale. Insegna lettere negli Istituti di Istruzione Secondaria

Carissimi,

A fine anno, ci piace rinnovare una discussione su
LE RAGIONI DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
attraverso gli autori della Libreria Editrice Urso

Al Centro Culturale Giovanile di Avola
a partire dalle 21,00 del 29 dicembre 2009
con interventi e dibattito aperto agli intervenuti

(evento promosso e organizzato dal libraio editore Francesco Urso
senza ricorrere a finanziamenti pubblici)

ricordando la discussione sulla scrittura del dicembre di 2 anni fa nella libreria di Ciccio, e leggendo dalla newsletter di Ciccio che anche quest'anno ci sara' una discussione su un tema analogo, mi fa piacere partecipare anch'io, pur se virtualmente, all'incontro, inviandovi alcune riflesioni sul tema sviluppate in occasione di un'intervista che e' uscita oggi, che potete leggere cliccando qui:

http://sulromanzo.blogspot.com/2009/12/intervista-giorgio-morale.html

Insomma, come diceva una canzone di tanti anni fa, sempre le stesse cose viste sotto mille angoli diversi.
Colgo l'occasione per augurarvi di cuore un buon proseguimento dei vostri incontri, nonche' buone, ormai prossime, feste.

 Giorgio MoraleGiorgio

 

Ecco l'Intervista a Giorgio Morale

Buongiorno, vorrei iniziare chiedendole a quale eta' si e' avvicinato alla scrittura e se e' stato o meno un caso fortuito.


Ho cominciato a scrivere poco dopo aver imparato, anche se vedo la scrittura come l’esito di una lunga preparazione: all’inizio ci sono le giornate lunghe dell’infanzia e un appuntamento che si ripete, l’attesa di una voce altra da me che racconta; poi la voce altra nasce da dentro di me e sono io che l’alimento, fino a che diventa scrittura.

Se consideriamo come estremi l’istinto creativo e la razionalita' consapevole, lei collocherebbe il suo modo di produrre scrittura a quale distanza dai due?

La scrittura, come la condizione umana, e' plurale. E mi pare che non solo ogni scrittore, ma anche ogni libro, per ogni scrittore, sia diverso dall’altro, che ognuno abbia una storia diversa, per genesi e modalita' di composizione.
Penso che sia l’istinto creativo che la razionalita' consapevole siano delle astrazioni. Perche' io scriva, il mio punto di partenza e' un dato di verita'; un forte vissuto. Puo' essere un sentimento, un’immagine o una storia, un’esperienza significativa: se ne scrivo e' perche' diventa un tema che mi coinvolge totalmente e finisce per abitarmi. Allora tutta la realta' riceve luce da quel “tema”, tutto quello che vivo viene assunto in esso. E intanto che cresce, il tema determina sempre piu' chiaramente uno stato d’animo, mentre fili diversi si organizzano in una storia: mi metto a scrivere quando non posso farne a meno, quando le parole premono per venire fuori, avendo trovato la forma che le dica. e' lo stesso senso di necessita' che cerco come lettore. D’altra parte, come diceva Hafez, “A quel verbo m’inchino che grande una fiamma seconda, / non a quelle parole che gettano acqua sul fuoco”.
Poi arriva il momento di organizzare il materiale in una struttura, decidere come far cominciare e finire il libro, rivedere il linguaggio, e allora occorre anche capacita' tecnica e conoscenza della lingua e della letteratura, della sua storia e dei suoi strumenti. Non so pero' se si possa parlare di “razionalita' consapevole”, in questa attivita' razionalita' e sensibilita' non sono mai disgiunte, anzi la sensibilita' e l’immaginazione sono una componente del mestiere e strettamente impastate con la tecnica, le due cose si sostengono a vicenda. Mi viene in mente quello che dice Franco Loi del suo far poesia: vado in giro, guardo, sento, parlo fra me e me e mi accorgo che penso in endecasillabi.

Moravia, cascasse il mondo, era solito scrivere tutte le mattine, come descriverebbe invece il suo stile? Ha un metodo rigido da rispettare o attende nel caos della vita un’ispirazione? Ce ne parli.

Non vivo dell’attivita' di scrittore, percio' tutte le mattine sono al lavoro e non ho le 4 o 5 o 6 ore al giorno di scrittura, come dichiarano alcuni scrittori. Non so come sarebbe, se anch’io potessi permettermelo, a pensarci oggi le 6 ore quotidiane mi sembrano di una meccanicita' che non s’addice alla mia idea e pratica di scrittura. Ma ognuno impara qualcosa dalla condizione che si trova a vivere e teorizza a partire da essa. Il mio metodo oggi e' dettato dall’urgenza, dal bisogno di restituire un’esperienza della cui trasmissione mi reputo responsabile. Quando e' necessario scrivo per strada, in piedi, sul tram, anche su un foglio per appunti o su un biglietto, e tutto sommato mi pare una buona cosa, che la scrittura prenda aria, che nasca all’aria aperta. Sono appunti preziosi, che nel testo finale costituiranno dei validi dati di realta'. Al momento della scrittura definitiva pero' occorre creare le condizioni affinche' quanto maturato possa essere trasferito sulla pagina, e verificare che la trascrizione sia stata fedele, e questo richiede avere un buon tempo davanti a me. A lavoro finito, leggo il testo nelle situazioni piu' diverse, anche le piu' disturbanti. Se il testo regge alla lettura in queste condizioni, e' accettabile.
Allo stesso modo non mi sono mai preoccupato di quanto scrivere, non mi pongo l’obiettivo di un numero di pagine da produrre quotidianamente ne' di raggiungere un certo numero di pagine per considerare il libro concluso.

Di che cosa non puo' fare a meno mentre si accinge alla scrittura? Ha qualche curiosita' o aneddoto da raccontarci a riguardo?

Io non ho bisogno di molto, non sono e non desidero essere lo “scrittore”, la “torre d’avorio” e lo status di “professionista” non fanno per me, anzi mi iscrivo volentieri tra i dilettanti. Sono una persona che vive e lavora e che, quando ha qualcosa da dire e puo' dirlo, scrive: perche' scrivendo ho la possibilita' di dire e di fare piu' mia la mia esperienza della vita e del mondo, completo me stesso e ho qualcosa da dare agli altri. Certo, c’e' il lavoro, ci sono gli impegni quotidiani, mentre scrivere, soprattutto in alcune fasi, come dicevo prima, richiede raccoglimento e tempi lunghi: e mi piace scrivere in un luogo in cui mi senta a mio agio, in silenzio. Al contempo mi va bene il primum vivere, amo una scrittura che nasca dalla vita e dall’esperienza, che sia strettamente intrecciata con esse e che percio' finisca con l’essere essa stessa un’esperienza importante; e mi va bene anche l’attesa: dover rimandare il momento della scrittura accresce il desiderio di scrivere, mentre il tema si chiarisce, le scene si compongono e le frasi si formano.
Percio' per scrivere mi basta carta e penna. Scrivere con la penna mi da' la sensazione fisica di un travaso da me alla pagina e mi sembra che mi dia maggiormente la possibilita' di seguire il corso dell’immaginazione, dei pensieri e dei sentimenti nel loro formarsi: per me e' il modo di scrivere piu' flessibile che esista. Solo in un secondo tempo trascrivo in word. L’uso del computer permette di verificare immediatamente soluzioni diverse, montare e smontare dei brani e intrecciarli variamente; permette anche di garantire una maggiore uniformita' di tono e di lessico, nonche' di provare che effetto fa vedere la scrittura in un formato simile a quello “stampato”. Se ho bisogno pero' di schierare davanti a me pagine e capitoli, per avere una visione contemporanea di parti diverse di un testo, questo il computer non lo permette e torna di nuovo utile la carta.

Wilde si inchino' di fronte alla tomba di Keats a Roma, Marinetti desiderava “sputare” sull’altare dell’arte, qual e' il suo rapporto con i grandi scrittori del passato? e' cambiata nel tempo tale relazione?

La lettura di altri scrittori e' imprescindibile, se scrivo e' perche' ho letto e amato la lettura e ho visto a ogni lettura un accrescimento della mia esperienza. Alterno sempre letture di scrittori del passato e di scrittori d’oggi. Gli scrittori d’oggi comunicano il sentire e il ritmo del presente, ma veramente presente e' cio' che e' sempre presente, altrimenti la scrittura e' solo cronaca, cosa che passa e invecchia presto. Quello che piu' conta e' la qualita' e lo spessore della scrittura: occorre che io leggendo ricavi non mere informazioni, ma una moltiplicazione di senso e di possibilita' che mi riguardi da vicino, indipendentemente dal fatto che l’opera sia del passato o del presente.
Oggi oltre ai nostri classici ci sono da conoscere anche le opere di letterature non occidentali, in particolare sono molto ricche e in gran parte da scoprire per noi le letterature araba, indiana, giapponese e cinese.

L’avvento delle nuove tecnologie ha mutato i vecchi schemi di confronto fra centro e periferia, nonostante cio' esistono ancora luoghi italiani dove la letteratura e gli scrittori si concentrano? Un tempo c’erano Firenze o Venezia, Roma o Torino, qual e' la sua idea in merito?

Non ho idee particolari al riguardo. Io ho cominciato a scrivere ad Avola e immagino che, se non fossi venuto a Milano, avrei continuato a scrivere lo stesso, anche se certamente cose diverse da quelle che poi ho scritto. e' vero che la citta' permette di avere maggiori contatti; senza che cio' garantisca pero' di avere accesso all’industria culturale. I miei contatti comunque si limitano a un paio di amici, che sono preziosi per la vita prima che per lo scambio letterario. Allo stesso tempo l’incidenza di Internet nel collegare a prescindere dalla localizzazione geografica mi pare crescente, anche se non ancora determinante.

Scrivere le ha migliorato o peggiorato il percorso di vita? In altre parole, crede che la letteratura le abbia fornito strumenti migliori per portare in atto i suoi desideri?

Non posso dirlo, perche' non so come sarebbe stata la mia vita senza scrittura, dato che, anche se poco, ho sempre scritto. Per me scrivere e' un’attivita' del tutto gratuita, ma costitutiva dell’identita' personale. Lo diceva anche Marx: “Il Milton produsse il Paradiso perduto per lo stesso motivo per cui un baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura”. Il contatto con il mercato viene dopo, anche se, vivendo il mio tempo e leggendo cio' che si scrive e si pubblica oggi, non posso non esserne in qualche modo condizionato. Posso dire che scrivere mi pare uno spazio di liberta' personale per tutti, uno spazio di riflessione e di dialogo intimo e meditato con se stessi e con gli altri. Anche nei tempi piu' bui, quando non puo' che dire la disperazione ed e' l’unica forma di resistenza possibile, la scrittura mi pare contenere un germe di fiducia nell’uomo e di speranza nel futuro.

La ringrazio e buona scrittura.

Grazie a lei.


Giorgio Morale e' nato ad Avola (Siracusa) nel 1954 e dal 1972 risiede a Milano, dove si e' laureato in Filosofia e ha lavorato nel giornalismo, nel teatro e nella promozione culturale. Dal 1989 insegna Lettere negli Istituti di Istruzione Secondaria Superiore. Nel 2005 ha esordito nella narrativa con “Paulu Piulu” (Manni editori). Sempre per Manni, nel 2009 ha pubblicato “Acasadidio“. Scrive su “Bottega di Lettura”. Fa parte del comitato di lettura della casa editrice on line vibrisselibri. e' redattore del litblog La poesia e lo spirito.

Perché si legge – perché si scrive?
(A seguito dell'incontro in Libreria Urso del 29 dicembre 2007)
di  Giorgio MoraleGiorgio Morale

Per continuare una discussione

È bello, arrivando ad Avola per una brevissima visita natalizia, essere accolti con l’invito a una discussione in libreria da Ciccio Urso, la sera del 29 dicembre 2007, a discutere su Perché si legge perché si scrive. E mentre intorno impazza la festa, far festa in mezzo ai libri e rivedere alcuni e conoscere altri: Ciccio, Michele, Liliana, Paolo, Corrado, Leonardo, Enzo, Salvatore, Benito, Nino e altri che in questo momento mi sfuggono.

E siccome alle cose belle si vorrebbe dare un proseguimento, e da amanti dei libri le stesse domande ce le faremo sempre, ecco che faccio seguito a quel paio d’ore di discussione con alcune domande e con una mia personale testimonianza sulla lettura.

Pantano, Miucci e Muccio in libreriaInnanzitutto le domande

Per Nino: tu dici che la scrittura è, in accordo con una visione freudiana, pulsione. D’accordo, però: è solo questo? Nient’altro? La psicanalisi ha superato i 100 anni, allora perché non chiamare in causa anche altri  fondamenti come l’inconscio collettivo di Jung o la volontà di potenza di Adler o il trauma della nascita di Ferenczi o le nuove ricerche di Hillman? O quello che, al di fuori dell’ambito psicanalitico, hanno detto filosofi, scrittori e poeti?

Per Enzo e Leonardo: per voi la scrittura è terapia, d’accordo, e salva la vita. Il problema che pongo è: salva la vita anche una medicina, la vicinanza di una pianta o di un animale, una carezza, la benevolenza dell’ambiente… ma la scrittura ha un suo specifico oppure no? E se ne ha uno, qual è?

Per Benito e Salvatore: si scrive per se stessi, voi dite, e chi scrive è il primo lettore di se stesso. Ma qual è il motivo per cui io come lettore non leggo in continuazione solo me stesso ma mi nutro della scrittura di un altro e ne faccio sangue del mio sangue? Perché, oltre l’individuo, c’è l’opera che avanza? A quali condizioni questo si realizza e perché?

Io e la lettura: la libertà è un libro aperto

Il mio angolo, la lampada, il libro. Disteso in perfetta immobilità, il corpo raccoglie la leggera brezza, inavvertita in posizione eretta. La radio rimane sullo sfondo, in attesa che qualcosa desti un picco d’attenzione e la riporti in primo piano. Presto la musica diventa d’intralcio alla lettura. Parole e note si contendono l’attenzione. Le parole, come la musica, vanno prese goccia a goccia, nota per nota.

Tutta la stanza, le pareti, i mobili sono raccolti e concentrano il loro essere nel favorire la mia lettura.

Da certi libri mi sento scoperto. Il libro parla – a me; sa – di me – cose ch’io ignoro. Avverto come un ronzio: la mia voce e un’altra.

Come l’arte, non cerco la lettura, la lascio accadere. È come respirare, mangiare, bere, dormire, defecare, orinare: così è per me leggere.

Mangiare ha i suoi orari, defecare i suoi luoghi, ma di respirare non smettiamo mai. Ugualmente io di leggere. Non perché legga in continuazione, ma perché la lettura agisce in continuazione. Il blank di ciò che leggo si integra con la vita quotidiana e diventa un elemento del vivere: aria, nutrimento, anima.

Leggo sul divano, a letto, in coda al supermercato e alla posta, sul tram e in treno. E soffro l’astinenza come un digiuno forzato.

Poi mi ricordo di Sbarbaro: Non avverto nessuna parentela con chi in treno, invece d’aver l’occhio al paesaggio, non importa se visto le mille volte, lo tiene su un libro, sia pure la Commedia. Ho grande stima di Sbarbaro, allora chiudo il libro – e guardo: il mondo, le persone. Alberi, erbe, qualche cosa.

Arpino diceva che scriveva in piedi. Bello. Bello anche leggere in piedi. Anche i libri, come i pensieri, hanno bisogno d’aria.

Alcuni libri li leggo così: sfoglio e leggo qualche frase. Ad esempio:
Seppellisciti nella terra dell'oscurità. Quello che nasce da ciò che non è stato sepolto è immaturo.
O anche:
Il tuo rinviare le opere al momento del vuoto è una follia dell'anima.
Oppure:
Come ridere? Come abbandonarsi alla gioia se il mondo è in fiamme? Perché sei avvolto nel buio
non dovresti cercare la luce
?.
E penso.  Spesso sono sempre le stesse frasi che mi colpiscono, allora le rileggo. Lo stesso con alcuni libri. Io cresco con loro, loro crescono con me.

* * *

Michele e altri in LibreriaHo imparato a leggere su un tavolo di cucina. Attorno c’erano i gesti sbilenchi, le parole sbagliate, le risposte arcane, la penuria dei pasti, le scarpe strette, i cappotti sui letti, i bicchieri rotti, i calcoli fino all’ultima lira. Però nel libro tutto era bello e a posto. Allora tutto si eclissava, mi eclissavo io stesso, il corpo svaniva. Dentro di me, qualcuno parlava. Stavo con tutti i pori all’erta. Poi il corpo ritornava: le guance ardevano, gli occhi prudevano, la schiena invocava una nuova posizione. Le mani sfogliavano: partiva una nuova avventura.

Ho letto per la prima volta l’Odissea sul terrazzo di casa. Il mare, in lontananza. Il mare visto e il
Mare raccontato. Le bianche lenzuola, il vento le gonfiava come vele. Si parte. In viaggio, nell’azzurro, nel mare di Ulisse.

Il mio amico Orazio riuscì a suscitare in me un altro interesse: la filosofia.
Il poeta ama la lettura dei poeti, ma si nutre della lettura dei filosofi diceva.
Allora le letture dei filosofi presero slancio. Esploravamo la storia della filosofia in un vecchio manuale e poi ci rifornivano di testi alla biblioteca pubblica o in quella del padre di Orazio. Ci addentravamo in ragionamenti che ci portavano a conclusioni insospettate, che ci avvedevamo corrispondere al punto di partenza: allora ci luccicavano gli occhi e coglievamo nel circolo che si chiudeva un segno della nostra intesa. Dall’oscurità traevamo parole che costruivano strade d’incanto e di presunzione; su di esse edificavamo sistemi che tentavano l’assoluto, che il giorno dopo abbattevamo. Così ci pareva di perfezionare il mondo, se non di ricrearlo.
Poi ritornavamo sempre, come al primo amore, alla poesia.

Ogni giorno, nell’ora stabilita per le mie uscite, appena varcata la soglia di casa di Orazio, per me il mondo si faceva meno opprimente, la solitudine svaniva, noia e malinconia perdevano ogni connotazione negativa, anzi esaltavano progetti: di opere e azioni, fughe e rivoluzioni.

Ricordo la Germania dell’emigrazione, la monotonia dei pasti consumati in silenzio, l’eternità dei faccia a faccia che contano i bocconi. Poi guardavo fuori. Dai vetri orlati di vapore, sempre lo stesso tratto di città.

La libertà era un libro aperto.

Ricordo quelle sere d’estate in cui il mondo è in attesa di qualcosa che non arriva e s’invoca la cessazione di tutto. Mi affacciavo alla finestra e guardavo. Tante luci accese, tante ferite nel buio. Era come essere in un sommergibile o in una tenda a ossigeno. Né vivi né morti, sospesi fra due regni, come gli eroi greci morti senza sepoltura.

Come dice Paula Fox, la libertà era una biblioteca pubblica.

Ricordo i primi tempi a Milano. Leggevo al buio, sul tram, per strada. Leggevo male, perdevo il segno, ricominciavo daccapo. Famelico.

* * *

Ripenso a tanti libri letti di corsa, pensando: Ci sarà una seconda volta. Eppure, quando?

Leggo da quando avevo cinque anni, ma ci sono tantissime cose che non ho letto e tante cose che ho dimenticato. A volte mi sembra che dovrei ricominciare a leggere tutto daccapo.

Come ricominciare la storia del mondo, a partire proprio da Assiri e Babilonesi.

Mi vedo leggere a un tavolo, mentre cade la pioggia. L’imposta del balcone è aperta. Posso guardare fuori: un pezzo di cielo e la casa di fronte. Leggo leggo e quando mi fermo avverto brividi di freddo. Mi aggiusto sulla sedia e muovendomi faccio traballare il tavolo. Godo di questa posizione abituale e mi compiaccio di prolungarla. Il letto è sfatto, ma non in disordine, si affonda quanto basta per indicare il mio passaggio. Davanti a me stanno pile di libri. Leggo leggo e di frase in frase aspetto una rivelazione.

Maestri dell’altro mondo, 3 / Tu Fu, Coppe di giada
di Giorgio Morale

Il desiderio ardente di un’epoca di pace

Un poeta canta meglio quando è calpestato
(antico proverbio cinese)

Arriva la primavera, la natura si risveglia, il sangue circola più veloce nelle vene e il poeta canta l’“antica festa crudele”.

“Molto mi piace la lieta stagione di primavera…
Ed altresì mi piace quando vedo…
mazze ferrate e brandi, elmi di vario colore,
scudi forare e fracassare…
Io vi dico che non mi dà tanto gusto
mangiare, bere o dormire,
come quand’odo gridare “all’assalto”…
e odo gridare “aiuta, aiuta!”
e vedo cader pei fossati
umili e grandi tra l’erbe”.

A cantare così è il poeta-feudatario Bertran de Born. Tu Fu, il poeta-saggio, canta diversamente.

“Non comprendiamo perché mai l’imperatore,
pur avendo terre ricche e belle e vaste,
debba ordinarci di marciare alle frontiere
per conquistare altre terre, altro potere.
Noi abbiamo soltanto l’amore della famiglia
Ma dobbiamo rinunciarvi per l’orrore della guerra”.

Oppure:

“Laggiù, ho sentito, si è abbattuta la catastrofe
Neppure cani e polli al massacro sono scampati
Nella mia capanna diroccata sui monti
Qualcuno forse alla finestra sta spiando
Tra le radici dei vecchi pini divelti
Sul suolo gelido sono ancora integre le ossa”.

E altrove:

“Nessun suono di battaglia nei campi incolti sotto un cielo terso
Quarantamila soldati valorosi in un solo giorno sono morti
Sulla via del ritorno le orde barbariche del sangue nettano le frecce
Di nuovo tra barbare canzoni si ubriacano sulla piazza del mercato
Mesta la gente nella capitale volge lo sguardo a nord
Giorno e notte sperando che l’esercito imperiale ritorni”.

*  *  *

Il desiderio di Tu Fu è un altro:

“Di nuovo mi tormenta senza tregua
Il desiderio ardente di un’epoca di pace”.

La natura, sempre potente, in lui appare spesso impastata di fango e sangue.

“Monti coperti di neve, fiumi gelati, campi spazzati dal vento
Sono nere le folate di fumo sono bianche le ossa dei soldati”.

Anche la bella stagione, quando arriva, non porta con sé l’attesa gioia di vivere:

“Racconta storie non vere il canto gioioso degli uccelli…
Offendono i miei versi l’affetto di due cingallegre
Quale ragione di vita mi giustifica?...”.

Il Poeta dà voce alle domande della gente comune:

“I funzionari del distretto rapidi esigono le imposte
Ma i soldi per pagarle dove li prenderemo?”.

“E se anche tu, signore, volessi interrogarci
Come può un coscritto mostrare la sua rabbia?”.

“Signore, hai visto sopra il Lago Verde
Le bianche ossa che da tempo nessuno raccoglie?”.

“Da quando ho inviato l’ultima lettera a casa
Sono già trascorsi più di dieci mesi
Tremo per le notizie che potrei ricevere
Riuscirebbe il mio povero cuore a sopportarle?”.

“Di quante vite si è compiuto il destino?
La mia famiglia sola è rimasta unita?”.

Questa è la domanda della nuova sposa:

“Di sera le nozze, all’alba l’addio
Non è troppo rapido, non è troppo in fretta?”.

Questa è quella della bella donna:

“I miei fratelli andarono al massacro
Che vale essere funzionari di alto grado?”.

E questa quella del padre che ricorda il figlio bambino:

“E’strano come in tua assenza le stagioni si affrettino
Dei tuoi progressi graziosi chi sarà spettatore?”.

Quando parla d’altri, Tu Fu parla di sé; e sa parlare di sé come se parlasse d’altri.

*  * *

L’interrogazione è il gesto linguistico più ricorrente in Tu Fu ed esprime la meraviglia infinita di quest’uomo che tanto ha vissuto di fronte a quanto tra gli uomini possa succedere. Ci parla di un’età di disordine e incostanza. Ma quale epoca non è di disordine e incostanza?

“Disordine e incostanza in che conto metterli?”.

“E alzandoci in volo senza accettare regole a che cosa miriamo?”.

“Chi vuole in tempi così densi di pericoli
Con slancio schiudere il proprio cuore?”.

“Nel fluire della vita che score inarrestabile
Chi può dire di aver vissuto a lungo?”.

“Sono triste, perché sono triste?”.

“Come posso per un giorno intero tener dietro ai miei mesti pensieri?”.

“Chi dopo tanto disordine vorrà tornare indietro?”.

Sono domande che, senza essere retoriche, non esigono risposta. Il silenzio le accoglie e le amplifica. Benché sia fedele all’ordine costituito e abbia vissuto anche vicino al potere, Tu Fu sa, con Confucio, che, se c’è disordine e incostanza, il potere ne è il primo responsabile.

Quando nell’uomo di potere prevale l’interesse personale, si crea una divaricazione insanabile tra il potere e la gente, l’esecuzione formale di un dovere e il rispetto della natura umana, il palazzo e l’umile dimora, la ragion di Stato e la sfera dell’individuo e della famiglia, la volontà di potenza e le regole del vivere civile, la guerra e la pace.

Alla fine a essere questionata è la natura umana. I suoi limiti invalicabili. La guerra appare una legge della storia.

“La morte non m’ha voluto
Ma ora rimane un problema:
Come, come vivere?”.

“C’è da chiedersi dove mai si possa
trovare pace e felicità;
a casa o al fronte non c’è differenza…
il mio cuore spezzato deve andare
anche se vecchio verso l’ignoto”.

“Io triste penso nella dolce notte
che nel mondo tutto maggiormente dipende
dall’atroce guerra che dalla pace”.

“Quando domina il principio maschile,
come possono le cose non diventare
sempre peggiori?”.

 

*  *  *

Le domande di Tu Fu sono contagiose. La guerra non era allora e non è oggi comprensibile per l’umanità. Cos’è cambiato dal 770 a oggi? Quante delle domande di Tu Fu hanno trovato risposta? Quante delle 30 guerre in corso oggi nel mondo hanno una loro ragion d’essere?

Tu fu si contende con Li Po il titolo del più grande poeta cinese. Delle sue poesie, circa 1500, non esiste una edizione italiana. 34 poesie sono inserite nell’antologia Poesie di pace cinesi pubblicata da Guanda nel 1975, 38 nel volume collettivo Li Po, Tu Fu, Po Chu’i, Coppe di giada, edito dalla Utet nel 1985. Nessuno dei due libri è più in commercio. Così Due antichi poeti cinesi: Tao Yuan-Ming e Tu Fu di Sheiwiller, del 1988, che contiene 18 poesie. Parecchie delle poesie presenti nelle tre raccolte sono le stesse. Ciò vuol dire che in Italia possiamo leggere al massimo circa 50 sue poesie, a cercarne qualche raro esemplare nelle biblioteche.

Tu Fu è vissuto tra il 712 e il 770, nell’epoca T’ang, definita aurea o classica per la poesia cinese: più di 2000 poeti, di cui vari di prima grandezza. Ha faticato a inserirsi a corte come funzionario e ne ha parlato con gli accenti che i nostri poeti cortigiani Ariosto e Tasso hanno nei momenti più veri:

“Per due anni ospite della capitale dell’Est
Ne ho abbastanza di astuzie e di intrighi”.

Ha sofferto problemi economici, spostamenti da una città a un’altra, disordini politici e rivolte, persino prigionia. Pare che notizie sulla vita di tutti i giorni come quelle che sono presenti nelle sue opere siano abbastanza rare nelle storie ufficiali del tempo. Leggo che in Cina è chiamato “il poeta santo” o “il poeta saggio”; che è stato uno sperimentatore di temi, metri e registri e che ciò lo ha reso un maestro in Cina e in Giappone.

So che non potrò mai apprezzare metri e registri di Tu Fu nella lingua originale, non potrò mai conoscere il Poeta compiutamente, per questo ho appuntato la mia attenzione sul blank.

Per farmi un’idea dell’originale però ho letto il saggio del grande sinologo statunitense Ernest Fenollosa, L’ideogramma cinese come mezzo di poesia, la cui lettura fu per Ezra Pound, che ne curò la pubblicazione nel 1936, una rivelazione.

“La poesia cinese” egli dice “ha il vantaggio unico di combinare questi due elementi. Parla simultaneamente con la vivacità della pittura e la mobilità dei suoni…
La notazione cinese è qualcosa di più di simboli arbitrari. E’ basata su una vivida pittura stenografica delle operazioni naturali…ha una certa qualità di sequenza cinematografica…la maggior parte di queste radici ideografiche hanno in sé un’idea verbale di azione
La forma transitiva della frase cinese… corrisponde esattamente a questa forma universale di azione in natura. Ciò avvicina il linguaggio alle cose e, nel suo marcato appoggio sui verbi, innalza ogni discorso quasi al livello di poesia drammatica.
Le parole cinesi sono vive e plastiche come la natura, poiché cosa e azione non sono formalmente separate. La lingua cinese naturalmente non conosce grammatica.
Le lingue oggi sono sottili e fredde, perché vi infondiamo sempre meno pensieri. Per motivi di rapidità e di precisione siamo costretti a restringere il senso di ogni parola ai limiti estremi… in questo il cinese ha i suoi vantaggi. La sua etimologia è sempre presente, conservando il suo impulso creativo visibile e operante…
In cinese la visibilità della metafora tende a elevare questa qualità al sommo grado”.
Vivida pittura, appoggio sui verbi, poesia drammatica, visibilità della metafora: tutto questo traspare nelle poesie di Tu Fu anche nella traduzione italiana. Ma è soprattutto la semplicità, la densità e l’umanità della sua parola ricca di compassione, che ci parla come se nascesse da noi stessi, che me lo rendono uno dei poeti più cari.

COMPITO: racconta la tua estate
Siamo stati in Grecia tra luglio ed agosto del 2006 su un progetto proposto nella nostra
Mailing List.
Prima della partenza molti ci chiedevano informazioni, con preoccupazioni tipiche dei viaggi tradizionali; alcuni, poi, non coglievano il senso del nostro desiderio di avventura e del nostro esser privi di schemi mentali, della nostra voglia di viaggiare senza la necessità di prenotare alberghi o case vacanze (vista anche l'offerta sovrabbondante di strutture di questo tipo in tutto il territorio greco); tanti, infine, avrebbero sicuramente voluto far parte della piccola carovana e sappiamo che sono stati con noi col pensiero.
Altri come i nostri amici olandesi Ans Rademakers e Paul Oord ci avevano anticipato nel territorio greco, andando a Samos.
Giorgio Morale ci aspettava nei pressi di Monte Olimpo, ma, non essendoci stata possibilità di incontro, ci anticipava qualche sua impressione di viaggio con brevi messaggi sul cellulare.
Nello scritto che segue l'amico, come in un ipotetico compito a scuola, parla della sua vacanza in Grecia (mentre noi, presi da mille impegni, non siamo riusciti ancora a mettere assieme le centinaia di fotografie che abbiamo fatto...).
Non sappiamo se ritorneremo ancora a proporre viaggi "dis/organizzati", ma certamente noi continueremo a viaggiare in maniera originale e personale e l'esperienza di Giorgio rientra in questa logica.
Buona lettura
Francesco Urso

Appunti di viaggio: in Grecia

di Giorgio Morale

vacanze in GreciaArriva l’estate, la grande stagione, e ci disperde. Ci riprende la nostalgia, per il nomadismo, per il mare.
Per un buon viaggio ci vuole un sano stoicismo: siamo cittadini del mondo. Il nostro destino ci raggiungerà ovunque. Una visione antitragica.
Dobbiamo prendere distanza dalle nostre cose, la casa, gli affari, i genitori anziani.
Fino alla vigilia della partenza mi chiedo con Elizabeth Bishop se “E’ la mancanza d’immaginazione a spingerci nei luoghi immaginati anziché restare a casa?
E se Pascal sbagliasse sullo starsene seduti buoni buoni nella propria stanza?”.
Il primo giorno andiamo con Demetrio in un ristorante. Il cameriere porta una bottiglia di vino e spiega qualcosa che Demetrio ci traduce. E’ l’omaggio di un amico che lui aveva salutato prima di prendere posto.
“Questa è l’usanza” dice. “Quando qualcuno arriva, un conoscente gli fa un omaggio”.
In un ristorante all’aperto, la musica. A un tratto parte la danza, il cerchio. Figure geometriche dei corpi, decorazione in movimento. Le antiche kore, la grazia.
Il convivio. La portata è al centro del tavolo, ognuno prende la sua parte.
La vita all’aperta, il passeggio.
Strana la parlata. Il tono e la cadenza sono quelli del Meridione d’Italia e mi sembra di coglierne un senso familiare, però quando pongo attenzione alle parole la lingua mi diventa inaccessibile.
Fusione degli elementi del paesaggio, terra e acqua mescolate insieme. Alberi sulla riva del mare, montagne in lontananza, una diversa gradazione d’azzurro.
Finalmente! Un mese lontano. Da cronache di nulla e resoconti di zeri, maneggi politici e spostamenti millimetrici di potere. Dove niente potrà raggiungermi, se non guerre totali o cataclismi naturali.
Un mese a seguire le evoluzioni della luna, aspettando come un evento il suo sorgere ritardato ogni giorno. Dalla veranda di casa o dalla riva del mare.
A Iolco. Pensa, da qui partì Giasone, salpò la nave Argo. La cultura, la memoria: siamo fatti anche di questo.
L’onda sui sassi. Lo stesso suono da millenni.
Sole, mare, vento. Questo nei giorni, questo nei discorsi.
La sabbia bianca, il mare azzurro. A Milospotami, sull’Egeo. Adesso capisco l’espressione “Egeo ondoso”.
A Meteora. Un prete ortodosso ci spiega che le pietre sono cadute dal cielo. O forse, penso io, è la terra che s’alza in punta di piedi per vedere meglio il cielo. O forse è sempre la stessa storia della terra che dà l’assalto al cielo.
Bello il nartece, gli ori e le decorazioni, il lampadario e gli affreschi. Il giudizio universale, la storia di Cristo e la vita dei santi. Tutto lo spazio pieno, non un centimetro di vuoto.
Non c’è una via, persino sperduta in montagna, che non abbia una cappellina con le sue icone. I fedeli s’inchinano, si segnano, baciano le immagini, accendono un lume o una candela.
Quale iconoclastia? Neppure un cattolico venera tante immagini. Quale scisma? Anche qui ori e decorazioni.
Verso Delfi. Dappertutto vedi o la montagna o il mare. Spesso l’una e l’altra. E sui paesi domina la mole arrotondata di una basilica bizantina.
Erica ha un’intuizione.
“Ecco a cosa si sono ispirati per il teatro greco”.
“A cosa?”.
“Ai fianchi della montagna”.
E indica le insenature che si aprono nelle valli.
A Delfi. Non so cosa mi colpisce di più: la storia – e l’arte – o il paesaggio.
Gli dei sono andati, però molte cose divine ci hanno lasciato.
A un certo punto, scendendo dallo stadio, vediamo formarsi un mulinello d’aria che solleva una colonna di polvere e attraversa il piccolo spiazzo davanti a noi. Un prodigio?
La domanda di Erica, dopo essere usciti dal museo di Delfi.
“Tutte queste cose, le abbiamo capite davvero? Cioè, siamo veramente sicuri di capire quello che queste opere vogliono dire?”.
Semplicemente andare, per guardare attorno. Questo è già soddisfazione sufficiente.
La strada apre due braccia infinite e mi chiama avanti.
I tralicci, giganti con le braccia tese, allineati nella pianura.
Mossi dagli spostamenti d’aria provocati dalla circolazione nei due sensi di marcia, gli oleandri delle aiuole spartitraffico ondeggiano come per una riverenza.
Dappertutto montagne, il mare sembra un lago. Ma è vivo, e s’intuisce uno sbocco, da qualche parte.


* * *


Verso l’Olimpo. Una nuvola staziona sul monte, due aquile volteggiano.
Prima le case, i cui tetti spioventi la prospettiva ci offre uno sull’altro per l‘irregolarità del terreno; poi la vegetazione lungo i pendii, di diverse tonalità di verde, poi le montagne, a coni e piramidi, e infine il cielo. Questa varietà, nelle località di montagna, è gradita all’occhio e alla mente.
Quando scendiamo dalla macchina e ci dirigiamo verso uno spiazzo con una folla di tavolini e persone, Demetrio sta già stringendo le mani a delle persone. Quando arriviamo fa le presentazioni. Aggiungiamo delle sedie e un tavolo. L’ambiente ferve come un alveare. Noi ci stupiamo.
“Quanta gente! E parlano tutti”.
“Qui non è importante consumare, l’importante è il dialogo” dice Demetrio.
Per un po’ parlano in greco, poi Demetrio traduce.
“Il signore ha settantotto anni e lei sessantasei e sono sposati da quarantotto. La signora racconta che quando lei e il marito bevono un caffè, lei dice ‘Che sia l’ultimo’. Vuole dire che è contenta della vita vissuta con lui, e che se anche la vita finisse, lei sarebbe contenta di quanto ha avuto: è un modo per dire che è ancora innamorata, come lo era da giovane”.
Poi la signora mostra un piccolo dolce e spiega che è stato distribuito in chiesa per ricordare la riconciliazione della nazione nel ’75. Allora il signore, che si chiama Yorgos, ricorda alcuni passaggi della storia greca del Novecento. Vede il nostro interesse per l’argomento e commenta: “I Romani avrebbero dovuto portare una lingua unica, ma non ci sono riusciti. E già prima non c’era riuscito il grande Alessandro. Speriamo che non ci riesca Bush con le sue bombe”.
Dopo un po’ ci invitano a mangiare a casa loro. Qualcuno di noi è indeciso, ma poi qualcuno dice che un rifiuto li offenderebbe. Demetrio spiega che deve andare via presto per visitare dei parenti e la tomba del padre in un paese vicino, allora si arriva a una mediazione: accettiamo l’invito, ma solo per un piccolo spuntino. Ci avviamo subito.
Davanti a casa loro, attorno a un tavolo. Ci sediamo su una panca, che guardiamo con curiosità, visto che è chiaramente tratta da un tronco. Demetrio ci traduce la spiegazione del signor Yorgos.
“L’ha fatta con le proprie mani suo padre, col tronco di un platano che era stato colpito da un fulmine”.
La signora ci prega di accettare un piccolo dolce, cosa che noi facciamo volentieri. Appare dopo poco portando un piatto con delle fette di dolce. Fatto con le noci dell’albero che ci fa ombra, spiega. Nives chiede quanti anni ha l’albero e il signor Yorgos dice almeno duecento. Ricorda che il padre gli diceva che aveva più di cento anni il padre, quando lui era piccolo.
Poi porta un altro dolce e ne dà una porzione per uno e due porzioni a Erica.
“Per te e per il figlio che verrà da te” le dice.
Dopo si riempiono i bicchieri e si brinda – con acqua.
“Che voi possiate essere felici come lo siamo noi due” è l’augurio della signora.
Dopo ci guardiamo attorno ammirando il monte e la campagna, allora la signora dice che finché starà bene il signor Yorgos lì sarà sempre estate. Il signor Yorgos ci invita ad andare a vedere l’orto, e ci mostra pomodori, peperoni, zucchine, patate, fagioli, cipolle, e gli alberi da frutta: noci, fichi, susine. Al ritorno altre vivande sono sulla tavola: insalata, formaggio, frittata, polpette. La signora parla delle figlie e si mostra dispiaciuta che una di esse si sia sposata a diciassette anni.
“L’ho goduta poco” dice, e le si inumidiscono gli occhi.
Nives, che le è seduta accanto, le fa una carezza.
Al momento di partire ci riempiono di doni. Come pensandolo sul momento, ci rincorrono dandoci ora una cosa ora l’altra: un sacchetto di noci, una rametto di susine, a Erica un bocciolo di rosa. La signora piange abbracciandoci. Ci accompagnano per un po’ sulla strada. Prima si ferma la moglie, poi il marito.


* * *


Quanto conta che un monte si chiami Olimpo; una valle, Tempe; un fiume, Peneo; una terra lontana, Eubea?
E’ dunque vero quanto dice Hoelderlin:
“Grecia felice! Casa di tutti i celesti è dunque vero ciò che da giovani abbiamo udito?”.
Per un mese – essere pietra, essere acqua.
Il senso dell’ora viene meno. Guardiamo un tratto di mare e cielo, e potremmo essere in qualsiasi luogo.
Demetrio dice che ci sono 42°. Vicino al mare non ce ne accorgiamo.
Salonicco è un libro aperto. Puoi leggere le sue strade come capitoli di storia.
Di fronte alla più grande moschea dei Balcani. Una costruzione cadente, pericolante, recintata.
Di fronte a un’altra moschea. Il minareto è spezzato, bambini giocano sotto il portico. Quasi una volontà di cancellar una presenza. E vicino una chiesa bizantina. La fede vinta e la fede trionfante.
“Che spazi aperti!” dice Erica.
E Nives a me:
“Hai occhi più grandi”.
La luce è visione. Mi sembra di vedere meglio.
Il paesaggio lo fa il colore. Alcune fasce di colore, il verde intenso degli alberi riflesso nelle acque, separato dalla fascia rossastra della riva e dominato dall’azzurro del cielo: ecco cosa fa del lago di Plastira uno dei luoghi più belli che io abbia visto.
Una sera andiamo ad ascoltare un quartetto in cui suonano due amici di Demetrio, Costantino e Zafirula, a Kato Gatsea. Il concerto è sul molo. Alle spalle dei musicisti i riflettori illuminano gli scogli; la luna, il mare. E’ bello, nei brani solo strumentali, sentire il pubblico cantare sottovoce.
So dire poco dell’Acropoli. Sono intimorito dal luogo, abbagliato da luce e pietre, stordito dal caldo, confuso dal vento.
A Sesklo e Dimini, nei siti neolitici tra i più antichi d’Europa. Non ci sono visitatori né segni d’uomo. Vallate rigogliose separano montagne che sembra di poter toccare allungando la mano. Pare di essere in vetta al mondo. Il silenzio è sottolineato dal vento. Viene da pensare che questo vedeva l’uomo prima della storia, e il pensiero dà le vertigini. Poi penso alle variazioni climatiche, alle variazioni di flora e fauna, a come quindi tutto allora era diverso, e lo smarrimento è ancora maggiore.
Succede gli ultimi giorni. Soddisfatta la prima ansia di girare e girare, finalmente ci abbandoniamo al riposo.


* * *


Si festeggia il centenario della fondazione di Nea Anchialos. (Ecco cos’erano quelle prove di danze che abbiamo visto nei giorni scorsi). Centinaia di persone assistono alle celebrazioni ai giardini pubblici. Sono sedute a semicerchio attorno a un palco, come nel teatro antico. Prima c’è un oratore, poi uno spettacolo ripercorre la storia, alternando proiezioni, scene dialogate, letture, canzoni e balli. Demetrio traduce e sintetizza per noi. Poi il sindaco invita a continuare altrove la festa e augura buon divertimento.
Ci si trasferisce in una strada perpendicolare al lungomare. Una strada larga occupata da tavolini affollati. Ci riteniamo fortunati per essere riusciti a trovare posto. La panettiera amica di Demetrio ci offre un dolce: lo depone al centro del tavolo e noi lo dividiamo. Ci sono due suonatori e una cantante, un donnone estroverso dai lineamenti marcati e piacenti. Si sposta per tutto lo spazio, a volte coinvolgendo qualcuno nel canto, a volte rivolgendosi a un ascoltatore. Anche a me capita di essere baciato da questa fortuna.
Davanti ai suonatori c’è lo spazio delle danze. Demetrio dice che anche lui da giovane sapeva ballare. Ha appena finito di parlare che ce ne dà un saggio. La sua amica panettiera viene al nostro tavolo, lo prende per mano e lo trascina in pista.
Si sente il rumore di un bicchiere rotto.
“Quando il divertimento è al massimo, c’è sempre qualcuno che rompe qualcosa” ci viene detto.
Da un po’ noto un giovane con un’aria da malandrino. Pantaloni neri, camicia bianca, scuro, con capelli nerissimi lisci. Quando si muove, quando guarda, quando accenna un passo di danza, sembra sempre che lanci una sfida. Per lo più staziona con un gruppo davanti all’ingresso del locale. E’ da lì che è venuto il rumore di vetri. Poi vedo il giovane avviarsi a passo di danza verso quelli che ballano ed entrare nel cerchio. Poi a uno a uno lasciano tutti la danza, finché rimangono in pista solo dei bambini e il giovane malandrino. Questi con un gesto di stizza lancia una piccola bottiglia di plastica per terra.
Due signori anziani, con l’aria di persone autorevoli nel paese, vanno a fargli qualche rimostranza. Interviene anche un giovane e tra questo e il malandrino cominciano a fioccare pugni. Si aggiungono altri alla colluttazione e un groviglio di corpi barcolla alle spalle di Nives. Faccio appena in tempo a dirle “Alzati, presto!”, che i litiganti si abbattono sulla sedia appena vuota e sul tavolo a cui eravamo seduti, facendolo rovesciare. Una sedia mi cade sulla gamba e mi lascia una lieve ferita. Tutta la gente s’è alzata e s’è creato un vuoto attorno ai litiganti, che infuriano con pugni e calci. La musica però continua a suonare, finché Nives ed Erica corrono dai musicisti, richiamando a gesti la loro attenzione e facendoli smettere.
“Sono degli albanesi che hanno provocato” spiega Demetrio mentre ci allontaniamo. “Sono in tanti in paese, ma non si sono integrati”.
Poi continua a ripetere:
“E’ la prima volta che succede una cosa del genere. Qui non ho mai visto niente di simile”.
E nei giorni seguenti:
“Mi dispiace per quello che è successo”.
Gli chiedo cosa si dice nel paese.
“Quegli albanesi hanno finito di vivere” dice. “Nessuno gli darà più lavoro”.
Noi siamo dispiaciuti della piega presa dagli eventi.
Poi un giorno Demetrio ci dice che la gente del paese ce l’ha con i greci che hanno partecipato al litigio.
“Non avrebbero dovuto rispondere alle provocazioni”.
“Mano male” dico io.
“Sì, forse è meglio così”.

(Milano 10 settembre 2006)

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