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GIARDINO ZEN AVOLA
SPAZIO A CURA DELLA
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I "PERIPATETICI DI ELORO"

(da https://plumvillage.org/news/in-memory-of-thay-phap-y/)


Cara famiglia spirituale,
con grande rammarico si annuncia che il nostro caro fratello italiano Thay Phap Y è scomparso venerdì scorso 7 febbraio del 2014.

Chan Phap YEra un insegnante per tutti noi, il nostro fratello maggiore, il nostro "Venerabile Thich Chan Phap Y" e "Papi" per molti. Era un personaggio colorato, un membro impegnato appassionatamente del sangha, profondamente impegnato a Thay e alla comunità nei suoi 14 anni di fratellanza nel villaggio di Plum.

Bhikshu Thich Chan Phap Y
Vincenzo Chiofalo
26 gennaio 1939 - 7 febbraio 2014
9a generazione della linea Lieu Quan Dharma
Seconda generazione della scuola del villaggio di Plum

Thay Phap Y, (il suo nome significa “Vera Mente Dharma”), aveva 76 anni e era stato malato per molti anni, ma aveva continuato a partecipare pienamente alla nostra vita monastica, alle visite didattiche e ai 90 giorni di Ritiro invernale.

Aveva avuto alcune settimane di cattiva salute e non aveva mangiato bene. Venerdì mattina ha cominciato a provare difficoltà respiratorie e i suoi fratelli si sono tenuti accanto a lui nella sua stanza. Ha avuto insufficienza cardiaca mentre è stato tenuto nelle braccia dei suoi fratelli e il suo respiro si è fermato. I servizi di ambulanza arrivarono alcuni minuti dopo; i loro tentativi di risuscitare non sono riusciti.

 

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    zenUn probabile Diario della Memoria
    ANNOTAZIONI PERSONALI di  Chân Pháp Y
    (riprende la collaborazione di un caro amico di cui avevamo pubblicato in passato tante note.
    Per saperne di più)

    ***

     
    Questo non è un diario, come usualmente s'intende, ed è destinato alla lettura di chiunque voglia leggerlo con distacco e senza pretenzioni critiche. Ma soprattutto è destinato a me stesso. In realtà mi sto fabbricando una sorta di specchio per seguire da una prossimità immediata l'espandersi delle mie rughe. Sin da ragazzo ho rifiutato di tenere un diario poiché mi bastava scrivere articoli per un quotidiano, poesie e racconti. Scrivevo almeno due o tre ore al giorno lasciando il resto del mio tempo alla lettura e allo studio per quanto non facessi differenza fra le due attività. Leggevo molta filosofia, storia e quella che allora si chiamava etnologia. Ero entusiasticamente coinvolto in attività politiche.
    Mi accompagna in questa decisione di trascrivere una memoria per me stesso la lettura di alcuni libretti di Schopenhauer scritti in tarda età. Al liceo era un autore ostico e, dopo, mi fu sempre difficile digerire le definitive asserzioni di questo grande pessimista che tale, a guardare la sua dorata vecchiaia, veramente non fu. Molti anni dopo, inoltrandomi nelle selve intricate del Buddismo, mi venne l'idea balzana di raffigurarmelo nelle vesti di un retrogrado monaco Theravadin drogato dal concetto di sofferenza come inalienabile verità universale. Se la sarebbe cavata senza il suo circondario di estetiche figuranti? Infatti conosceva la gioia.
    Amo tuttavia la sua indiscutibile saggezza, il suo sottile sense of humor, il suo spirito immensamente percettivo; gli invio la mia energia di gratitudine.
    Imbevuto di materialismo marxiano, di eudemonismo epicureo e di Spinoza, sono arrivato a comprendere di nuova luce, e ad amare, Nietzsche, un altro falsificato dalle ideologie dominanti. Ritorno a un amore indesiderato che ha per nome Platone, spinto anche qui da altri quali Alain Badiou e Roger Penrose; mi aggiro anche nei dintorni di una ripetuta analisi di Hobbes e di Carl Schmitt: il passo del granchio della senilità? No, ne sono certo, ma una riflessione piuttosto libera dalle emozioni degenerative dell'età giovanile quando tutto ciò che non era colorato di rosso, doveva necessariamente essere nero: un manicheismo tanto assurdo quanto imbecille. Erano gli anni delle rivoluzioni di petto o meglio della fede inconsulta nella rivoluzione armata permanente. Gli eroi inspiratori avevano i nomi esotici di Mao Zedong, Ho Chi Minh e Che Guevara. Il concetto di compassione ci era alieno e ci bruciammo l'esistenza, la migliore gioventù, come qualcuno la definì, sul fuoco inquinante delle ideologie, anzi dell'Ideologia. Pasolini lucidamente ne comprese l'infernale pericolo ma non fu ascoltato. Restò coerente, fino alla fine, Albert Camus.
    Di Guevara ritenemmo il misticismo rivoluzionario senza tuttavia comprendere i due fattori fondamentali della sua azione: primo, in positivo, che l'amore, e soltanto l'amore, nutre un vero spirito rivoluzionario; secondo, in non positivo, la grande umanità che ha detto basta! Era una grandissima illusione di un idealismo assolutamente astratto. La grande umanità in rivolta non è mai esistita, né ancora oggi esiste; qualcuno tenta di rinnovarne il mito chiamandola moltitudine, un termine ancora più fuorviante poiché esso non definisce alcuna entità reale. Non so se Spinoza oggi userebbe ancora codesto termine. Oggi l'unica moltitudine esistente, piatta e anonima, è quella che alimenta il flusso umano dei supermercati, dei consumatori di false informazioni televisive e dei surfers d'Internet; mi si dice che Facebook è in linea d'arrivo al traguardo della globalizzazione delle fughe.  A questa massa amorfa di bipedi manca il minimo senso di compassione e di autocompassione, e quello di amore come pratica portante dell'interconnessione, dell'entanglement delle coscienze.
    Affogammo tutti, almeno quelli della mia generazione e della seguente, nell'oceano di quella grande illusione.

    Oggi, nel piacevole corollario della mia età e a due passi dal dire l'addio definitivo ai miei libri, sento il bisogno di esternare anche i miei ultimi desideri che non sono senili ma l'espressione di una forte volontà di realizzare un sistema di vita comunitaria radicato in convinzioni profonde spoglie di ogni ideologia, anche non politica, di falso spiritualismo, d'iniquo misticismo e pertanto gravido di ascetismo e di rinuncia. Sarò più preciso nei giorni a venire, secondo gli umori del momento; voglio prima parlare del mio stato presente e delle cause che l'hanno determinato. Ne parlerò per metafore e per immaginazione narrativa.  Parlerò anche di mediocrità e di mendicità mentale ovvero dell'abdicazione dalla morale. Tutto per la grande soddisfazione egoistica dell'immagine che lo specchio mi riflette.

    ***

    Gli stivali di gomma made in China s'ingolfano nella melma di creta e neve mentre tento di arrancare questa specie di collina d'argilla e calcare fitta di pini e di querce atrofizzate. Attorno, vigneti a vastità d'orizzonte. Corvi e falchi disegnano cerchi nell'aria apblankemente senza scopo, solo per gioco. Forse gli uccelli sanno liberarsi per poco dall'utilitarismo della caccia o forse è solo un esercizio per i muscoli delle ali. Ne seguo il volo per qualche istante, poi abbandono per non perdermi nella cabala aviaria. Gli odori della terra intrisa di pioggia, suolo fangoso che macera foglie autunnali, impregnano l'aria di fine dicembre, la satura, la rende palpabile, viva. In quest'aria solida di freddo cerbiatti sgusciano fra le vigne defoliate in fuga da altre entità armate di fucili. La vita ha senso solo per lo stomaco. Tutto ciò che si muove è buono da mangiare recitavano gli antichi scritti indiani post upanishad, quando l'haimsa venne, con insipienza quasi cattolica, sublimata lapidariamente con uccidere per il sacrificio non è uccidere. Entro nella famigerata Legge di Manu ma ne esco subito poiché oggi la violenza ha un'altra faccia, un volto mobile che si adatta a tutte le situazioni ma che, almeno per quanto riguarda gli animali, è stata sublimata dal consumismo forzato di carne. L'abbattimento industriale di milioni di vitelli, capre, cavalli e altro non può essere considerato violenza da chi ne consuma la carne né da chi vorrebbe consumarla, ma non può. Arrivo alla mia stanza, mi ripulisco e siedo dopo avere preparato un tè verde giapponese, una delle mie tante debolezze, davanti  alla porta finestra. Concentro la mia attenzioni sugli alberi, povere querce rosse anchilosate, sull'orizzonte visibile a segmenti di grigio fra i rami e inizio la mia meditazione del mattino.

    È la settimana feroce dell'anno, quella dedicata all'imbestiamento consumistico, i giorni che vanno da Natale a capodanno. Sono felice di essere libero, sono felice del silenzio grazie all'assenza dei miei fratelli che, in virtù della loro giovane età, se ne stanno fuori dalla residenza a gioirsela con palle e palloni da football e rugby. Ci deve essere qualche artista fra gli ospiti, ho visto una statua di neve quasi pulita del Buddha in samadhi, copia perfetta di quella in gesso nel giardino dei loti. Non amo le statue. Socchiudo gli occhi e ricordo le fiaccolate in corsa per la campagna, ero alto una virgola ma la memoria infantile è di buona pianta. Si celebrava, chiamandolo con altro nome perché quello originale era dimenticato da oltre due millenni, il solstizio d'inverno, la grande festa della nostra più antica civiltà mediterranea intrisa di mitologia e di superstizioni, una festa pagana cioè contadina e quindi semplice, derubataci dall'avvento di un'altra mitologia altrettanto gravida di superstizioni ma non più libera e semplice e non più pagana cioè villica ma cittadina e di potere. Mi riscopro cantore di un canto silenzioso ma non meno possente della voce. Canto e percepisco un istinto di commozione che però non si manifesta, canto a Persefone, Demetra, Kore, canto a tutti i miei antenati scalzi coltivatori, e amanti nel senso fisiologico del termine, della terra. Una febbriciattola di etica mi si sbrina sulla pelle, oggi quando la vita è rappresentazione simbolica di se stessa identificata con bisogni materiali e ideologici, ibridizzati d'iniezione mercantile. La mia etica è Zen piantata su fondazioni solide, anzi solidissime, costruite da Siddharda Gautama, Huang Po, Mo Tzu, Lin Chi, Nhat Hanh e dai miei antenati diretti Epicuro, Lucrezio e Spinoza. Un certo debito lo riconosco agli Stoici, Plutarco almeno. Un'etica che mi consente di rifiutare sdegnosamente, quantunque con compassione, i compromessi che tendono a giustificare, quindi accettare, le più disumane aggregazioni di elementi ludici e alienazioni. Nel vasto mercato del consumismo sia esso alimentare che politico. Poiché c'è un consumismo politico che della politica, intesa come codice morale della società, nulla ha se non l'aspetto drammaticamente vaudeville, guignol, che tuttavia gli pertiene. Ciò che si consuma in realtà, come contorno di un piatto freddo, è un cocktail di pseudo informazione, dicasi anche la tragedia della non comunicazione, e gli aspetti bling-bling, la facciata telenovela che tanto affascina le società ridotte ad agglomerazioni di zombi con materia molle odorante di lavanderia pubblica, quella a gettoni.

     

    VIAGGIO IN SICANIA
    cinquanta anni dopo
    Una cronaca
    ANNOTAZIONI PERSONALI di  Chân Pháp Y

    Prima parte

    C’incontriamo a Villa Niscemi, una grande casa nel parco palermitano della Favorita, dove si dice vivessero un tempo alcuni degli storici personaggi del Gattopardo ma si tratta di  immaginazione promozionale poiché è noto che Tomasi di Lampedusa si ispirò ai proprietari della villa durante gli anni Venti del Novecento per la creazione di due personaggi del romanzo che storici non furono né mai abitarono in quella dimora.
    Le informazioni turistico-folcloriche mi arrivano a cantilene di rosari. Molte persone, nell’attesa dell’orario convenuto, si divertono a sciorinare con gioia quanto di interessante, o tale creduto, ripescano da memorie del tempo.
    Il tema della mia conferenza pubblica è “Ascoltare, Comprendere, Agire”.
    Questo evento minimo organizzato da un gruppo culturale di Palermo prevedeva una presenza di circa ottanta persone che, qui a Palermo, fanno un grande numero, così almeno mi si dice.
    Invece ci ritroviamo in 126 quasi strettini nella sala concessa per l’incontro, una stanza anonima probabilmente antica scuderia rimessa a nuovo. I fasti della villa sono lontani se non logisticamente almeno dallo spirito Zen sostegno dell’incontro.
    Qualcuno suggerisce di sederci fuori, nel cortile biancastro di sabbia, ampio, una sorta di chiostro immaginario senza portici illuminato dal sole che tuttavia lascia in ombra il nostro spazio. È l’area interna di un antico baglio.
    Ci sediamo formando un solido cerchio a giri concentrici come d’uso a Plum Village. È una soluzione non solo logistica ma di grande impatto psicologico. Il cerchio, infatti, rende tutti uguali, non ci stanno le file, non ci sono ascoltatori e  non ci sono maestri. Oltretutto i nostri due cerchi, uno dentro l’altro, si intersecano, si omogeneizzano, si stringono e si allagano elasticamente sì che alla fine si vede solo una circonferenza umana.
    Il microfono non funziona. Abbandonarlo dietro la sedia. Mi accorgo, con disappunto, di non essere in grado di gestire l’iPod, appena acquistato a Hong-Kong qualche settimana prima. Niente registrazione. Riesumerò a memoria se mai ce ne sarà bisogno.
    Nella pratica Zen il significato delle parole è l’essenziale del significante.
    Tentiamo quindi di capire, dall’angolo della cognizione Zen, cos’è questa trinità di verbi che si legge sul poster del nostro meeting.
    Ascoltare. Semplice, noi tutti ascoltiamo ma prestiamo attenzione? Siamo certi di intendere? C’è spesso lassitudine nel sentire chi parla, una pigrizia che nasce da uno spietato senso di autosufficienza e di rinuncia aprioristica al dialogo. Quante volte diciamo, prima che l’altra/o termini di parlare, sì... sì... lo so. Certo, “lo so” è una cantilena imbecille che a volte irrita la persona che comunica; noi sappiamo sempre, qualsiasi parola o concetto ci sia espresso  produciamo remore, obiezioni, aggiunte, critiche, rileviamo mancanze, tendiamo a minimizzare colei o colui che parla quasi una sottile e amara sferzata di gelosia o di risentimento stesse percorrendo la nostra spina dorsale. Il viscerale complesso di non sentirsi inferiori all’altro quando l’altro non si sente per nulla né superiore o inferiore o uguale all’ascoltatore, inficia aprioristicamente ogni possibilità di comunicazione e ostacola quindi il dialogo. L’ascolto è un tema costante della mia meditazione camminata ogni giorno. Probabilmente perché non sempre sono stato un ascoltatore consapevole e voglio affinare questa pratica portatrice di gioia a chi soffre, cioè a tutti noi.
    Gli interventi sono acuti, intelligenti, inquirenti. E lo spirito collettivo è seducente perché si presuppongono menti aperte che vogliono sapere, comprendere. In fondo tutti abbiamo problemi irrisolti che ci portiamo addosso e la scienza dell’ascolto, la vita praticante delle persone zen come anche dei medici e degli psicoterapeuti, e che dovrebbe essere auspicabilmente la pratica di tutti, è una scienza di guarigione e, soprattutto, di auto risanamento.
    L’indomani ci trasferiamo al Baglio Danilo Dolci a ridosso della Zisa. Al di là degli alberi, semibruciati dalla siccità e dall’arsura, s’intravede la stupenda architettura arabo-normanna di questa casona, chiamata enfaticamente castello, che ospitava ozi e sollazzi dei Normanni. Un pomeriggio la visiteremo e sarà una piccola delusione. Dell’antica struttura resta solo il disegno, armonioso e vibrante. Tutto è ricostruito, ristrutturato, in qualche punto rabberciato. I giardini normanni davanti al palazzo non esistono più, mi consolo però allo sguardo del grande albero che ombreggia l’entrata. Adoro gli alberi.
    Il quartiere intorno al Baglio e alla Zisa è desolante. Una vecchia chiesa barocca d’impronta spagnola, come tutto il barocco siciliano, e poi case basse dai muri lerci e sbrecciati. Discreta la presenza umana che però poi  si manifesta sonoramente lungo i marciapiedi di uno stradone bottegaio. Sento delle vespe ronzarmi dentro, fa male. Dov’è la Sicilia? Quale Sicilia? La Sicilia è quella che io vedo ora e non certamente quella immaginata o quella che io vorrei che fosse e che non à mai stata.  Meditazione sui luoghi. Che cos’è un luogo?
    Il Baglio è lo spazio scelto dallo stesso gruppo di Palermo per un week-end di ritiro. Anche qui ci sediamo in cerchio, simbolo geometrico dello Zen, e condividiamo. C’è una ragazza di osservanza tibetana che accetta di tradurre dall’Italiano all’Inglese per Pháp Xa, il fratello olandese venuto con me in Sicilia. Risolto l’inghippo delle traduzioni, cominciamo a condividere.
    Percepisco subito di non essere a mio agio, e quando viene a mancarmi la plasticità dello spazio anche la scioltezza della mia comunicazione ne risente. È gente simpatica e allegra tutt’attorno ma ciò non basta. Sento, attraverso le domande di parecchie persone, perlopiù donne di media età,  una curiosità periferica non puntata né alla materialità né all’immaginario di circostanze relate alla vita quotidiana. L’astrazione non m’incoraggia. Tuttavia qualcuno, ponendo una domanda, riprende il tema della comprensione e l’atmosfera cambia. Entriamo il vicolo maggiore del discorso, camminiamo insieme verso l’asserzione di una pratica, quella della consapevolezza, che apre il vocabolario della vita alla parola comprendere.
    Bodhisattva é un termine della letteratura Buddhista. Significa Illuminata/o, svegliato/a. È una parola “composta” formata da bodhi (risvegliato) e sattva (persona). É sinonimo di Buddha ma porta un significato diverso e molto importante. Il Buddha è chi, una volta divenuto/a tale può, se vuole, entrare nel Nirvana, cioè in un luogo ideale, certamente non fisico, libero da ogni sofferenza mentre il Bodhisattva è sì anche un Buddha ma che decide di rinunziare al Nirvana e di restare nel mondo fino al risveglio di tutti gli esseri senzienti. Scelta grandiosa, epica, incommensurabile ma che c’entra con la comprensione? C’entra perché bodhi in realtà significa comprendere. I Buddha dunque, come i Bodhisattva, sono persone, tali e quali a ogni e qualsiasi essere umano, che hanno compreso. Compreso che? La sofferenza umana, le sue cause nonché  la possibilità di guarigione e sanno indicare la terapia. Comprendere pertanto è comprendere innanzitutto la sofferenza altrui. Tutti noi, in quanto esseri umani, siamo capaci di giungere a quel supremo grado di comprensione-compassione, siamo cioè tutti potenziali Buddha. Da qui il ragionamento evolve e ci accostiamo alle pratiche, cioè agli addestramenti necessari, per acquisire la capacità effettiva dell’intendimento.
    Il gruppo si anima e la partecipazione diventa più attiva, ciascuno dei presenti ha qualcosa da dire e la regola di parlare uno per volta diventa ansimante. L’abbiamo stabilita all’inizio come principio imprescindibile della condivisione e tutti hanno accettato. Oltretutto questa norma ci viene da lontano sin dai tempi di un certo signor Dalla Casa che l’inserì in un suo famoso libretto di buone maniere noto come “Il Galateo”.  E nelle buone maniere, le fine manners che a PV si insegnano ai novizi , questo addestramento serve a prepararsi alla pratica dell’ascolto profondo.
    La necessità di ascoltare chiaramente prevale e poco per volta, in pochi minuti, il cerchio di Plum Village termina in maniera molto bella. Questa è la prima volta che qui si pratica lo sharing e arrivare ad autogestirlo nello spazio di un’ora è tempra di maturità. 
    Come d’abitudine la solita domanda sulla reincarnazione. La mia risposta non dà possibilità di fraintendimenti: rispetto tutte le fedi e credenze ma sia chiaro che personalmente  non credo nella reincarnazione e che definisco questa illusione una mera superstizione di origine indiana lasciando perdere Pitagora e susseguenti. Prego tutti pertanto di rivolgersi ad altre persone per indagini sull’argomento. Condivido però l’insegnamento di Thay in proposito e cioè che noi siamo tutti continuamente reincarnati nel ricordo dei posteri, negli effetti delle nostre azioni, nell’amore che abbiamo saputo dare agli altri e nell’amore che dagli altri riceviamo.
    La fede nella reincarnazione, qui in occidente, è radicata nella paura della morte, nell’ignoranza della non-morte; quindi la speranza di vivere altri cicli quieta l’angoscia della sparizione. L’argomento è tuttavia interessante ma nella circostanza del presente deviazione, va messo da parte per evitare delusioni e ulteriori sofferenze.
    Mi propongo di parlarne a fondo entro i termini del tema non-nascita non-morte. L’impermanenza ha il sapore del miele mentre la fola della reincarnazione ha quello amaro della cenere.
    L’ora del pranzo arriva e ci accostiamo alle delizie culinarie preparate dalla signora Romano, figlia di Danilo Dolci che, con il marito, possiede e gestisce il Baglio. Il Baglio - denominazione tipica della Sicilia occidentale derivata dall'arabo bahah (cortile); francese Bastide e inglese Bayle : masserie fortificate - è una grande casa campestre con un cortile aperto che funge da accesso alle stanze del piano terra.
    L’atmosfera è distesa e gaia e tale continuerà a essere fino al termine del ritiro. Alcuni amici ci conducono in giro per Palermo ma la verve turistica non mi sta di casa. Il ritiro, nel suo complesso, non mi ha dato ciò che mi attendevo e me ne sento colpevole perché mai ci si deve attendere qualcosa quando s’incontra un gruppo per la prima volta. La presenza è ciò che conta nonché  la gioia dell’essere insieme.
    Chiedo di visitare la tomba di Federico Imperatore e l’antica libreria Flaccovio dove spero trovare testi sul folklore siciliano. Già dal ritiro d’inverno in California, nel 2004/2005, sto percorrendo tutte le vie possibili e accessibili ai fondali delle mie radici, all’incontro fisico con i miei antenati non solo familiari, clanici, ma della globalità etnica. Trovo alcuni libretti di Storia della Sicilia che poi, leggendoli a PV, troverò a dir poco insulsi e offensivi; una grammatica della lingua siciliana che mi delizierà e che sta ancora accanto al dizionario inglese-siciliano. Con gioia pressoché infantile vedo i libri di Luigi Natoli, quasi una scoperta, e compro subito I Beati Paoli. Se qualcuno volesse scrivere una Storia di Palermo o della Sicilia in generale, Natoli è una fonte inesauribile d’informazioni toponomastiche e antropologiche di esattezza e attendibilità scientifica.
    La visita a Federico è breve. I sarcofagi sono monumentali, il luogo è scuro e triste. Preferisco rendergli omaggio silenziosamente e altrove.
    Il giorno appresso si va a Castelvetrano, sempre ospiti degli stessi amici. Dimentico di accennare al significato di agire ma queste sono pagine di un diario che non sarà mai finito, non la trascrizione di una conferenza, e agire è complessa materia d’interdipendenza che coinvolge non soltanto l’azione corporea ma anche il pensiero e la parola. È un soggetto di sublime vastità che richiederebbe la stesura di un libro poiché tutte le scienze umanistiche, sul percorso della consapevolezza, vi sono implicate.
    Ed è anche un soggetto delicato, visto l’andazzo che corre con le traduzioni  e le interpretazioni pro domo sua  di parole appartenenti a lingue orientali: azione in sanscrito si dice  karma e va inteso come atto volontario e cosciente; corrisponde all’inglese deed.   Spesso  vi sono ciarlatani hippy o sedicenti guru maestri di yoga che fanno di questo lemma il nerbo delle loro verbosità suscitando quasi sempre emozioni degenerative. Ci sarà altra occasione per soffermarci su questo tema.
    Passeggiando per le vie della cittadina, d’antica anima rusticana, comincio a sentire odori antichi e brezze di emozioni ma resisto e lascio la curiosità afferrarmi per mano con affetto turistico e diversivo. Andiamo verso il fiume Delia.
    Arriviamo alla chiesetta normanna, intatta nel suo disegno esterno, sebbene ristrutturata, in qualche parte maldestramente per via dell’uso di mattonelle rosse che qui chiamano pantofole. All’interno la costruzione si rivela essere un cimitero privato. La struttura normanna, infatti, appartiene, o comunque data in uso perpetuo, alla famiglia proprietaria dell’annesso convention center: un ristorante nel mezzo di un giardino che è una pagina d’architettura d’ambiente. Vale la pena visitarlo. Alberi e fiori dai colori accecanti s’intersecano in eccelsa armonia.
    Scendiamo verso il declivio da dove si può scorgere la diga che ha formato il laghetto.
    Il nostro accompagnatore mi dice che a primavera le arsure d’intorno, di un devastante colore giallo-bruno, si trasformano in un oceano di policromie e io aggiungo che mi piacerebbe nuotarci dentro.
    Immagino la dionisiaca affabulazione di tinte e di aromi che deve avere ammaliato Goethe venuto qui, in questo scorcio intrigante del continente dorico-sicanio a due passi da Selinunte, promenandosi a dorso di mula.
    Intravedo euforbie e pianticelle di cappero, i fichidindia si stagliano orgogliosi contro i boschi defoliati e scorgo alcune palme nane, pianta autoctona della Sicilia. Un tempo, prima che le scope arrivassero dalla Cina, la palma nana  si chiamava scupazzu ma se ne facevano anche gerbe.
    Si parte per Selinunte. Sulla strada ci fermiamo un paio di volte a fotografare alberi di olivo dai tronchi molteplici e contorti; Alcuni hanno aperture alla base del fusto che sembrano caverne in miniatura  atte a offrire rifugio ad animali della grandezza di una pecora. Molti sono centenari, rugosi, la loro corteccia mi ricorda il viso di un vecchissimo saggio, il mio amico Ahmadou Diallo, con il quale solevo intrattenermi molto tempo fa a Timbuctu,  nel nord del Mali.
    Arriviamo alla foce del Belice che i Greci chiamarono Ipsas.
    Non mi attendevo di scoprire un grande corso d’acqua ma quello che osserviamo è proprio un rigagnolo. Ai tempi dei Dori era navigabile!
    Ci mettiamo in short, ci inginocchiamo a toccare il fondo del fiume per raccoglierne il fango nero che ci spargiamo sul corpo. È usanza remota e salutare e attenua il freddo del primo impatto con l’acqua del mare dentro il quale ci tuffiamo a nuotare. Il mio mare, il mio primo mare. Ne bevo un gran sorso, salato da bruciare la gola, e mi sento profondamente felice.
    Selinunte, il più grande parco archeologico aperto d’Europa, prende nome da selinos un prezzemolo selvatico che ancora cresce fra i ruderi su terreno sabbioso. Ne ho colto una piantina, con il permesso e l’aiuto di una guida locale, l’ho trapiantata in un vaso a Plum Village ma è partita addolorata per mancanza di sole. Giriamo fra templi e fondazioni di antiche case. Vagheggio della città, la potente e rigogliosa città di Selinunte animata dai commerci e dai riti , da canti e sofferenze. Immagino l’orrore del genocidio punico e la distruzione fino all’ultima pietra.
    Lascio indietro, per impulso, i nostri accompagnatori  e Pháp Xa  e mi ritrovo procedendo lentamente per le viuzze delle quali restano tracce. Medito camminando con i miei antenati, posso visualizzarli accanto a me, ne sento i passi a piedi nudi strascicanti sulla sabbia, ne percepisco il silenzio, ne interiorizzo l’amore. E comprendo che le ombre multicolori non sono soltanto i padri e le madri Dori ma anche Fenici, Sicani, Siculi, Elimi, Arabi, Normanni, Svevi, Angioini, Aragonesi, Spagnoli e cento altri inclusi i Latini, quei pastori di pecore trasformatisi in conquistatori del  mondo allora conosciuto irradiando ovunque la  cultura greca che ancora resta il fondamento della entità siciliana. Mi sovvengo di Ermocrate che arringava le genti di Catania e di Taormina a unirsi nella resistenza contro l’invasione ateniese: “Noi non siamo né Ioni né Dori. Siamo Siciliani.”
    Scendiamo a Marinella ch’era la spiaggia della nostra infanzia, un borgo di pescatori dalle barche bianco-azzurre. Oggi è spettacolo da suburbio, vittima volontaria del turismo di massa che tutto appiattisce e anonimizza. Ci sediamo a gustare un gelato e dalla terrazza del piccolo bar mi si spiana l’evidenza di una barbarica miseria: immiscenza di botteghe e catoj-shops, gelatieri e verduroli  accagliati ai fianchi di un’antica trazzera sul mare ora appeciata.
    Dove zabbare, ulivi e fichidindia dovrebbero germogliare stanno vili ombrelli pubblicitari. Sulle spiagge che testimoniarono il massacro dei nostri antenati Dori  languono corpi seminudi incuffiati da MP3 ch’eruttano rap americano.
    La globalizzazione dell’intelligenza umana grida per un grande abbraccio della compassione.
    Non voglio che questa sia l’ultima immagine del mio pellegrinaggio a Selinunte e mi godo l’estensione del mare di un azzurro intenso, quasi blu con tinte di prati  e capisco perché gli Egizi lo chiamavano il Grande Verde. Sento una leggera fitta di nostalgia per Plum Village ma gli occhi restano ancorati al Mare. Mare nostrum dicevano i colonizzatori Romani, e invece no! Questo è mare mio.
    All’aeroporto di Palermo abbiamo un paio d’ore di attesa e ne  trascorro una buona metà nella minilibreria di Flaccovio, dove compro un paio di libretti interessanti mentre Pháp Xa scopre i cannoli siciliani. Comincio a leggere Il Tiranno di Manfredi. È la storia totalmente immaginata di Dionigi il Vecchio e v’è descritta, con abbondante fantasia, la straziante fine di Selinunte. Il libro non mi piace, ho altri gusti; l'avrei letto più volentieri prima di andare a Selinunte.
    Sull’aereo, appena decollato, una hostess mi invita and andare in cabina: il capitano desidera parlarmi. Invece è un amico romano che dalla torre di controllo vuole dirci ciao e buon viaggio.

    Chân Pháp Y

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Melatonina
ormone degli dei
2001
pagine 249
€ 16,00
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L'autore sostiene che l'esaltazione di un'area della corteccia cerebrale consente di sperimentare l'estasi mistica e raggiungere la verità metafisica che gli uomini chiamano Dio.
il canto
IL CANTO DEL BEATO
Bagavad Gita
versione poetica
e cura di Michele C. del Re

1996, 16°, pp. 224
12,90
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Libro santo dell'India
vangelo di Gandhi
glossario
Glossario
sanscrito

a cura del
Gruppo Kevala
1998, 8°, pp. 352
18,00acquista

Glossario coi termini sanscriti che si trovano correntemente nelle opere letterarie dell'India tradizionale che trattano di filosofia e spiritualità.

Osho
Il libro del nulla
discorsi su
"la mente fiduciosa" di Sosan,
terzo patriarca Zen

2004, 8°, pp. 288
14,46
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