PER "ESISTE IL DIRITTO DI MORIRE?" DI ROBERTA COFFA
di Giovanni Di Rosa
Allorquando Roberta Coffa, su proposta
dello stesso Editore, mi ha chiesto una breve presentazione di questo libro, ho
immediatamente ripercorso con la memoria i nostri momenti di confronto iniziati
durante la frequenza delle lezioni del corso di Biodiritto e ulteriormente
intensificatisi al momento della scelta dell’argomento e della successiva
correzione dell’elaborato della tesi di laurea, che costituisce per l’appunto
il termine di riferimento immediato di questa pubblicazione. Il ricordo più
netto è legato alla personalità di questa mia studentessa, che ho avuto modo di
conoscere e apprezzare durante il percorso formativo universitario; proprio per
questo la scelta del tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario
(meglio note, sia pure impropriamente, come testamento biologico) è indicativa
della volontà di misurarsi con un tema giuridicamente complesso ma, ancor
prima, eticamente molto dibattuto. In questo senso la possibilità, di cui il
libro dà ampiamente conto, di delineare un quadro di riferimento normativo (non
solo nazionale) risulta particolarmente significativa in un contesto nel quale
le prospettive di regolamentazione sono ad oggi ancora tali, nonostante da più
di due anni si discuta intorno ad un disegno di legge, la cui presentazione è
da mettere in stretta correlazione con il tragico epilogo della vicenda riguardante
Eluana Englaro, giovane donna in stato vegetativo permanente dopo un gravissimo
incidente stradale (avvenuto ormai quasi venti anni or sono), morta il 9
febbraio 2009 (all’età di trentanove anni) a sèguito dell’attuazione della
intervenuta autorizzazione giudiziale al progressivo distacco del sondino che
le assicurava alimentazione e idratazione. Emergono allora prepotentemente (e irrimediabilmente
correlati), gli interrogativi (che comunque sono metagiuridici) in ordine al
fondamento etico del diritto e, consequenzialmente, rispetto alla necessaria
ricerca del senso e del contenuto della scelta etica che sta alla base di una
certa decisione normativa; non si può al riguardo trascurare che il valore
dell’etica nelle scelte giuridiche appare in tutto il proprio rilevante significato
allorché in discussione vi siano, come nel caso di specie, questioni
concernenti la persona umana. Il discorso ovviamente risulta ancora più
complesso nel momento in cui si contrappongono visioni del tutto differenti
della vita e, in questo contesto, dei rapporti tra libertà e autorità; più
specificamente, l’alternativa prospettata è tra il (ben noto) paternalismo
statale (che si attua per il tramite dell’operatore sanitario) e la
autodeterminazione del paziente, quale espressione della irrinunciabile libertà
di ciascuno di disporre (anche) della propria esistenza. In questo difficile
quadro, che postula la risoluzione del quesito in ordine alla libera e
insindacabile disponibilità della propria vita, si inserisce la questione più
propriamente tecnico-giuridica (di carattere, per così dire, operativo),
relativa al rilievo secondo il quale mentre oggi il paziente cosciente ha
diritto di rifiutare le cure e, dunque, può certamente decidere di morire, la
stessa possibilità non viene assicurata al paziente non più cosciente e,
dunque, non più in grado di manifestare la propria volontà; il punto allora è
di stabilire se sia possibile considerare le due situazioni equivalenti,
assegnando quindi ad un soggetto attualmente sano la possibilità di disporre
per il futuro nell’eventualità di una malattia invalidante e impeditiva della
possibilità di manifestare il proprio dissenso circa l’assistenza medica, allo
stesso modo di un soggetto che attualmente assume una decisione in una
specifica situazione concreta e dinanzi a lui chiaramente prospettata e
avvertita. Le soluzioni prospettate nel libro appaiono ampiamente argomentate,
anche in considerazione della attenta analisi delle direttive di fondo del
nostro ordinamento (corroborate dal vaglio della più significativa
giurisprudenza) e delle dichiarazioni di principio contenute nelle Carte
fondamentali (la nostra Costituzione, anzitutto, ma anche la più recente
Convenzione di Oviedo sui diritti umani e la biomedicina), senza ovviamente
trascurare il necessario interlocutore del paziente, ossia l’operatore
sanitario, anch’egli tenuto al rispetto di regole giuridiche (e, in specie, di
natura deontologica, primariamente il dovere di curare) nel quadro di una
sempre più richiamata alleanza terapeutica. Al di là, pertanto, della disamina
di carattere tecnico (che pure evidenzia una certa dimestichezza con le
categorie giuridiche fondamentali), l’interesse suscitato dal libro è dovuto ad
un sapiente dosaggio di questioni etiche, proprio partendo dal problematico
“diritto” di morire (giustamente inserito nei rapporti tra individualismo
egotico e relativismo etico, tratti purtroppo dominanti di questa decadente
modernità), e di questioni giuridiche (dirette ad evidenziare i problemi di
qualificazione e di regolamentazione delle dichiarazioni anticipate di
trattamento sanitario), con la piena avvertenza di essere interpreti obbligati,
in quanto (ma non solo) giuristi, del tempo presente.
Giovanni Di Rosa
(ordinario di Diritto privato, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Catania)
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Il testamento biologico è legge. La sera del 12 luglio 2011, dopo un iter durato due anni e mezzo, la Camera ha approvato il testo con voto segreto, con 278 sì, 205 no 7 astenuti.
Non resta adesso che il voto del Senato, ma la norma è ormai ultimata. E sancisce che in caso di impossibilità di esprimersi un paziente senza attività cerebrale sarà comunque alimentato artificialmente, che le sue dichiarazioni e volontà precedenti non saranno vincolanti, e che i parenti non potranno opporsi a questi tipo di assistenza.
Cosa si può aggiungere a questo punto? Fatta la legge, trovato l'inganno? Proviamo un'altra strada.
Morirò quando morirò
Ma, non prima
Stefano Rodotà, giorno 7 luglio scorso, ha scritto sulle pagine di Repubblica una Nota dal titolo: Testamento biologico: chi vuole rubarci la vita. In essa si legge: "Siamo di fronte ad una vera legge truffa, ad un testo clamorosamente incostituzionale". Per pura coincidenza, proprio lo stesso giorno, consegnavo nelle mani dell'editore Urso il libro di Roberta Coffa, "Esiste il diritto di morire?". A detta di Stefano Rodotà (ma non è il solo, anche se in Italia sono in pochi a esprimersi con competenza, oltre che con franchezza e onestà), quindi, c'è già la risposta: No.
Io penso che se il diritto di morire in Italia non esiste è perché innanzitutto non esiste il "cittadino". E, come scrive Giovanni Boniolo ne "Il pulpito e la piazza" (R. Cortina, 2011): "Quando il gatto (il cittadino) non c'è, i topi (i politici) ballano". La nostra democrazia parlamentare, totalmente occupata dai partiti, che a loro volta sono condizionati, soprattutto elettoralmente, dal potere economico e dal potere religioso, oltre che da ideologismi anacronistici (per esempio, il classico ma non più sostenibile scontro tra laici e cattolici), non tiene affatto conto delle "voci" della società: scienziati, giuristi, esperti, ecc. Se questo tipo di democrazia non viene "aggiornato" ai criteri della democrazia cosiddetta "deliberativa" (dal latino de-librare, portar fuori dalla bilancia dopo aver pesato) che, come scrive Boniolo, "presuppone cittadini informati non solo su ciò su cui si deve deliberare ma sui modi stessi della deliberazione", leggi-truffa, come quella in atto sul testamento biologico, saranno la regola e non l'eccezione.
Ma, se ammettiamo i criteri e i metodi della democrazia deliberativa, dobbiamo seguire il ragionamento di Roberta Coffa, per la quale il problema è proprio l'assenza di una normativa che regoli una materia "fluida" come questa, da cui nasce il rischio di ritenere che il diritto serva solo a mettere pezze giudiziali o legislative "su attese e situazioni che hanno già avuto i propri sviluppi, che non è detto che si riproporranno in futuro negli stessi termini, che non sono sistematizzabili e che sarebbe comunque poco conveniente pretendere di sistematizzare completamente, perché le domande e le prospettive cambiano, i valori sono equivoci e gli interessi difficilmente conciliabili". Questo significa che, riguardo alla decisione della Cassazione n. 21748 del 2007 sulla vicenda di Eluana Englaro e la conseguente decisione della Corte d'appello di Milano autorizzativa della interruzione dei trattamenti che mantenevano in vita Eluana, per esempio, nonostante essa rappresenti in ogni caso "un passo decisivo ed epocale, segno di uno sforzo dei giudici di muoversi con equilibrio nel solco dei principi costituzionali", qualcosa che non va c'è: "Il percorso seguito dai giudici della Cassazione non si può definire limpido, addirittura obbligato, come sosterrebbero alcuni, primo fra tutti Stefano Rodotà. Vi sono delle forzature nei principi dettati dalla Corte".
Quali sono, secondo R. Coffa, le forzature da cui deve partire una seria e approfondita disamina di tutti i punti caratterizzanti la problematica in esame per arrivare a una soluzione equilibrata, sia sotto il profilo strettamente giuridico sia riguardo alle complesse implicazioni di natura etica, culturale e soprattutto scientifica a essa indissolubilmente connesse?
La studiosa di diritto riesce in poche battute a argomentare con estrema chiarezza e con un'analisi attenta, come peraltro avverte nella prefazione Giovanni Di Rosa, Ordinario di Diritto privato di Giurisprudenza a Catania, con riferimento all'intera struttura testuale del libro in esame, le proprie riserve sui principi ispiratori delle citate decisioni giurisprudenziali, evidenziando la plausibilità della critica ai due criteri giustificativi da esse adottati. Precisando, tuttavia, che si debba partire dalla consapevolezza che tali criteri siano stati comunque derivati dal consenso informato, "dal quale discende il potere della persona di disporre del proprio corpo (così la Corte Costituzionale nel 1990) e quindi l'illegittimità di qualsiasi intervento che prescinda dalla sua volontà. Da qui l'imperativa indicazione dell'art. 32 della Costituzione, che vieta qualsiasi trattamento e qualsiasi norma che possa violare il rispetto della persona umana". Ma, subito dopo, avverte: "Siamo sul terreno consolidato del rifiuto di cure, che nulla ha a che vedere con l'omicidio del consenziente o con l'eutanasia".
Quali sono dunque i due criteri giustificativi della Cassazione? "Partendo da queste premesse, la Cassazione ha indicato i due presupposti che, a suo avviso, legittimano l'interruzione del trattamento di sopravvivenza: il 'rigoroso' accertamento dell'irreversibilità delle condizioni cliniche (lo stato vegetativo permanente) e la possibilità di individuare con certezza (univocità) la volontà della persona sulla base di sue dichiarazioni esplicite o attraverso i propri convincimenti, il proprio stile di vita e i valori di riferimento".
Quale infine la critica a essi? "Mancano, infatti, quanto al primo profilo, criteri scientifici per accertamenti oggettivi dell'effettiva condizione di chi si trovi in stato vegetativo permanente (anche di lunga durata), il che dovrebbe imporre molta cautela nella generalizzazione di una regola che, al contrario, non sussiste. E, secondo profilo, stabilire la volontà della persona è procedimento difficile, se non impossibile, che esige grande prudenza, e che non può essere fondato su elementi che non consentono di giungere a conclusioni univoche. La prospettata ricostruzione della volontà presunta rispetto alla cessazione di una vita (futura) ritenuta non più degna di essere vissuta – incalza la studiosa – appare una vera forzatura giuridica e dimentica, peraltro, che neanche in campo patrimoniale (figuriamoci in quello dei diritti inviolabili personalissimi) è ammessa una prova di tal genere (peraltro assolutamente controvertibile) ai fini della dimostrazione dell'esistenza di una volontà di carattere attributivo dei beni per il tempo in cui il soggetto in questione avrà cessato di vivere (non esiste, infatti, nel nostro ordinamento, il testamento orale né per relata persona)".
Ci sono, nell'attento esame del caso da parte di Roberta Coffa – dal latino examinare, ossia osservare attentamente il movimento dell'ago della bilancia –, due aspetti fondamentali per un corretto inquadramento, non solo della problematica riguardante il fine vita, ma, io ritengo, di tutte le questioni cosiddette di biomedicina. Il primo aspetto attiene al ruolo ineludibile della scienza. Il secondo, alla cosiddetta libertà di scelta del paziente. Entrambi gli aspetti impongono la necessità di "un inquadramento legislativo della delicata materia", per quanto sia "evidente che solo in minima parte atti generali ed astratti possono fronteggiare e disciplinare situazioni della vita che si presentano in modo sempre peculiare ed estremo, quali veri e propri casi limite".
Indiscutibile appare allora alla studiosa di diritto, nonostante le svariate posizioni controverse al riguardo, la necessità di una legislazione ad hoc. "Il punto decisivo, allora, è modulare l'intervento del legislatore, auspicando una 'sobrietà' che non significa tuttavia lasciare il singolo esposto al dominio di singole etiche religiose che esprimono talvolta tendenze 'autoritarie'. Piuttosto il Parlamento dovrebbe muoversi nel campo della elaborazione di principi chiari e di procedure lineari e non eccessivamente burocratizzate, ancorché necessariamente legate a parametri netti di valutazione dei casi concreti e tali, eventualmente, da valorizzare a tal fine l'apporto e il giudizio di organismi competenti e indipendenti".
In sintesi, la studiosa ci dice: 1) In una materia come questa, che affronta i problemi "personalissimi" degli individui, non è possibile generalizzare; 2) Contrapposizioni in essa di natura religiosa e ideologica o politica, pertanto, vanno assolutamente bandite; 3) La scienza e il diritto hanno un peso centrale in tutti gli aspetti deliberativi della materia in esame; 4) Occorre perciò salvaguardare un corretto rapporto medico-paziente, rifiutando, da un lato, il classico ruolo paternalistico dell'operatore sanitario e accogliendo, dall'altro, la liberà volontà del paziente (previo il consenso informato), sempre e comunque nella consapevolezza della complessità e non generalizzabilità di entrambi i profili del rapporto stesso (E qui R. Coffa dedica gran parte del libro a sciogliere i nodi più controversi e ambigui relativi: a) al ruolo del medico, anche rispetto alle varie interpretazioni riguardanti i principi fissati dal Codice di Deontologia Medica italiano, b) al valore delle dichiarazioni anticipate di trattamento, dal loro contenuto, alla loro affidabilità e vincolatività, fino alla loro implementazione e riconoscimento giuridico, sia pure in un contesto come il nostro in cui non si può fare a meno di constatare "il carattere deludente e insidiosamente lacunoso del nostro ordinamento giuridico nei confronti dei principi della persona nell'esercizio del diritto alla salute", così come rilevato dal Comitato Nazionale di Bioetica nel parere del 1995.
Niente di tutto questo è tenuto in considerazione da quelli che stanno approvando la “legge-truffa”, che a ragione Stefano Rodotà ha definito "i moribondi di Palazzo Montecitorio". E difatti Roberta Coffa conclude il suo libro con un commento inequivocabile al cosiddetto d.d.l. Calabrò: "delude sotto non pochi aspetti". Delude sotto l'aspetto, falso e spregevole, della tutela del diritto alla vita "senza alcuna declinazione del diritto alle scelte terapeutiche che ognuno può operare in consonanza al proprio e personale concetto di vita". Delude sotto l'aspetto dei trattamenti di idratazione e alimentazione perché ritenuti "forme di sostegno vitale" anziché, come ampiamente dimostrato nel libro, "atti medici" o "trattamenti medici". Delude perché viola palesemente il principio di eguaglianza, dando alla dichiarazione anticipata "valore di manifestazione di orientamento, non di volontà alla attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari. ... In altre parole, dunque, da un lato è posta nel nulla la determinazione del paziente, dall'altro è vanificata l'autonomia medica, la quale risulta legislativamente vincolata anche dalle norme di deontologia". Delude, infine, perché, oltre a quelle già citate, presenta numerose altre anomalie che, al di là delle differenti opinioni che su di esse si possano esprimere, dimostrano inequivocabilmente, non solo un'attenzione meno che sufficiente nei riguardi dei soggetti coinvolti, al limite del disinteresse; ma soprattutto un altrettanto colpevole atteggiamento sbrigativo "non tenendo conto di tutti i diversi aspetti coinvolti nella disciplina di una materia così delicata quale è quella del fine-vita, né dei requisiti di generalità e di astrattezza che dovrebbero essere propri dell'atto legislativo".
L'appellativo di Rodotà fa riferimento, per sua stessa ammissione, al famoso libro "I moribondi di Palazzo Carignano", scritto da Ferdinando Petruccelli della Gattina nel 1862, in cui l'autore esterna tutta la sua riprovazione verso la classe politica formatasi all'indomani dell'Unità d'Italia, alla quale egli rimprovera soprattutto i due peggiori difetti che un politico possa avere: avidità e incompetenza. A ben riflettere, ne è passata di acqua sotto i ponti nella storia del nostro Bel Paese senza che ci sia un solo aspetto della politica che non sia mutato gattopardescamente. Al riguardo, tornando a quanto dicevo all'inizio, a proposito dell'assenza del cittadino, verrebbe voglia di dar ragione alla battuta di Giovanni Boniolo che, in considerazione della tanto declamata bontà degli italiani (che sopportano, sic!, le angherie dei politici da troppo tempo), nel chiarissimo dialetto veneto recita così: "Na volta bon xe bon, do volte bon xe santo, tre volte bon xe mona".
Avidità e incompetenza, ammoniva Ferdinando Petruccelli della Gattina. Lo scritto di Roberta Coffa mette senza dubbio in luce la gravità della volontà di porre del tutto fuori gioco l'incompetenza. A pensarci bene, sarebbe interessante domandare alla studiosa di diritto, se il nostro ordinamento giudiziario preveda l'incompetenza dei politici come reato perseguibile. Come si può constatare per la seconda volta, la tentazione di doverci abbandonare a una sana ironia è inevitabile. Ci ricorda, infatti, Giovanni Boniolo, nel già citato libro "Il pulpito e la piazza" (Cortina, 2011), che nel 510 a. C. Clistene introdusse ad Atene l'ostracismo, ossia la possibilità di esiliare i cittadini indegni per dieci anni. Il termine deriva da ostrakon, il coccio di terracotta su cui venivano scritti i nomi di coloro che venivano allontanati. Precisa Boniolo: "Non era un metodo puramente ateniese. Ritroviamo, infatti, il suo analogo a Siracusa, dove fu introdotto nel IV secolo a. C., anche se forse i Siracusani erano più buoni, visto che l'esilio era di soli cinque anni. Qui venne chiamato petalismo, dal momento che il nome di colui che si voleva eliminare dalla città veniva scritto su una foglia (petalismos)". Noi ci accontenteremmo del ripristino del petalismo; non tanto perché da cittadini siracusani mostreremmo così tutto il nostro “sano campanilismo” (si capisce che è una battuta contro la Lega Nord?), quanto per il semplice fatto che sarebbe realisticamente sufficiente un allontanamento dal potere forse anche per meno di cinque anni dei nostri politici attuali (considerato di che pasta sono fatti) per garantirci un possibile ritorno alla normalità.
Roberta Coffa dedica pagine esemplari alla questione delle dichiarazioni anticipate, e al paragrafo 10 del Capitolo II tratta il problema non secondario di "Come implementare le dichiarazioni anticipate". Dire non secondario, è poco. È esattamente ciò che generalmente dovrebbero fare ma non fanno i nostri parlamentari, ed è soprattutto la causa per cui in Italia siamo ridotti nella condizione che (oramai) sappiamo tutti. Sono d'accordo con Roberta: l'incompetenza, più che l'avidità, è di gran lunga il male peggiore della nostra democrazia.
Inoltre, detto per inciso, sull'aspetto del cosiddetto self interest (in cui rientrano l'avidità e l'egoismo), occorre segnalare che la questione che stiamo affrontando sul testamento biologico, così come tutte le questioni di bioetica a cui la società contemporanea e soprattutto la scienza contemporanea ci obbligano in un modo o in un altro ad attenzionarci, non può prescindere da una seria analisi e approfondimento di tale aspetto, aspetto che è al contempo di natura sociale, etica, giuridica, culturale, oltre che strettamente correlato alle passioni individuali. Da tale analisi potrebbe risultare infondato il convincimento del carattere nocivo per la società dell'egoismo individuale, sia pure nel suo carattere estremo, ossia quando si palesa in tutta la sua bramosia o avidità.
Discorso lungo, questo, che rinvio pertanto ad altra sede, in quanto comporta necessariamente una rivisitazione degli autori classici del pensiero empirista, come Bernard de Mandeville con la sua opera famosa del 1723 “La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù”, e soprattutto David Hume. Di quest'ultimo, grandissimo interprete dell'Empirismo europeo e non solo, segnalo la lettura del libro di Alessandra Attanasio, “Gli istinti della ragione – cognizioni, motivazioni, azioni, nel Trattato della natura umana di Hume” (Bibliopolis, Napoli 2001), e in particolare, per un approfondimento del significato di “sofisma della giustizia” e di “artificio della giustizia”, consiglio la lettura dei Capitoli VII e VIII riguardandanti, rispettivamente, “Il piacere della società” e “L'interesse alla giustizia”. In questa sede, è sufficiente sottolineare il fatto paradossale della nostra attuale maggioranza di governo, che si dice liberale a parole, ma non perde occasione per contraddire la sua stessa matrice ideologica. Specie in una materia come questa in cui, come è stato più volte evidenziato, l'aspetto personale e la tutela dei diritti individuali è questione centrale. La rivisitazione humiana va ancora oltre, sostenendo in via epistemologica ciò che Darwin sosterrà in via sperimentale, e cioè che l'individualismo non solo non è in conflitto con la società (Hume: “Nessun desiderio è pensabile senza qualche riferimento alla società”), ma ne rappresenta il fondamento imperfetto (Attanasio: “Se gli uomini sono gli artefici della loro socievolezza, allora la socievolezza è imperfetta, il bene è imperfetto, ma nella loro imperfezione essi sono terreni.”). Sul malaffare, ad esempio, tanto per non equivocare, non può quindi esser chiamata in causa l'avidità, che è sempre presente nell'istinto dell'uomo senza variazione di grado, ma va tenuta presente la regressione della società verso il minor grado di quella che Hume ritiene essere la molla verso la socievolezza, che egli definisce, con un termine per nulla criptico, “simpatia”.
Tornando all'incompetenza dei nostri politici, è da precisare che, in sede deliberativa, occorre innanzitutto, come ci ricorda Giovanni Boniolo, rispettare i canoni della buona educazione e del ragionamento corretto. Relativamente al primo, Boniolo chiede che gli “si conceda l'ardire di arrischiare qualche norma, ricordandoci che la norma (come l'omofono modo di preparare gli spaghetti o i maccheroncini in Sicilia) può essere sempre oggetto di preziose interpretazioni.” (G. Boniolo, “Il pulpito e la piazza”, Cortina 2011, p. 294). Sono invece più di “qualche” le norme che arrischia, e giustamente, Boniolo. Ma sono sufficienti solo tre punti, per comprendere che la gran parte dei rappresentanti del nostro Parlamento manca dei più elementari canoni di buona educazione: “- Che ogni deliberante, indipendentemente dal credo religioso, politico o filosofico (e a fortiori etico) sia libero di partecipare e di esprimere il suo punto di vista (è l'isegoria di cui si parlava nel primo capitolo). - Che ogni deliberante, indipendentemente dal grado di formazione culturale o dal ceto sociale, sia considerato uguale. - Che ogni deliberante accetti: 1) che se un punto di vista non è stato difeso in modo stringente, allora chi lo proponeva deve sentirsi in dovere di ritirarlo; 2) che se un punto di vista è stato difeso in modo stringente, allora chi vi si opponeva deve sentirsi in dovere di smettere di ostacolarlo”.
Relativamente all'ultima norma, va ricordato che sin dai tempi di Epicuro fu avvertito il bisogno di un canone argomentativo efficace, ossia di un modello valido per la conoscenza; diremmo oggi, c'è, da sempre, l'esigenza di implementare il canone del buon ragionamento. Nella Lettera a Pitocle si legge: "Non bisogna infatti ragionare sulla natura per enunciati privi di riscontro oggettivo e formulazione di principi teorici, ma in base a ciò che l'esperienza sensibile richiede". Tant'è, che proprio in virtù dell'ineludibilità dell'esperienza sensibile, si dovrebbe, sempre e soprattutto, evitare di “manomettere”, per dirla con Gianrico Carofiglio, le parole. Manomissione che in Italia, purtroppo, avviene più del previsto ad opera dei nostri politici, i quali si sentono legittimati a male operare per il diffuso disinteresse presente nella nostra società. Qualcuno potrebbe obiettare che il cittadino può liberamente scegliere di disinteressarsi della disputa politica, ma è bene ripetere che, come avverte Boniolo, in questo caso, “l'apatico e l'accidioso sono costretti ad accettare le decisioni prese, specie se queste vengono ratificate da una norma giuridica”. E prosegue: “Da un certo punto di vista, l'apatico e l'accidioso sono coloro che hanno deciso non solo di disinteressarsi dello sviluppo della società a cui appartengono, ma anche di accettare le scelte degli altri. Può essere anche questa una scelta, ma è da tenere presente che si tratta di una scelta che demanda ad altri da sé l'indirizzo della propria vita nella comunità, oltre che la vita della comunità stessa. Io posso scegliere di non partecipare alla scelta collettiva attuata attraverso la deliberazione; tuttavia, in tal caso, sono gli altri che scelgono per me e io vivrò in una comunità che altri da me ha costruito”.
Roberta Coffa, dunque, nel libro scrive la parola “implementare”, neologismo derivato dall'inglese implementation, che significa “attuazione”, e dal termine implement che come sostantivo significa attrezzo, utensile, e come verbo realizzare, attuare. L'etimologia del termine inglese, a sua volta, deriva dal latino implere, ma nel solo senso di realizzare e non di riempire. Il paragrafo citato, difatti, tratta di come implementare, cioè attuare, realizzare, le dichiarazioni anticipate. Termine tecnico, dunque, implementare, che si riferisce necessariamente a una procedura, a un canone, come dicevo prima. Quale, questa procedura? Non è affatto, come qualcuno può pensare, un modo di agire, tanto per intenderci, da extraterrestre. Né, nonostante il riferimento al neologismo inglese, si tratta di una novità. Era già in largo uso presso i greci e i latini tanti secoli fa. E ci ha accompagnato fino ai nostri giorni senza minimamente perdere di importanza e di efficacia. Si tratta semplicemente, in un contesto deliberativo, come ci ricorda ancora Boniolo, del rispetto del canone del buon ragionamento. Presentare, cioè, lo status quaestionis, mediante il quale si procede nel seguente modo: “1) Delineare in contesto scientifico-culturale entro cui ci si muove, 2) Enunciare concisamente il problema da affrontare, 3) Definire i termini che si intendono usare, 4) Far capire che il problema è effettivamente importante e che la sua soluzione ha un impatto sociale, 5) Mostrare le soluzioni alternative alla propria (che però non si è ancora esplicitato: nota bene) e mostrare, attraverso una critica razionale, perché non le si accetta, 5) Finalmente, formulare la propria soluzione”.
Il libro di Roberta Coffa fa esattamente questo. Ossia, costruisce un buon ragionamento intorno alla DAT (Dichiarazione anticipata di trattamento) o, più comunemente, testamento biologico. Dimostrando che solo in questo modo è possibile trovare soluzioni in merito a tale problema non prive di consenso e tenibili sotto il profilo strettamente giuridico. Soprattutto, ripeto, “non prive di consenso” (nota bene). Consenso al quale non può assolutamente rinunciare, in definitiva, soltanto una società in cui il cittadino non è accidioso e disinteressato, e quindi soltanto una società in cui il cittadino è capace di comprendere che deve (inevitabilmente) morire quando deve morire, ma non prima, come i “moribondi di Palazzo Montecitorio”.
Orazio Parisi |
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- Salvatrice Catinello, Come potrò dire a mia madre che ho paura? (a cura di Roberta Malignaggi), 2011, 8°, pp. 120, € 14,00, ISBN 978-88-96071-48-9
- Mary Di Martino, Musica dell'anima, 2011, 8°, pp. 72, € 12,00 – ISBN 978-88-96071-44-1
- Sebastiano Sirugo, La mia vita in mare, 2011, 16°, pp. 56, ill., € 7,00 – ISBN 978-88-96071-54-0
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