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Teocrito Di Giorgio PER “LE MANETTE – Dramma in tre atti” di Teocrito Di Giorgio
È molto difficile fare e
parlare di cultura al giorno d’oggi perché si rischia
di non essere capiti o, peggio ancora, di essere derisi. Esistono tuttavia
ancora baluardi, che si pongono autenticamene e caparbiamente e, aggiungerei,
instancabilmente il proposito di portare avanti questa missione impossibile in
un’epoca nichilista come la nostra.
Certamente uno di questi
baluardi è costituito dalla Libreria Editrice Urso di Avola, che non ha mai
smesso un solo attimo di organizzare eventi culturali – aperti a tutti e
senza onere per alcuno –, capaci di restituire la perduta identità della
nostra città.
È risaputo che il
patrimonio culturale di una comunità, piccola o grande che sia non ha
importanza, esprime il significato della nostra identità: chi siamo, possiamo
capirlo soltanto se non trascuriamo la conoscenza del nostro patrimonio
cultuale e la sua tutela.
E d’altronde, un motivo
ci sarà stato se anche i padri costituenti hanno avvertito l’esigenza di
consacrare all’art. 9 della Costituzione, quindi tra i principi fondamentali
(che non possono essere oggetto di modifica alcuna), il riconoscimento e la
tutela del patrimonio culturale e paesaggistico.
Tutelare il patrimonio
culturale significa, nella sostanza, custodirlo per le generazioni future
perché queste possano apprendere della loro origine e capire ciò che sono.
Ciò dovrebbe essere
compito di ognuno di noi – e principalmente delle istituzioni preposte e
degli amministratori locali – fare in modo che la conoscenza delle opere,
degli autori, dei monumenti, del patrimonio culturale nel suo complesso, che ha
segnato la nostra comunità non venga dimenticato o ignorato.
Uno degli ultimi lavori
edito dalla Libreria Editrice Urso di Avola si indirizza proprio in questo
senso con la pubblicazione del dramma teatrale “Le Manette” di Teocrito Di
Giorgio, a cura dell’avvocatessa Maria Suma, che ne ha appunto curato la
pubblicazione e la prefazione al testo.
Teocrito di Giorgio era
un figlio della nostra città di Avola, avvocato e giurista, personaggio
poliedrico, come lo definisce la stessa Maria Suma, per essere stato poeta,
scrittore, musicista ed altro ancora.
Ma Di Giorgio è
pressoché sconosciuto ad Avola nonostante due precedenti pubblicazioni: il
racconto “Per un pugno di case” dello stesso Di Giorgio, edito da Trevi; e la
biografia “Teocrito Di Giorgio. Poeta, scrittore, traduttore” di Salvatore
Salemi, pure edito dalla Libreria Editrice Urso di Avola.
Maria Suma non si è
limitata a pubblicare l’opera teatrale “Le manette”, ma ha svolto una ben più
approfondita e scrupolosa ricerca sulla persona del Di Giorgio, ricerca che
tuttavia non trova spazio nella presente pubblicazione ma che ci auguriamo venga restituita alla
collettività in una prossima pubblicazione.
L’opera teatrale “Le manette” è stata presentata sabato 7 luglio 2018, nel cortile di
quella che fu l’abitazione di Teocrito, ora abitata dal figlio Enzo, alla
presenza della stessa curatrice avvocatessa Maria Suma, che, dopo aver
tracciato la biografia dello stesso Teocrito, ha spiegato magistralmente il
senso dell’opera, nonché alla presenza dell’editore Ciccio Urso e di un numero
considerevole di partecipanti.
Già dalla presentazione
di Maria Suma ho avuto la sensazione che l’opera si innestasse nel solo
culturale inaugurato dal grande drammaturgo siciliano quale è stato Luigi
Pirandello; la conferma ne è poi venuta dalla lettura del testo.
Senza voler svelarne
l’intero contenuto, anche per rispetto di chi volesse leggere il testo, cosa
che personalmente invito a fare sin da subito, si tratta della storia possiamo
dire di un “dissidio” tra due giudici, i quali discutono attorno alla
responsabilità penale di un giovane avvocato accusato di appropriazione
indebita, ed uno dei due, di stampo colpevolista e tutto “sicuro di sé”, è
persuaso che alla condanna di un individuo possa pervenirsi attraverso
l’applicazione dei principi di diritto; e l’altro, invece, ritiene che debba
tenersi conto della persona incriminata, del suo essere persona e quindi
decidere della sua colpevolezza tenendo bene a mente la dimensione umana,
esistenziale oserei dire.
L’epilogo è drammatico
non solo per l’esito del dissidio, che non sto qui a rivelare, ma soprattutto
per le forti implicazioni giuridiche-esistenziali, se così posso dire, e al
tempo stesso filosofiche che a mio parere sembrano scaturire dall’opera.
Uno dei due
protagonisti, il giudice Clemente, paradigmatico il nome scelto dall’autore
– come afferma la stessa Maria Suma –, si pone un problema di
coscienza: come può un giudice condannare un suo simile pur sapendolo innocente?
In altri termini, come può un giudice condannare un uomo solo sulla base dei
principi del diritto, nonostante i fatti storicamente accaduti depongono a
favore della
innocenza dell’incolpato?
La coscienza, ritengo, sia un po’ la questione
nodale di tutta l’opera, ossia quella componente del nostro “Io” che ci
interroga incessantemente e ci pone di fronte alle nostre responsabilità. Chi
non ricorda, per citare un’opera letteraria di conoscenza planetaria quale è
“Delitto e castigo” di Dostoevskij, dove il giovane Raskòl'nikov,
dopo essere stato devastato dai morsi della coscienza, decide di confessare
l’atroce crimine e di assoggettarsi alla relativa pena?
La società scopre la coscienza
attraverso l’opera di Freud, il quale la descrive attraverso le tre topiche
dell’Io, dell’Es e del Super-Io, assegnando a ciascuna di esse una ben precisa
funzione.
La letteratura fa sua questa
ricostruzione e l’opera di Pirandello partorisce capolavori quali “Uno, Nessuno
e Centomila”, e “Il fu Mattia Pascal”, per citarne alcuni.
Teocrito Di Giorgio è, a tutti gli
effetti, un pirandelliano perché, attraverso il giudice Clemente del dramma “Le
manette”, pone sul tappeto una questione fondamentale: la coscienza.
Ma l’opera contiene anche altri
significati.
Se dobbiamo paragonare Di Giorgio
alla figura di Pirandello, non possiamo trascurare l’epoca in cui i due vissero
e produssero le loro opere letterarie.
L’epoca è il 900, e il Romanticismo, quale movimento culturale che poneva alla base
del suo pensiero lo spirito, aveva lasciato il posto al Positivismo, quale
movimento culturale che pone a base del suo ideale il progresso scientifico.
Ma siamo anche nell’epoca del
“Nichilismo”, come profetizzata da Friedrich Nietzsche, nella quale tuttora
viviamo, che si caratterizza per la totale mancanza di valori a cui l’uomo
possa ancorarsi, manca, in altri termini, una risposta, che sia una, al
“perché”.
Siamo nell’epoca della alienazione
dell’uomo, il quale è diventato merce di scambio in un processo consumistico e
capitalistico nel quale egli assume valore solo nella misura in cui è in grado
di vendere la sua forza lavoro.
I tre maestri del sospetto, Marx,
Freud e Nietzsche, hanno sviscerato, ognuno secondi i rispettivi ambiti, molto
bene la condizione in cui versava (e tuttora versa) l’uomo moderno.
Dalla fallacia dell’esistenza umana
ne nasce uno spaesamento dell’uomo, una frammentazione dell’Io, perché egli non
riesce a capacitarsi del fatto che le sue certezze, proprio come il giudice
colpevolista del dramma “Le manette”, non possono essere definite tali; non
riesce a trovare una risposta al “perché”.
Ecco, io credo che l’opera “Le
manette” di Teocrito Di Giorgio, curata da Maria Suma, voglia dirci soprattutto
di questo spaesamento dell’uomo, di questa forma crudele di nichilismo alla
quale come farmaco sembra esserci solo la pazzia.
Una considerazione
finale va fatta anche alle accezioni giuridiche che l’opera importa.
Vi è un moto di
coscienza da parte dell’autore, ma vi è anche una esigenza di verità.
Di quale verità?
Nel libro “Il Maestro e
Margherita” di Michail Bulgakov, Ponzio Pilato, nell’interrogare Gesù, gli
chiede: “E perché tu, vagabondo, nel
bazar sobillavi il popolo raccontando della verità, di cui non hai idea? Che
cos’è questa verità?” … Oh dèi! Gli pongo domande
inutili ai fini del processo … la mia ragione non mi obbedisce più … La verità
è innanzitutto nel fatto che ti duole il capo, e ti duole tanto forte da
suggerirti vili pensieri di morte. Tu non solo non hai la forza di parlare con
me, ma ti è persino difficile guardarmi. E ora io involontariamente sono il tuo
torturatore, e questo mi addolora”.
La verità cui tende il
processo, e in particolar modo il processo penale, è una verità processuale
alla quale si accede attraverso lo svolgimento del processo secondo le norme
che lo disciplinano: il giusto processo, come mirabilmente affermato in sede di
presentazione la curatrice avvocatessa Maria Suma.
Al processo non
interessa la verità storica, ossia la verità scaturita dai fatti
fenomenologicamente verificatisi; quei fatti, perché possano dirsi a fondamento
della responsabilità penale del soggetto imputato, debbono cristallizzarsi davanti
agli occhi di un soggetto terzo ed imparziale, quale è il giudice, che dovrà
poi in relazione alla loro sussistenza o insussistenza giudicare, quindi
condannare o assolvere.
Capite allora quale
compito immane spetta al giudice, quello di trovarsi di fronte a fatti anche di
una certa crudeltà e tuttavia assumere decisioni prescindendo dagli stessi
qualora non risultassero provati secondo le norme.
Come dire che forse sono
le norme le sole portatrici di verità, di tante verità o di nessuna verità.
Come vedete, siamo a
Pirandello o, se preferite, a Teocrito Di Giorgio.
Infine, desidero
esprimere il mio ringraziamento a Maria Suma per avermi fatto conoscere
quest’opera di Teocrito di Giorgio, a me sconosciuta, e per l’eccellente lavoro
di ricerca svolto, che, come innanzi già detto, ci auguriamo possa trovare in
tempi brevi la necessaria pubblicazione a beneficio della collettività.
Un ringraziamento lo
devo anche a Ciccio Urso per la sua instancabile attività culturale che
quotidianamente svolge in favore della collettività avolese, sebbene questa non
ne dimostri riconoscenza.
Un particolare omaggio
voglio indirizzarlo alla bella Liliana che, con la sua dolcezza, è riuscita
ancora una volta a solleticare le corde del cuore con le sue canzoni ed in particolare con il brano “Salve sono la Giustizia” dei
Nomadi, a me totalmente sconosciuto.
Come vedete, non si
smette mai di imparare.
Ecco, questa potrebbe
essere la verità!
Avola, 8 luglio 2018
Leonardo Miucci
|
Salvatrice Catinello Ho letto il libro “Come potrò dire a mia madre che ho paura?” a cura di Roberta Malignaggi, edito dalla Libreria editrice Ciccio Urso di Avola, che narra la tragica vicenda personale e familiare di Claudio Macca, un ragazzo avolese tossicodipendente, morto nel 2010 di un male incurabile in conseguenza dell’uso di eroina. La storia è raccontata dalla madre di Claudio, signora Salvatrice Catinello, direttamente alla curatrice, la quale, al fine di metterla insieme secondo un registro narrativo, non si è negata la lettura delle lettere che Claudio mandava dal carcere alla madre, né l’ha preoccupata lo studio della documentazione che ha riguardato il giovane avolese nei suoi trascorsi giudiziari. Il libro si fa leggere tutto d’un fiato, cosa che ho fatto una delle trascorse sere fino alle due di notte. Il merito va ascritto, ovviamente, alla curatrice Roberta Malignaggi. Avola, 29 gennaio 2012 Leonardo Miucci |
“La partecipazione è il sale della democrazia” |
SOLO
DUE PAROLE Ho come l’impressione di avere in
tasca un piccolo tesoro, o forse un segreto, da custodire. Ma è solo
un foglio di carta dattiloscritto. L’ascensore mi porta al quarto piano, a casa mia. Durante l’ascesa sbircio lo scritto, ma ne ricavo ben poco: l’ascensore arriva subito al quarto piano. Entro in casa, scambio velocemente una parola con mia moglie; il divano mi accoglie, e riprendo la lettura. L’avidità mi assale, consumo quel foglio in un batti baleno; indugio; mi rispecchio; mi rivedo e mi vedo cresciuto e tuttavia “bambino”; e soprattutto mi ricordo… Iniziavo così il mio vero, autentico cammino una sera d’autunno: era il mese di ottobre del 2001. Entravo in libreria, in quel luogo che forse da molto, troppo tempo come una sirena mi tentava; ed accettai, cedendo alle lusinghe e alle sirene. Vi trovai un uomo dal sorriso sincero al quale chiedevo un certo libro sul Buddismo e forse proprio la particolarità di quel libro, oppure il fiuto infallibile di quell’uomo, diede il là a ciò che sarebbe diventato da quel momento in poi l’inizio del mio, del nostro, cammino. Quel libro, oggi, porta la data e una dedica di mio pugno che richiamano quei momenti, come una lapide a futura memoria. E fu Dante, con il suo Inferno, Leopardi, con il suo Infinito, Sciascia, Bufalino, e sentivo che non mi bastava, che avevo bisogno di altro ancora; quasi volutamente mi creavo ciò che poi ho definito “intrecci curiosati”: leggevo un autore e contestualmente ne leggevo un altro. Avevo come l’impressione di non avere molto tempo ancora a disposizione per leggere, per conoscere; l’idea della morte imminente mi ha sempre tormentato e non tanto per l’evento in sé, quanto piuttosto per la sottrazione di tempo che essa mi avrebbe procurato alla lettura, alla conoscenza. Sarei riuscito a leggere tutti i libri che nel tempo mi sono detto di leggere? Forse mi servirebbe un’altra vita, o forse due vite. Con due vite al massimo dovrei farcela. Si, credo proprio di potercela fare. E venne poi il momento del dubbio, della curiosità, dello stupore; e fu la volta dell’Arché e quindi di Eraclito, col suo divenire, di Parmenide, col suo “essere”, del Maestro che della maieutica e dell’ironia ne ha fatto vessillo del suo pensare, e ancora Cartesio, col suo “cogito”, Nietzsche, il filosofo che spoglia, Severino e Galimberti, con il loro uomo tecnologico. E Calvino, lo “scoiattolo della penna”, con la sua fantastica realtà e la sua leggerezza, ed Epicuro, che sembra aver risolto il dilemma della felicità dell’uomo (si badi: della felicità, e non dell’infelicità), e Lucrezio, che con “semplici”, naturali riflessioni sembra aver risolto l’enigma dell’esistenza. E ora sono qua, con il sapore della scoperta e l’eccitazione di quanto ancora resta da scoprire. Avola, 2 febbraio 2007 Leonardo Miucci |
La fronte corrugata del Papa |
Alle
fine (o allinizio, a secondo se si preferisce indicare con la
morte la fine della vita, ovvero linizio di una nuova) anche Lui
se nè andato. Il Papa Giovanni Paolo II, il Grande, ha
rassegnato la sua anima nelle mani del Padre. La sua morte ha indotto,
e induce, a diverse riflessioni circa il futuro dellumanità
e della Chiesa e, in ultima analisi, dellimportanza della fede
cristiana, come fonte del vero dialogo. Come si vede le
questioni sul terreno sono veramente tante e di forti implicazioni esistenziali,
soprattutto perché poste in relazione con lattuale congiuntura
sociale e internazionale. Il bisogno del dialogo, non semplicemente
ridotto ad una questione di banale opportunismo, rimane imprescrittibile;
se si vuole la pace, ci si adoperi a favore del dialogo, quello tra
i popoli e a favore delle diversità, che dovrebbero costituire
una occasione di crescita per la stessa umanità, e non un nemico
da combattere assolutamente. La necessità di dialogo come condizione
necessaria per un mondo di pace è il messaggio che già
dalla Giornata mondiale della Pace del 1983 Giovanni Paolo II ha voluto
consegnarci; un dialogo propedeutico e necessario alla pace, messaggio
che purtroppo, alla luce degli eventi bellici che stiamo vivendo, risulta
essere stato disatteso. Ed è singolare, sebbene in perfetta previsione
formalistica, come ai suoi funerali parteciperanno anche quei capi di
governo che hanno voluto la guerra in luogo del messaggio di pace da
Egli tanto amato e profuso. Eppure saranno lì, magari a commuoversi,
e non credo per la preziosa perdita, quanto piuttosto per la necessità
formale di partecipazione e anche per i favorevoli risvolti mediatici
che levento importa alla causa politica. E si sa, in politica
tutto è ammesso quando si parla di popolarità, anche quando
i fatti entrano in contraddizione con le idee, che, appunto, solo idealmente
si ritengono di avere nel possesso del proprio patrimonio culturale.
Eppure saranno lì, ipocritamente a partecipare alla perdita di
un grande Uomo. |
Da: "Sara Marilena Monti" <momar2002@libero.it> Marilena Monti
Cara Marilena Monti,
Non so se posso darti del tu, ma vorrei arrogarmi questa prerogativa perché tale è per me. Mi presento: mi chiamo Leonardo Miucci, da Avola (SR), iscritto, proprio come te, alla mailing list delleditore Francesco Urso, Ciccio per i soli Amici. Ho seguito spesso, e con interesse direi, i tuoi tanti interventi e per ultimo quella piccola, favorevole e oserei dire spigliata considerazione in merito alla mia riflessione sul delitto di Cogne. La tua seppur breve considerazione, infatti, nellaccennare al problema del risarcimento (più morale per la verità) delle persone intrappolate nelle maglie della Giustizia (Ingiustizia!!??), ha posto in risalto ciò che forse non attiene prettamente al campo del diritto quanto a quello dellintimo umano: la coscienza. Ciò che viene richiesto a chi è chiamato a giudicare è di farlo secondo coscienza. Sembra quasi un pensiero filosofico o profetico se vogliamo, ma in realtà è ciò che serve nel dare condanna, nel giudicare. Ultimamente, soprattutto con lavvento delle ultime mode di costruire informazione, dove tutto è ammesso purché ispirato ai dogmi dellaudience, si è smarrita questa filosofia e si tende ad esprimere giudizi su chicchessia ed a volte anche in modo spropositato, con gravissime conseguenze, soprattutto sul piano morale, per la persona destinataria di siffatti giudizi. Non esiste, quindi, la possibilità per la persona destinataria di simili giustizie di venire risarcita del danno morale giacché linterprete della legge, nellesprimere sentenza, emette giudizio secondo coscienza. Nella realtà, tuttavia, ciò non avviene o avviene raramente. Ecco perché la giustizia non può appartenerci, non può essere di questo mondo: chi è chiamato a giudicare non lo fa con la profezia della coscienza, bensì con il sentimento dellincoscienza. Molte grazie per la tua opinione e spero di sentirti ancora. Leonardo Miucci Un caso di Malasanità, su cui riflettere;
che si tratti del caso dell'Ospedale di Noto, o di un altro Ospedale lontanissimo,
cambia poco, se i problemi sono più o meno uguali. Qui non siamo
in Afghanistan o in Irak! Qui, pensate un po', siamo nell'ultima lingua
di terra d'Europa, nell'estremo Sud d'Italia, in quel territorio dell'ex
Val di Noto, conclamato di recente Patrimonio dell'Umanità. Un disservizio sociale pagato a caro prezzo Un prevalente pensiero in seno allopinione pubblica afferma che lofferta di beni e servizi della Pubblica Amministrazione sia insufficiente e scadente rispetto alla domanda dei cittadini, soprattutto in relazione al gettito fiscale dei medesimi contribuenti. Per onore di verità devo dire che ho motivo di condividere la tesi sostenuta, purtroppo a causa di fatti vissuti presso lOspedale Civile Raffaele Trigona di Noto, cittadina sì sede del Barocco siciliano, di recente inserita nel patrimonio dellUNESCO, ma quanto a gestione dellospedale civile non gode della medesima fama. Lospedale in questione visto dallesterno non dà proprio limpressione della cattiva gestione, anzi, chi vi giunge per la prima volta ha anche la fortuna di trovare un comodo parcheggio per lauto. Ma la sorpresa, come in ogni cosa, è sempre dentro. Così, al primo piano, dove è situato il reparto di Ginecologia e Ostetricia, reparto incriminato, il paziente si imbatte in un lungo corridoio arredato da vetuste panche occupate da altri pazienti che attendono il loro turno per entrare forse nellunico ambulatorio (sempre occupato da qualche medico di turno) disponibile; le pareti si caratterizzano per la loro particolare rovina, sporcizia e funeree nel loro apparire complessivo. La sala operatoria del reparto in questione non è funzionante per via di alcuni lavori di manutenzione (così è stato riferito) e pertanto il personale fruisce di sale operatorie al secondo piano, del reparto di chirurgia, dove le donne in stato di gravidanza che si apprestano a subire lintervento da parto cesareo vengono invitate a raggiungere a piedi, e senza lausilio di alcuno del personale paramedico o infermieristico, la sala operatoria, transitando attraverso un corridoio ove parenti, amici e affini di altri pazienti attendono, tra una sigaretta e laltra, gli esiti operatori di altri interventi. Il tutto nella più totale indifferenza del diritto alla privacy. Ma credo che allospedale di Noto il diritto alla privacy sia un optional. Le stanze di degenza sono fatiscenti, le infrastrutture malfunzionanti e vetuste. Durante le nottate di questo febbraio molti sono stati i pazienti che hanno sofferto il freddo: i termosifoni venivano spenti ad una certa ora della sera perché questa era la disposizione. E le richieste di coperte dei pazienti, soprattutto di quelli che avevano subito poche ore prima un intervento chirurgico, non potevano essere soddisfatte in quanto a dire dal personale infermieristico le coperte erano contate. Benché un avviso allingresso del reparto avverta degli orari di visita, non esistono di fatto orari di entrata, limiti di permanenza e orari di uscita per le visite ai familiari in degenza; ed è anzi consuetudine portare nella stanza abbondanti colazioni a base di squisiti manicaretti locali, consumate tra gli stessi familiari fino a notte fonda, con caffè e consueta sigaretta finale. Il tutto sotto locchio vigile del personale infermieristico che di tutto si preoccupa tranne che di inibire tali comportamenti. Alle lamentele dei pazienti, il personale invita a presentare denuncia presso la Direzione sanitaria dellospedale. Come se la Direzione sanitaria dellospedale avesse oltre che la competenza di gestire lospedale (e che competenza, e che gestione!) anche quella di ricevere le denunce relative al proprio disservizio. Dopo questa esperienza, uscito dallospedale, più precisamente dal reparto di Ginecologia e Ostetricia, mi è venuto il dubbio se fossi o meno uscito da un osteria invece che da un ospedale. E volendo eguagliare liniziativa dellUNESCO, mi sono anche chiesto se non sia il caso di inserire la cittadina barocca anche nellelenco dellOrganizzazione internazionale WHO (World Health Organization), Organizzazione Mondiale della Sanità che ha anche compiti tra gli altri di assistenza in materia sanitaria, a favore dei popoli bisognosi. Magari che non si risolvano i problemi. Mi sono detto infine che cè poco da scherzare: la Malasanità, non solo quella propriamente concepita come fenomeno di corruttela, ma anche quella in cui il servizio pubblico è concepito (purtroppo) solo come una mera esecuzione di atti, è una problematica di rilievo della società civile, e segnatamente di quella moderna dove tutto, e quindi anche i malati e soprattutto il modo di curarli, acquista importanza solo ed esclusivamente attraverso il mercato, lecito o illecito che sia. Per non piangere, mi sono fatto una risata. Dopotutto è Carnevale! Leonardo Miucci 4/3/2003 |
La pagina di
Martino Miucci
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