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Riflessioni con eventuali Commenti |
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Leonardo Miucci |
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Salvatrice Catinello
Come potrò dire a mia madre che ho paura?
a cura di Roberta Malignaggi
2011, 8°, pp. 128
Euro 14,00
Collana OPERA PRIMA n. 27
ISBN 978-88-96071-48-9
Ho letto il libro “Come potrò dire a mia madre che ho paura?” a cura di Roberta Malignaggi, edito dalla Libreria editrice Ciccio Urso di Avola, che narra la tragica vicenda personale e familiare di Claudio Macca, un ragazzo avolese tossicodipendente, morto nel 2010 di un male incurabile in conseguenza dell’uso di eroina. La storia è raccontata dalla madre di Claudio, signora Salvatrice Catinello, direttamente alla curatrice, la quale, al fine di metterla insieme secondo un registro narrativo, non si è negata la lettura delle lettere che Claudio mandava dal carcere alla madre, né l’ha preoccupata lo studio della documentazione che ha riguardato il giovane avolese nei suoi trascorsi giudiziari. Il libro si fa leggere tutto d’un fiato, cosa che ho fatto una delle trascorse sere fino alle due di notte. Il merito va ascritto, ovviamente, alla curatrice Roberta Malignaggi.
La lettura del libro mi ha suscitato alcune considerazioni che mi sembra doveroso mettere per iscritto. Anzitutto mi ha colpito la determinazione e la caparbietà di una madre che non ha mai smesso, neanche di fronte alle impossibilità, di lottare per cercare di recuperare il figlio, giungendo addirittura a denunciarlo e, quindi, a farlo trarre in arresto a causa di un furto e di alcune percosse in suo danno: sperava la signora che in carcere egli almeno non si sarebbe drogato. Alla signora Salvatrice Catinello va tutta la mia solidarietà per quanto la vita le ha riservato.
Il fenomeno della tossicodipendenza è concepito dalla società in modo banale ed è, pertanto, in altrettanto modo affrontato. Si è soliti pensare al drogato come ad un malato, mentre si trascura di considerarlo da un punto di vista esistenziale. In tutti i tossicodipendenti che ho avuto modo di incontrare, anche in ragione della mia professione, ho scorto in loro, nei loro sguardi in particolare, un senso di profondo smarrimento, una paura, e credo che quella paura sia addebitabile ad una sostanziale paura di vivere, di affrontare la vacuità della vita. Solitamente il tossicodipendente viene, invece, eluso, scansato e, dunque, emarginato. Ci si interroga poco o per niente sui motivi del drogarsi e siamo portati a giudicare secondo schemi, pregiudizi, dogmi, trascurando di ragionare partendo da una dimensione che vada oltre il tossicodipendente. Ma si sa che porsi in una dimensione meta-tossicodipendente, occorre una flessibilità di vedute, scevre da pregiudizi di sorta. E si sa anche che staccarsi dai dogmi è cosa assai ardua. La nostra forma mentis è strutturata in modo tale che qualsiasi fenomeno, prendiamo a studiarlo soggettivamente, a partire da ciò che ci appare davanti, senza curarci delle condizioni che hanno dato luogo a quel fenomeno. L’osservato e l’osservatore: chi dei due dice la verità?
Per capire il tossicodipendente occorre una rivoluzione copernicana: non bisogna osservare il drogato, ma sforzarsi di capire quali siano le condizioni che lo creano. E le condizioni sono sotto gli occhi di tutti, basterebbe osservarle: una società individualista, incapace di “curarsi” delle persone bisognose; una società assente riguardo gli emarginati; una società senza coscienza civica; una società in cui a vincere sono solo coloro che vengono rappresentati da rapporti di forza superiori; una società in cui le leggi di mercato ordinano la vita di ognuno senza che l’individuo possa avere la facoltà di decidere secondo le sue aspirazioni, la sua cultura, i suoi bisogni; una società in cui ormai neanche più il diritto riesce a regolamentare. In un modello sociale di tal fatta l’individuo più sensibile vive male, egli non sa come sfuggirgli, e cerca vie d’uscita. Va bene quando le trova, e qualcuno con un po’ di fortuna le trova; altri no. Pur cercandole in tutti i modi.
Credo, contrariamente al senso comune, che il tossicodipendente sia una persona che scopre improvvisamente una sorta di male di vivere dal quale non riesce a fuggire; non riesce, come direbbero gli analisti, a sublimare o a rimuovere, ché la sublimazione o la rimozione gli darebbe la garanzia di una vita “normale”; lui cerca una via d’uscita dalla verità esistenziale, troppo vera e troppo angosciante da accettare, una via che il poeta troverebbe nella poesia, l’artista nell’opera d’arte; il tossicodipendente la trova nell’eroina. Egli colma il suo vuoto riempiendosi di dosi. Il tossicodipendente si fa contenitore per riempire il suo vuoto.
Tra il drogato ed il poeta non vedo nessuna differenza, anzi vi scorgo una sostanziale continuità di pensiero, sebbene con modalità diverse. E mi viene in mente Baudelaire con la sua opera I fiori del male, metafora che il poeta usa per descrivere il suo fuggire dall’angoscia di vivere rifugiandosi nell’alcool e nella droga.
Oltre al problema della tossicodipendenza il libro pone all’attenzione della nostra coscienza di cittadini quello delle carceri, esperienza che Claudio Macca ha purtroppo maturato più di una volta. Il Ministro di Grazia Giustizia Paola Severino, nei giorni scorsi, dopo le visite presso alcuni penitenziari del nostro Paese, ha definito il carcere un luogo di tortura. Lo stesso ministro, nella sua prolusione pronunciata presso la Corte d’Appello di Catania, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha affermato che “dalle situazioni delle carceri si misura il livello di civiltà di un paese” e che “lo Stato non ripaga mai con la vendetta, ma vince con il diritto e l’applicazione scrupolosa di regole e legge”. Secondo l’ordinamento giuridico italiano, e precisamente in virtù dell’art. 27 della Costituzione, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una breve e sommaria esegesi della norma porta subito a considerare che il senso di umanità non può che consistere in quelle possibilità nelle quali l’essere umano possa trovare la sua totale realizzazione come persona. È ovvio, dunque, che una prima caratteristica estrinsecativa di questo senso non può che essere la necessaria condizione di libertà. Sia chiaro: non intendo dire che colui il quale commette reati debba rimanere impunito. Come dico che è giusto che il delinquente sconti la sua pena per i reati arrecati. Ma dico anche e semplicemente che la galera, vista come pena capace sia di risarcire il danno arrecato dal reato sia di rieducare il soggetto, ha pienamente fallito. E devo dire che anche in questo caso si evita di affrontare nel giusto modo il fenomeno, preferendo guardare il carcerato in quanto tale, piuttosto che le motivazioni che lo hanno indotto a diventare tale. Trascuro qui di considerarle in modo approfondito, perché le ritengo in linea di massima, fatte salve alcune specifiche eccezioni, tutte riconducibili a questioni di natura culturale ed economica; culturale perché, come i sistemi criminali insegnano, c’è una avversità ad accettare la presenza dello Stato quale unico soggetto detentore della forza, là dove per forza non dobbiamo intendere solo ed esclusivamente l’uso fisico di essa, quanto piuttosto la possibilità di applicare le regole del diritto, munite di sanzione: la mafia ha le sue di regole e per essa bastano e avanzano; economica perché, ed in questo caso è l’analisi marxiana ad insegnare, le condizioni di vita di ciascuno di noi sono dettate da fattori esogeni dalla volontà del soggetto e sono determinate sostanzialmente da lotterie economiche delle quali la persona non possiede il controllo.
Sembra emergere oggi una coscienza nuova attorno al fenomeno carcerario, una coscienza che proviene anzitutto dalle istituzioni che a quanto pare sembra abbiano assunto consapevolezza della drammaticità del problema. Mi preoccupa, tuttavia, il fatto che si tenti, come sempre, di affrontarlo con espedienti di contingenza, quali scarcerazioni facili, amnistie, detenzione domiciliare e quant’altro, e mai attraverso un proposta che prenda in esame, in modo coraggioso, la possibilità di un cambio culturale che si ponga l’obiettivo di creare modi di espiazione della pena diversi dal carcere. Come può un carcerato, che vive per anni insieme ad altri carcerati condannati per reati più o meno gravi, redimersi, interiorizzare le sue responsabilità e, dunque, capire d’aver sbagliato e proporsi un reinserimento nella società? Il più delle volte il carcerato avverte la pena detentiva come conseguenza ingiusta dei reati commessi e molto spesso il carcere, soprattutto quando è alla prima esperienza, diventa una sorta di iniziazione; molti mafiosi e non, dopo qualsiasi periodo di detenzione breve o lungo che sia, plaudano all’esperienza fatta perché ritenuta nel loro ambito culturale altamente formativa per il loro delinquere. È una specie di corso formativo riservato a chi decide di continuare su quella strada.
Chi è dunque il malato? Il tossicodipendente, il carcerato, o la società nel suo complesso di uomini cosiddetti normali, che non s’avvede, o preferisce non avvedersi, ché la verità fa male sentirsela dire?
Ecco allora che, attraverso la pubblicazione della sua tragedia familiare e quella del figlio Claudio, la signora Catinello, sebbene motivata ritengo da un inconsapevole bisogno di rimozione del senso di colpa per non essere riuscita a strappare il figlio alla morte, credo che abbia voluto rivolgere alla collettività un invito alla riflessione sul fenomeno della tossicodipendenza, stimolandoci a guardare oltre, e sul sistema penitenziario, che così concepito e strutturato annulla ogni possibilità di rieducazione del condannato, annientandolo come persona.
Il coraggio di questa madre è rappresentato dalla scelta consapevole di rendere pubblica la sua tormentata e tragica esistenza e quella del figlio tossicodipendente, nella speranza che ciò possa sensibilizzare la comunità nella quale la gente sana, normale e socialmente accettata crede di vivere.
“Come potrò dire a mia madre che ho paura?”
Nella crescita di ogni uomo la presenza della madre è determinante, perché è grazie alla madre che la persona diventa soggetto. È una brutta parola quest’ultima, che non mi piace, sa di tecnico e, quindi, di artificiale. Ma così è. Nel regno animale, sappiamo che il cucciolo appena nato è immediatamente accudito dalla mamma, che lo lecca, gli trasmette con il suo fiato un senso di sicurezza come a dirgli “non ti preoccupare, ci sono qua io, gli sciacalli staranno alla larga”. Il cucciolo appena nato ha paura della vita, perché ancora non la conosce ed anche quando inizierà a conoscerla avvertirà sempre quel senso di insicurezza, di disagio, di paura. Ma ci sarà sempre sua madre a proteggerlo, a difenderlo.
Avola, 29 gennaio 2012
Leonardo Miucci
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Mary Di Martino |
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Venerdì, 9 Settembre 2011 03:49 IP: 2.198.166.209
Giovanna Fanizza
Paseo Orinoco
autorinediti
Ognuno di noi è la somma delle esperienze che ha fatto, delle persone che ha incontrato e dei luoghi dove è stato… delle storie che ha ascoltato.
Ecco l’esistenza: radici ma anche ricordi, legati da uno stretto connubio, che camminano insieme con noi e sono le nostre storie, tra passato e presente, sempre in movimento… e da portare come bagaglio.
Radici, dunque, come vite fatte di storie… storie come ricordi…, che si dilatano nello spazio e nel tempo.
Seguendo la fitta rete dei loro incroci e delle loro diramazioni, Giovanna Fanizza in “Paseo Orinoco” racconta sottovoce, intrecciando realtà e fantasia e raggrumando luci e ombre, una storia che, nella sua apparente semplicità, è un piccolo prezioso arazzo intessuto nella densa trama della vita di un tempo passato… brandelli di storie, persone e luoghi, che trasportati sul filo del ricordo, scorrono in queste pagine, ora allegre ora commoventi.
Sì, il romanzo di Giovanna è una cartolina d’altri tempi, che fa da sfondo alla storia di una donna che riesce a liberarsi dai tabù dell’epoca… è chiaramente un ritorno alla memoria umana, alle piccole memorie, un rivedersi a ritroso alla ricerca dei ricordi, di quei momenti che vengono consacrati come i migliori – e per taluni anche i peggiori – del proprio passato: l’infanzia, l’adolescenza, la gioventù.
(G. Stella).
Ogni singolo atto o episodio del racconto è come un bocciolo chiuso… un bocciolo i cui teneri e profumati petali si schiudono, ad un ad uno, piano piano… ed ecco, alla fine, un fiore!
E’così che il suo libro va sfogliato… lentamente, step by step, per riuscire a coglierne i colori e le delicate sfumature, per assaporarne le vivide, fresche emozioni che lo pervadono con le nostalgiche immagini evocative dei luoghi d’infanzia (Mola di Bari, Ciudad Bolivar…), per gustarne, come una moviola del tempo, ogni fotogramma della vita che passa, come l’acqua del fiume Orinoco, in continuo divenire...
Il racconto che, incatena e incanta, incastonando ogni momento nelle nostre vite, è un affresco a molti voci, tutto a tinte femminili, all’interno del quale si susseguono situazioni, rapporti umani, battaglie private e pubbliche, episodi familiari, altalenanti tra gioie e dolori, tra effetti e affetti ritrovati, celati nella terrena, e spesso tragica, normalità della vita.
L’autrice con accorata sincerità e sensibilità scrive: “Perdere qualcuno che ami, significa la vita che cambia… a volte il destino è crudele e quando gli eventi ti passano davanti scanditi dal tempo in una successione così tragica, lo è ancora di più”.
“E’ la storia che si ripete”.
Nel contempo, in questo scenario tanto intimo quanto dolente, Giovanna con sapiente maestria volge uno sguardo retrospettivo a una serie di momenti di forte cambiamento economico-sociale, che hanno segnato in modo consistente l’evoluzione del nostro paese a partire degli anni ’50. E di quegli anni l’autrice parla con immediatezza e lucidità, con commovente trasparenza e ardita partecipazione.
Si tratta di grandi e tumultuosi avvenimenti che riguardano tutti: il “boom economico” con i suoi effetti innovativi sugli stili di vita, l’emigrazione non solo nel nord d’Italia e nel nord d’Europa, ma anche in Sudamerica come il Venezuela, che ha una parte considerevole in questa storia, la contestazione giovanile del ’68 contro modelli di società e di cultura considerati obsoleti, la libertà sessuale delle donne, la legge per il divorzio.
E’ indubbio che questo affascinante intreccio, così vibrante di passioni, eventi e persone contribuisce a fare di “Paseo Orinoco” un itinerario stimolante di lettura, soprattutto un insegnamento per le donne di oggi, che sollecita spunti per dibattiti e approfondimenti, confronti tra vecchio e nuovo modello sociale del contrastato mondo femminile: i condizionamenti ambientali a cui erano sottoposti le donne, l’onta della gravidanza fuori dal matrimonio, l’obbligo di farsi carico del focolare domestico...
“I tabù iniziano a cadere, le donne non vogliono più adattarsi all’architettura sociale maschile… ed è qui che lei diventa libera…”
E in tutto questo ordito, nel quale assumono spessore e vigore le due protagoniste, le figure centrali presenti e agenti del romanzo, quella platea, che è l’immenso teatro della vita, restituisce colore e sapore alle personalità individuali, fissandone i tratti esistenziali… acquisisce sostanza, contraddizioni e verità. Si affolla di pensieri e drammi, di sfumature inedite, di “scintille che creano nel cielo l’atmosfera carica di Speranza per chi riesce a vederne una”.
“Un esercito di stati d’animo aspettavano di essere allineati secondo il giusto ordine”.
Come l’Orinocometro, “l’isolotto magico”, che la protagonista vedeva “venir fuori dal fiume e diventar alto”, così la sua Anima ora riemerge luminosa dai sopiti e scuri fondali, non più come “specchio appannato” dal passato” ma palpitante di “luce… e gratitudine per la vita”, mentre la sua esistenza, lungo il viale di Paseo Orinoco, scorrerà “come l’acqua del grande fiume con i suoi periodi di secca e di piena”, ormai forte e sicura grazie agli “argini possenti”… dell’Amore.
Mary Di Martino
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Mary Di Martino |
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Mercoledì, 3 Agosto 2011 03:22 IP: 2.193.212.137
Fulvio Maiello, Il crepuscolo della nobiltà, Libreria Editrice Urso
Un’immagine… una sola.
Un balcone… non uno qualsiasi ma uno fra i più belli del mondo… antico, sontuoso, monumentale dalla ringhiera panciuta in ferro battuto, sorretto da un maestoso mensolone di pietra bianca calcarea abilmente scolpito e raffigurante sirene…
Ecco, su uno sfondo dall’intenso colore giallo oro, è questa l’immagine posta in primo piano alla copertina del bel libro di Fulvio Maiello “Il crepuscolo della nobiltà”, come simbolo di un passato glorioso…
Un’epifania… a rappresentare la ricchezza e lo sfarzo dell'epoca barocca in Sicilia e, al contempo, il desolante, triste declino di una elite tradizionale. Metafora di un universo destinato, come tutto e tutti, a perire nella polvere e nell’oblio... in quel nodo fra tradizione e velocità dei mutamenti.
In un trionfo di stile ricercato e di creatività fino al parossismo, dunque, un balcone, fra i tanti, di un fastoso palazzo storico nella sublime, sorprendente, stupefacente bellezza della Noto aristocratica ed elegante della prima metà degli anni Cinquanta, in una fase di preludio al cambiamento economico, che costituisce lo sfondo di questa fantasiosa storia, su cui si consuma il languido e struggente tramonto di un antico casato dell’elite tradizionale netina, quello della famiglia dei baroni Piazza d’Alveria … assieme al desiderio di tenere vivo il ricordo della sua magnificenza, dei vetusti splendori di quella che è stata… e ora non è più!
“Non ci sono più i balli e le feste di un tempo… quando la nobiltà era una cosa seria, una missione.... Era cominciato il declino dei nobili, chiusi nei loro riti… Erano le famiglie più fedeli al re al tempo della casa regnante dei Borboni e a corte avevano ricevuto i privilegi, i titoli nobiliari e vasti latifondi, ma ora erano ridotte a difendere con le unghie e i denti i loro possedimenti dalla nuova politica venuta in auge dopo l’unità d’Italia…”.
Sotto la luce rischiarante dell’inquadramento temporale, la lucida analisi di Maiello non fa che mettere in risalto la netta incompatibilità tra la nobiltà e la modernità, tra la nobiltà e la politica. E’ l’incolmabile fossato tra una nobiltà che spreca la sua agonia in uno sterile recupero degli antichi privilegi e una società che, nel corso della sua inarrestabile trasformazione, vive momenti di profonda crisi…
Ora “un vento nuovo soffiava sulla Sicilia e aveva l’odore del progresso e dei commerci… a Noto tutto stava cambiando velocemente… Le famiglie nobili…, per la prima volta nella storia, si scoprivano deboli e indifese e non riuscivano più a guidare gli avvenimenti…”.
In questo malinconico scenario, oscillante tra vecchio e nuovo, in cui tutto sembra sfuggire di mano e nulla può soddisfare il casuale succedersi di eventi, ciò che convince del racconto di Maiello è la sapiente costruzione di vicende che, intrecciandosi in una ghirlanda di spunti, di elementi inventati e reali allo stesso tempo, vanno a comporre un raffinato quadretto d’antan, una storia ben calibrata nell’impianto narrativo, sottile e precisa come un ricamo, che non sarebbe dispiaciuta a Tomasi di Lampedusa, l’autore del “Gattopardo”.
Le dinamiche politiche, sociali, economiche di quegli anni, insieme a quelle indicative di una buona conoscenza della storia dell’arte, sono tutte ben presenti all’autore, che, possedendone le chiavi interpretative, evita di darcene una traduzione didascalica e preferisce invece affidarle ai suoi personaggi, che le fanno scaturire direttamente dal vissuto quotidiano.
Nei colloqui, vivaci e frequenti, nelle puntuali descrizioni di quell’ambiente frivolo e leggero, nelle accurate e fantasiose ricostruzioni dei fatti, emerge una poliedricità di eventi storico-sociali reali, significativi degli anni Cinquanta (come le lotte per la riforma agraria e per l’occupazione, l’emigrazione, il “Miracolo economico), che segnano il trascorrere del tempo e illustrano efficacemente sia i sintomi del disfacimento nobiliare e della debilitazione personale sia le condizioni di vita e di lavoro delle classi sociali meno abbienti.
La lettura del romanzo, attraverso le digressioni sulle vite e vicende parallele e incrociate, coinvolge profondamente il lettore e gli restituisce il piacere di fare una speciale passeggiata a ritroso nel tempo per immergersi, con naturalezza, nel cuore antico di uno spazio circoscritto così pregnante di emozioni, capace di contenere una moltitudine di gesti e discorsi, di gioie e speranze.
Le sequenze, simili ad eleganti riquadri in miniatura, sono studiate non solo per tratteggiare personaggi a tutto tondo, ma anche per delineare accuratamente ambienti, situazioni con parole che, a volte, sfiorano la poesia, tramutandosi in versi...
I connotati fisici e geografici dei luoghi, puntualmente descritti con dovizia di particolari da Maiello, infatti, sanno restituirci con efficacia immaginativa un agglomerato sensibile di essenze naturali, quali il clima, i profumi, i colori e le luci, che si associano amabilmente ad antichi ritmi quasi alla ricerca di una ieraticità della terra, di quell’affascinante, infuocato, nobile lembo della Sicilia sud-orientale: Noto e dintorni… San Corrado, i paesaggi… in quel loro misto di terra e di mare, di vento e di afa, di sole e di ombra…
“Un paese calmo e composto”, un luogo… che, come ebbe a dire la stesso Gesualdo Bufalino, “se uno ci capita, resta ammaliato, intrappolato e felice”. “Il Giardino di pietra incantato, il giardino delle fate… che sembrava una cartolina turistica… con un susseguirsi straordinario di opere monumentali… dotata di un’anima che si manifestava con fremiti leggeri nel passaggio dalla luce delle facciate di pietra all’ombra delle vie”.
Reali, vivide immagini d’ambiente queste, sempre gradevolmente incastonate nel racconto e, così, abilmente fuse con le figure dei due baroni protagonisti, padre e figlio, che si snodano tra le pagine del romanzo in un itinerario fluido e costante, mescolandosi, sempre sul filo della fantasia, con la storia e la vita degli altri personaggi.
Senza enfasi e con la delicatezza del conoscitore profondo dell’animo umano, all’interno di una realtà soffocata dalle apparenze, il narratore mette in luce un caleidoscopio di umanità: i sentimenti, le espressioni, i conflitti interiori dei baroni, Lorenzo e Francesco Piazza d’Alveria. Ultimi rappresentanti di quella aristocrazia “avvinghiata all’imperativo di declinare sopravvivendo o sopravvivere declinando” (G. C. Jocteau) nel trapasso tra antico e moderno, nel momento storico di svolta tra un passato regime e un avvento borghese.
Il barone Lorenzo, anziano e infermo a causa di una paralisi alle gambe, fin dall’incipit, rivisitando la sua vita come sono solite fare le persone avanti con l’età, si presenta introspettivo… è “un sentimentale nostalgico che viveva di formalità e ricordi e non si accorgeva che i tempi cambiavano… si rivedeva giovane quando girava in lungo e in largo per le sue campagne con il calesse e i contadini si levavano la coppola al suo passaggio…”.
Il figlio Francesco, invece - come si legge nel romanzo – “sembrava non avere ereditato nulla dell’antica nobiltà del casato”. Presto, però, “cambia pelle e testa…”. Dietro le sollecitazioni del padre a curarsi delle vaste proprietà di famiglia, il giovane barone, infatti, passa da una gioventù godereccia a uno stile di vita più assennato.
Ritrova l’amore vero per una ragazza della buona borghesia netina e si impegna in un’attività imprenditoriale volta a un ammodernamento economico dei suoi vasti possedimenti. E’ ora un uomo sicuro di sé… seriamente proiettato verso “il giorno che verrà…” di una nuova alba!
Con un atteggiamento elegiaco e pensoso, l’autore delinea, scruta il percorso evolutivo del giovane barone, il quale, al di là della nobiltà di sangue, testimonia la vera nobiltà sfatando in tal modo il classico clichè di un’innata superiorità di questa rispetto alle classi sociali subalterne.
“La nobiltà - è lo stesso padre a ricredersi sulla sua funzione - non poteva costituire una differenza rispetto agli altri uomini perché tutti nascono allo stesso modo, nudi e indifesi, belli o brutti, sani o malati… Nobili si era nell’animo e la nobiltà era una categoria dello spirito non attribuita da una pergamena o da uno stemma, ma innata nel cuore e nella mente”.
Francesco, consapevole della progressiva parabola discendente del suo ceto e dell’economia agricola, su cui esso, per secoli, ha costruito le sue fortune, ora è pronto a “dare… a fare qualcosa che vada a beneficio dei concittadini per aiutarli nelle attività d’impresa…”. E, acutamente, intuisce che “esisteva un altro mondo al di fuori del suo… non più diviso in due categorie… che niente era più come prima… che i vecchi riti familiari non avevano più senso e la considerazione della gente non si basava più sul titolo ereditato dagli avi ma sulle qualità e l’intelligenza personale”.
Ora una luce improvvisa trapassa la mente del giovane barone e arriva al suo cuore come uno spiraglio nelle tenebre, che gli permette di uscire dal suo bozzolo dorato: è la spinta di un sentimento di riabilitazione, che rappresenta la storia della sua realizzazione personale, è la via per la rinascita, è la scoperta dell’Amore…, attraverso una nuova visione del mondo generata da forze centrifughe opposte sorprendentemente cariche di vitalismo, di azione e di speranza.
Nelle ultime pagine del romanzo l’epilogo, che rivela la coerenza e la tenuta dell’opera, vede l’anziano barone finalmente sereno e soddisfatto: l’attività imprenditoriale è ormai avviata e il sogno di vedere il figlio mettere su famiglia è realizzato. Ora vive con la garanzia di una continuità nella tradizione e nel ricordo, ma con lo sguardo avanti… di un futuro certo nella continuità del proprio casato.
E’sicuramente il modo più esclusivo di dare un senso alla propria vita, di salvarsi dall’abisso dell’incipiente dissoluzione, e di credere nei valori nobili e immutabili, attraverso la memoria.
Ed è anche un modo per ricordare ad ognuno di noi che, pur nella negatività del reale, c’è sempre posto per un orizzonte, al di là del quale possiamo guardare per andare verso un futuro che ci appare nuovo e meraviglioso…
“E’ la musica che nessuno ha scritto ma che tutti possono sentire, se solo lo vogliono”.
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45) |
Mary Di Martino |
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Località: Pachino |
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Giovedì, 30 Giugno 2011 22:16 IP: 2.193.193.134
Per "Poesie d'estate" di Cettina Lascia Cirinnà
Ho letto, “gustandole” col cuore e con la mente, le poesie di Cettina, a me parse, per musicalità e contenuto, come piccoli e amorosi lieder dal sapore elegiaco, delicate emanazioni intimistiche che testimoniano “quell’esserci all’interno del tempo”, accompagnate dalle suggestive e avvolgenti istantanee di essenzialità e di luce mediterranea di Fabio Montalto, fotografo artistico per eccellenza.
Si tratta di un’immersione profonda e nostalgica nel mistero dei sopiti “fondali marini” della sua Anima “leggiadra e palpitante di emozioni, / che esplora ogni angolo sconosciuto / all’inconscio che riemerge dall’apnea / in cui le maglie della Ragione con i suoi orpelli l’ha costretto”.
Rischiarata dai benefici raggi solari della memoria, in un fluire ininterrotto di sinergiche fusioni di profumi, colori e sapori, l’Anima - come dice l’autrice - “si dondola nella culla dei ricordi”.
Sì, i ricordi… gli anni più belli della nostra vita: l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza. Come afferma giustamente Giovanni Stella, nel suo libro “Miele estremo”, bisogna “ricordare per rivivere, perché nel ricordo, attraverso il ricordo, la memoria umana e quella storica hanno contezza ancora della propria presenza, della propria esistenza, prima che l’assenza, l’oblio, tutto cancelli nell’individuo, lasciando traccia solo nella pagina scritta di un libro…”.
E così, l’Anima di Cettina, “come una ballerina che danza sulle punte”, espande i suoi protettivi riflessi su tutti per “volare felice come una libellula nel vento” e approdare in un osmotico abbraccio tra la bellezza di Madre Natura e il parossismo dell’Amore per la propria terra di origine, la Sicilia, dove “il Giardino di pietra”, plasmato dalle dolci rimembranze legate alla sua infanzia, “rifulge… luoghi scolpiti nella mente / di un passato che il presente incalza senza posa…”.
Sono 58 quadretti poetici venati di una leggera malinconia contenenti graziose metafore di vita e di sogni, che parlano innanzitutto agli occhi, all’orecchio… e al cuore. Un rigurgito di affetti, emozioni e valori che si posano come petali sparsi sul letto stanco della vita per ritrovare finalmente ristoro, per cogliere “l’attimo fuggente della felicità”, senza mai lasciarsi abbandonare dal filo magico della fantasia.
Le poesie di Cettina sono semi di speranza che si animano librandosi nell’aria, come il bel cappello di paglia bianco ornato di un lungo nastro rosso, che si vede in primo piano sulla copertina del suo libro. Semi che, trasportati dal “vento caldo di scirocco” trovano alla fine terreno fertile per germogliare sicuri e abbondanti in un rigoglioso e colorato campo di grano, simile - guarda caso - ancora a quello raffigurato sulla stessa copertina.
I versi vibranti delle sue poesie ci illuminano, ci elevano, si rivolgono a noi lettori con fare parenetico, stimolano la nostra sensibilità agendo come un balsamo per i nostri cuori. Un invito, quello della poetessa, a credere nell’insopprimibile valore universale della Poesia che, “come un cappello di paglia al vento porta gioia nel cuore / desiderio di vivere… / fino all’ultimo respiro anelante / di un’Anima girovaga per le vie del Mondo…” … ove più versi / di sue dolcezze il lusinghier Parnaso / e che ‘l vero, condito in molli versi, / i più schivi allettando ha persuaso. (T. Tasso, Gerusalemme Liberata).
Mary Di Martino
Pachino, 25 giugno 2011
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Sonia Alia |
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Martedì, 24 Maggio 2011 17:15 Host: host247-100-dynamic.17-87-r.retail.telecomitalia.it
Giovanni Manna
Ombre di felicità
Libreria editrice Urso
La cattura della propria Vita è un dramma che non vorremmo mai incontrare ma è inevitabile. La penna rimane sempre un'ottima lama. Sandra Carresi
Chiuso il libro "Ombre di felicità”, a lettura terminata, ho spontaneamente ripensato alla frase di Sandra Carresi, su citata.
Ho considerato come Manna abbia composto il romanzo, utilizzando la scrittura quasi come mezzo che potesse permettergli di limare i contorni di una realtà avvertita come scenografia formata da puzzles di uomini e di cose, in cui i pezzi d’anima di ciascuno vagano, sospinti dal caso, lungo un percorso indecifrabile e senza meta stabilita. Il tempo, scandito dalla ripetitività e dalla uniformità dei personali riferimenti che, quando vanno perduti, perdono anche la scansione delle lancette, è uno dei protagonisti del romanzo, insieme alle 7 note musicali. Essi s’intrecciano alle persone di Mimmo, Barbara, Carlo, Sthephan, Lian, Graziella, Giuseppe, Chantal, Matteo, Luca, tutti “ombre di felicità” offuscata dalla malinconica percezione che: “è la casualità a determinare se al di là del muro c’è qualcuno che ride, (o soffre), o si commuove”. Gli ambienti in cui i protagonisti si muovono hanno nomi geografici e collocazione storica: Vicenza, Gela, ambiente scolastico, anni contemporanei, un ipotetico 2041. Ma le delimitazioni spazio-temporali sono relative nella visione dell’autore che interpreta l’esistenza come “un grande teatro che non ha posti a sedere per il pubblico ma in cui il pubblico è tutto sulla scena, tutto in tempo reale”. Concezione pirandelliana dell’esistenza anche se, a differenza di Pirandello, Manna vive in un’epoca in cui i ruoli sociali che gli individui interpretano non sono più così fissi e rigidi come quelli con cui il grande drammaturgo doveva fare i conti. Che la realtà di ognuno sia solo immaginaria: un insieme di rappresentazioni, di emozioni, di sensazioni e di fatti vissuti o solo sfiorati individualmente, attualmente può essere molto più liberamente affermato, sorretto, “interpretato”, rispetto ad una trentina di anni fa. I libri sono pensieri lanciati nello spazio astratto della mente che li ferma, definisce, elabora, accoglie e/o rifiuta. Ogni libro, quindi, proprio per il potere straordinario che ha di attivare l’ energia della mente, ha sempre un valore grande, anche a prescindere dal pregio artistico. Un libro, infatti, è sempre un contenitore in cui immergersi per confrontare la propria umanità con quella altrui che, in ultima analisi, è quella collettiva di identiche anime impegnate a realizzare la stessa epopea: vivere. E il romanzo di Giovanni Manna, quale contenitore di “comune vita”, è anch’esso luogo d’incontro e confronto.
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Sonia Alia |
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Venerdì, 20 Maggio 2011 21:02 Host: host250-99-dynamic.18-87-r.retail.telecomitalia.it
Mary Di Martino
Musica dell’anima
Libreria editrice Urso
Lentamente ho letto il libro.
Ogni pagina andava letta lentamente, come vanno lette le pagine di ogni libro, che rivelano i pensieri di chi li espone.
Il libro rivela non solo pensieri ma anche pezzi di anima (in linguaggio fenicio-ebraico antico: ANI = IO (essere) e MA = Energia Pensante).
E, nel suo poetare, l’ anima di Mary la si può scorgere concretamente.
Anima costituita da energia buona, alimentata nel corso degli anni, ed ancora alimentata, da amore, attenzione, empatia, cultura, sensibilità e anche sofferenza.
Le liriche "Una luce diversa" e " La mia musica", insieme alla copertina del libro, con il suo pentagramma e lo sfondo azzurro, sono la rappresentazione più contornata di tale anima.
Gli amici, come i parenti, non si scelgono.
Si, per me anche gli amici non si scelgono.
Ci capitano, come dono o non dono del destino.
Ed io sono contenta dell' opportunità datami dal caso di avere incontrato Mary.
Il valore dell’ Amicizia è la possibilità di scambiare comunicazione in grado di arricchire, dando anche la speranza nell' esistenza di anime chiare e gentili che, anche in un' età non più infantile o adolescenziale, possano sostenere e condividere sogni ed ideali.
I sogni, gli ideali di Mary sono realtà nelle rime che diffonde e nelle azioni concrete con cui li realizza nel lavoro, nella famiglia e in società.
Si avverte in maniera tangibile che le sue parole poetiche non sono vuoti contenitori senza sostanza e che la raffinatezza con cui componi i propri metri non sono mero esercizio stilistico.
L’amica Lucia Bonanni ha scritto, nell’ interpretare il “senso” del poeta:
...poeta che si esprime con le parole, con le note musicali, con i pennelli e i colori, con la danza, con la fotografia, con le attività plastiche, con il sorriso negli occhi, una carezza nella voce, un gesto solidale, perché il poeta fa parte di quella gente..."que con solo decir una palabra/nos invita a viajar por otras zonas… (Che con il solo dire una parola / ci invita a viaggiare in altri luoghi ).
Condivido ogni parola di Lucia e tale condivisione mi fa considerare ancora più pregevole il libro “Musica dell’ anima”.
Le coscienze possono essere scosse anche tramite l’ empatia…
Al di là del loro importante valore formale, la pietas e l' afflato rendono preziose le liriche di Mary, facendone proprio una musica da comunicare e disperdere nei luoghi dell'Umanità.
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Giovanni Stella |
guntba@tin.it |
Località: Avola |
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Mary Di Martino
Musica dell’anima
Libreria editrice Urso, Avola 2011, pp. 70, € 12,00
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Secondo alcuni fu Giuseppe Ungaretti, secondo altri (fra questi Fabrizio De André, l’indimenticato poeta e cantore) fu Benedetto Croce a dire che fino a diciotto anni tutti scrivono poesie. Dopo lo fanno solo i poeti e i cretini.
Mary Di Martino fa parte della schiera dei poeti.
La sua silloge d’esordio, fattami dono della prima copia dall’editore Ciccio Urso al momento dell’uscita del libro – circostanza che evoca né più né meno la nascenza di una creatura – Musica dell’anima, ha come sottotitolo “Luogo e scrigno dell’Umanità”.
Pretenziosa, in verità, la titolazione ma a ben leggere essa deriva dalla forte carica emotiva che l’autrice ha riversato sulle pagine bianche annerendole di versi, delicati e incisivi ad un tempo.
Mary Di Martino è nata a Toronto (Canada), ma vive da illo-tempore, sposata con due figli, a Pachino (Siracusa), Capo Sud d’Europa, terra famosa per il pomodoro ciliegino e per i vini in purezza, ma anche stupendo angolo dove due mari, tempestosi come innamorati, si incrociano. Terra che come porta chiude e apre da e verso l’antico continente, oggi fatto oggetto di speranza di vita e di lavoro di gente che, disperata, fugge dal mondo arabo (punta di un iceberg, portante l’intera Africa che bussa alle porte del Pianeta…).
Il luogo d’origine e quello di vita dell’autrice, così profondamente diversi, hanno probabilmente inciso nella sua formazione e personalità.
Appassionata da sempre di musica, arte nobile e leggera per eccellenza, ora si è scoperta anche votata alla poesia che del suono è l’altra faccia della medaglia, la parola scolpita.
E lo spartito musicale sottostante il titolo che fa da copertina al volume ne da contezza.
Le ventotto poesie di cui si compone la silloge hanno, fra il titolo e il testo, una foto, ognuna delle quali meritevole (come del resto ogni poesia) di una notazione che segue la gioia degli occhi e ne permea la visione.
Dall’alta montagna innevata, baciata dal lago dove si specchia la vetta imbiancata, ai secolari alberi spogli dal freddo d’inverno ricoperti solo dal candore che soffice ammanta la via. Dall’orologio da taschino aperto fra le nuvole a un ruscello che scivola fra fiori e piante naturali. Da petali a uno spicchio di luna che fa luce nel buio della notte. Da uccelli che volano all’alba su un mare fermo a un fiore aperto. Da una visione di natura dedicata a papà (alla cui memoria peraltro è dedicato il libro) a fermagli di fiori in primavera. Da un campanile circondato d’alberi, che maestoso s’erge su una montagna, al tondo lunare che s’intravede fra oscure nuvole. Da una sfera di cristallo tenuta da mani delicate, a un cielo stellato di mezzagosto.
Dal pianeta terra cinturato di note a mani d’uomo che si tengono intrecciate. Da un arcobaleno simbolo di sereno in arrivo, a tre rose sbocciate, cuore della madre. Da una foto di Tolstoj seduto, al terremoto che ha devastato l’Aquila in Abruzzo.
Infine, una lente d’ingrandimento, che a forma di cuore si specchia in uno spartito musicale, precede una lettera ai figli – messaggio d’amore – , che conclude il libro unitamente a una canzone (su un motivo di Bruno Lauzi) titolata “Per non dimenticare”.
Ecco, anche se Ronsard aveva avvertito che “il ricordante e il ricordato hanno ambedue la memoria di un giorno”, qui l’autrice, urla un messaggio forte che sfida il tempo e gli uomini perché il sacrificio dei giusti eroi, Falcone e Borsellino, “uomini veri e coraggiosi”, resti scolpito come sulla roccia a futura memoria.
Sono versi, quelli della Di Martino, che non soltanto accarezzano l’anima, come la musica ma la colpiscono profondamente come le note quando penetrano a fondo e ne lasciano traccia sensibile.
Nell’Inno alla natura questa è “splendida …/figlia unigenita, /madre gloriosa e redentrice …/pace sognata /e mai negata …/ promessa di una /quiete agognata”. Qui la natura non è soltanto un dono prezioso ma anche un “inno d’Amore” per raggiungere la quiete, desiderio e sogno di ogni essere umano.
Poi, come nelle favole, “C’era una volta … e mai più” … “il mondo magico /giocoso” del “tempo di sogni e balocchi” che ciascuno di noi ha vissuto e con nostalgia ricorda: L’innocenza perduta.
“Principio senza fine, ora amico, /ora nemico, il tempo, ci coglie /ci sorprende furtivo nel momento /presente, con lo struggente /ricordo delle azioni passate, /dominate dall’ansia profonda /dei giorni a venire”.
In questa folgorazione c’è il viatico di ogni essere umano che i versi de il Tempo scandiscono come un orologio preciso.
Come non ricordare allora in proposito Eugenio Montale “ … Così il tempo inesorabile scorre /e improvviso d’un balzo s’arresta”.
C’è la Voce del silenzio che è “Amore senza fine”. C’è il Sogno d’infanzia, quando “… bambina stavo a /guardare dalla finestra, tutta sola …”.
Notturno è un “canto nostalgico/ soffusa e seducente melodia”. Alito di vita chiarisce che la “Vita …/ (è) perenne chiaroscuro, /eterna e dominante /verità …”. Al Papà dice che “sei stato, sei e sarai, /per sempre, perno e /forza insondabile /della mia esistenza”. Allo Zahir (pensiero ricorrente, di derivazione araba), ad Amnesty International e alla Madre sono dedicati versi che non si possono non leggere e apprezzare.
Il resto lo diranno e lo penseranno i lettori ai quali si suggerisce la lettura di queste poesie intrise di musica.
<b>Giovanni Stella
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Giovanni Stella |
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Mercoledì, 11 Maggio 2011 18:32 Host: 93-46-37-235.ip105.fastwebnet.it
Mario Portanova, Giampiero Rossi, Franco Stefanoni.
Mafia a Milano
Melampo editore, Milano 2011, pp. 490, euro 18,50
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Nando dalla Chiesa è innanzitutto un gran signore, che ho avuto il privilegio di incontrare, oltre ad essere il figlio diletto del mitico generale Carlo Alberto, barbaramente assassinato unitamente alla giovane moglie Emanuela Setti Carraro, a Palermo dalla mafia. È professore di Sociologia della criminalità organizzata nell’Università Statale di Milano,nonché scrittore e saggista con al suo attivo un cospicuo numero di libri pubblicati.
“Tu che cammini la strada non c’è, la strada si fa camminando”. Questo pensiero di Machado era riportato in un suo biglietto inviatomi per lo scambio degli auguri natalizi. Avere in mano Mafia a Milano, “sessant’anni di affari e delitti”, un volume di 500 pagine, accreditato dalla Introduzione di Nando dalla Chiesa, è un forte stimolo ad una impegnativa lettura. Gli autori sono tre giornalisti di lungo corso: Mario Portanova, Giampiero Rossi, Franco Stefanoni, “allievi” di pensiero del professore Nando; Stefanoni, anche suo studente all’Università, peraltro noto al grande pubblico dei professionisti perché da molti anni cura la rubrica professionale ne il Mondo, l’autorevole settimanale economico del Corriere della Sera.
Tutti e tre gli autori hanno iniziato l’attività giornalistica nei primi anni Novanta scrivendo inchieste sulla criminalità organizzata per il mensile Società Civile ai cui “amici” è dedicato il libro. Ci vuole una buona dose di pazienza per continuare la lettura pagina dopo pagina dei fatti narrati, supportati spesso da elementi giudiziari, che con lavoro certosino di raccolta e coordinamento gli autori hanno espletato.
Il tutto interessa da oltre mezzo secolo la capitale economica d’Italia. Quando nell’Ottocento e agli inizi del Novecento si parlava di mafia il termine evocava per antonomasia la Sicilia, terra dove atavico germinava il fenomeno criminoso associato ad uomini vestiti di nero con lupara e amicizie contigue che interessano lo stato sociale più basso. Negli Stati Uniti d’America il fenomeno, sviluppatosi nei primi decenni del secolo scorso, lo si individuava come d’importazione siciliana in tutto, metodo e uomini (i gangster) compresi. Altrove in Italia ramificatosi, estendendosi e creando focolai e cellule di origini autonome, assunse connotazioni e denominazioni diverse: camorra e 'ndrangheta in Campania e Calabria, Sacra corona unita in Puglia. Patologie criminose tutte, con uno stesso denominatore comune: forme e metodi similari, ancorché in costante adeguamento alla evoluzione della società. La mafia, fenomeno grave che tende ad essere uno Stato nello Stato, per sovvertirne la legalità ed assumere il controllo sostituendosi ad esso, è sempre un problema di vaste proporzioni che ha assunto vieppiù dimensioni gigantesche e preoccupanti tali da cointeressare costantemente nella lotta tutte le strutture istituzionali (dalle forze dell’ordine alla magistratura) nel tentativo di arginare ed emarginare un fenomeno che si è dimostrato difficile da debellare. Lontani ormai i tempi descritti da Leonardo Sciascia, ben conoscitore del fenomeno, ne Il giorno della civetta e in tutti gli altri scritti che anche allora interessavano la cultura letteraria, mezzo indispensabile per una diffusione di massa conoscitiva di quanto accade nella società ad opera di questo cancro che tende a creare diffuse metastasi. Agli abiti neri e alla lupara si sono sostituiti colletti bianchi e raffinati metodi criminogeni, via via adeguati ai tempi, che non potevano non approdare anche nel nord, là dove è più forte l’economia, perciò anche a Milano. Questo libro ne dà contezza con un lavoro minuzioso che ricostruisce un periodo lungo oltre mezzo secolo e che, ovviamente, interessa una moltitudine di vicende, di personaggi e di luoghi.
1Molto opportunamente gli autori hanno ricordato quale premessa al lavoro, che fino a sentenza passata in cosa giudicata, ogni cittadino, ancorché oggetto di condanna nei primi gradi di giudizio, è un presunto innocente. Così stabilisce la Costituzione italiana. I fatti perciò vanno tutti oggetto di verifica, riscontro, esame dagli organi inquirenti prima, della Magistratura poi.
Di quando in quando esistono tuttavia fatti che si mostrano come gli scogli: riemergono intatti dopo ogni ondata di parole. Nel risvolto di copertina dal libro si legge: “La mafia non esiste dicono i governanti padani, come i loro colleghi del sud il secolo scorso. Con poche eccezioni anche le associazioni imprenditoriali e professionali non la vedono. Chi nega, chi minimizza, chi ostenta stupore di fronte alle indagini che svelano densi intrecci tra criminalità, mondo degli affari e amministratori pubblici. Eppure a Milano e in Lombardia la mafia c’è, ben radicata da oltre mezzo secolo: i pionieri della 'ndrangheta e di cosa nostra arrivarono negli anni Cinquanta; seguirono gli uomini della camorra e della Sacra corona unita. Da allora ne hanno fatto di strada. Mafia a Milano racconta, per la prima volta in modo organico e completo, una storia di violenza, successo, arricchimento, emancipazione. [...]. Nel nuovo millennio, le cosche dettano legge nei cantieri, accumulano enormi patrimoni immobiliari, guidano holding familiari. Complice il silenzio che li circonda, i clan trapiantati a Milano e dintorni si sono riorganizzati e rafforzati. Per dare l’assalto all’economia e alla politica”.
Il libro oltre che della già detta e sociologicamente interessante introduzione di Nando dalla Chiesa si compone dei seguenti capitoli (all’interno di ognuno dei quali il lavoro è suddiviso in specifici paragrafi): “Prologo; Radici; La stagione dei gangster; Finanza nera alla milanese; Colletti bianchi; Nei quartieri delle cosche; Amicizie pericolose; La santissima alleanza; La mafia non esiste; Assalto all’economia; Epilogo: la cupola e il sistema”.
Si conclude poi con un indice dei nomi e un indice dei luoghi, resisi necessari per la cospicua quantità del materiale che lo compone. È il volume di per sé un documento storico? Forse. È certamente un lavoro del quale non potrà fare a meno lo storico di domani che vorrà affrontare il delicato argomento della mafia nella capitale della finanza e dell’economia, nell’area industrializzata del nord d’Italia, là dove c’è più denaro che velocemente circola e che in parte sfugge purtroppo alle regole della legalità.
I nostri padri ci hanno lasciato in eredità lo Stato di diritto. Noi abbiamo il dovere di lasciare ai nostri figli la cultura della legalità, la sola che ci appartiene, la strada che dobbiamo indicare a percorrere, quella che “si fa camminando”. Per i posteri, se posteri esisteranno.
Giovanni Stella
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Benito Marziano |
benito.marziano@virgilio.it |
Località: Noto |
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Miele estremo, di Giovanni Stella
Mi sono accinto a leggere Miele estremo, ultima fatica letteraria di Giovanni Stella, con la certezza che non sarebbero andate deluse l’aspettativa e l’interesse che, solitamente, mi procura la lettura di suoi scritti, e non mi sbagliavo, che', ancora una volta, Stella non mi delude, e sono certo che non deluderà nessun lettore.
Come alcune altre delle sue tante pubblicazioni, questo Miele estremo e' essenzialmente, come lo definisce Giorgio Bárberi Squarotti, "libro di memoria, di vita, di viaggi".
Di memoria, soprattutto, direi, perche' la vita, i viaggi, ma anche i tanti simpatici aneddoti, i ritratti di personaggi tipici che hanno costellato anni non tanto lontani della città di Avola; i ricordi affettuosi di tanti amici non più viventi; i ritratti di quanti costituiscono la ricca e prestigiosa galleria dei suoi amici sono qui piu' che narrati come rivissuti in questo suo viaggio nella memoria. Che la vita e' memoria, il Nostro lo dichiara già con il riportare l’antico motto latino "Memini, ergo sum", come introduzione della breve dedica Al lettore, con la quale inizia l'opera.
"Memini, ergo sum" dicevano i latini: ricordo quindi esisto, scrive ancora, poco piu' avanti.
Ma anche, ribaltando i termini, io direi: Sono, esisto, perché ricordo. E sì! Perché la nostra vita è il nostro passato, si sostanzia del ricordo del passato, il futuro non ci appartiene ancora, lo possiamo immaginare, vagheggiare, prevedere, magari, ma non è nella nostra vita, lo sarà soltanto quando, dopo essere stato presente per un istante, diverrà passato.
E Stella, a rinforzare il senso di quel motto, subito aggiunge nell’incipit della dedica, di cui dicevo sopra: “Lettres de mon moulin” di Daudet, “L’albero dai fiori bianchi” di Biagi…,in letteratura, “Il posto delle fragole, di Bergman…, nel cinema, sono soltanto taluni esempi di omaggio alla propria infanzia, dell’uomo che nell’età avanzata rivede, come in una moviola, l’età più bella della propria vita e ne rafferma man mano il ricordo. E ricordando rivive”.
C’è in queste parole la cifra di questa pregevole opera che si sviluppa in un racconto affabulante, che alterna note malinconiche e di forte rimpianto, pur se mai, questo, eccessivo e scorato, a narrazioni di piacevoli note di viaggio, o di aneddoti ameni e, a volte, di un grande e fine umorismo che gli deriva dalla capacità minuziosa di osservare la vita e gli uomini.
Fra le prime i ricordi di famigliari, di parenti, di amici “passati a miglior vita”, come si è soliti dire, ma Stella laico e non credente, come espressamente si dichiara, credo che, come me, non ritenga che altra vita possa esserci, né migliore né peggiore di questa. E scrive pagine che ci raccontano di grandi dolori patiti a seguito di avvenimenti luttuosi o dolorosi nell’ambito famigliare (ma anche fra gli amici, ché dell’amicizia ha un nobile concetto), che lo hanno toccato profondamente e gli hanno ispirato scritti di indescrivibile tristezza. E a tal riguardo, come non ricordare le sublimi poesie dedicate alla madre malata, che sono un dialogo muto, interiore, unidirezionale del poeta con la madre, che si sostanzia di un parlare con lei, che non può ascoltarlo, senza parole: di parlarti con parole mute, scrive, con un verso che a me sembra veramente impareggiabile.
Ma Stella è uomo che ama la vita, e la vita si compendia di dolori, di tristezze, di malinconie, ma anche di gioie, di piaceri, di divertimenti. Lui la vita la sa anche godere e prende tutto ciò che essa può offrire. Ecco, allora, che ci parla della sua passione per le belle auto, per i viaggi, per i buoni ristoranti e per i buoni cibi, e, soprattutto, per le buone rasserenanti gioie della famiglia.
E, tuttavia, la sua notevole razionalità lo induce, anche, a guardare con uno sguardo un po’ disincantato e sornione la vita e gli uomini, traendone aneddoti e caratteristiche di tipi umani dei quali sa raccontare con una notevole vena umoristica, che gli permette, spesso, di raggiungere effetti veramente esilaranti.
Di alcuni, almeno, di questi aneddoti mi piace anticipare un po' l'argomento, non di più, per non privare il lettore del piacere di riderne quando li leggera'. E come non ridere, a esempio, di Don Angelino, il ghiotto di dolci; di Lu zu' Turi, con la motocicletta; dell’oste sempre brillo (e per quale strano motivo!); dell’asino che, in una gara, ormai prossimo alla vittoria, la manca; e di tanti altri personaggi dei quali si raccontano fatti e vicende che rallegrano, in genere, la vita di quartiere delle piccole, ma anche delle grandi città.
E mi piace concludere queste mie note, ricordando le parole con le quali l’autore chiude questa sua opera: Il tempo intanto si consuma. E noi con lui.
Parole che a me sembrano il naturale corollario di quanto Stella scrive alla pag. 150, dopo aver ricordato che egli, come tutti ritornerà nell’assenza, dice, che un libro in una biblioteca, forse, potra' testimoniare del suo passaggio sulla terra, ma si chiede: A che serve? A creare un’illusione di immortalita', come taluni credono? In fondo e' una vana illusione anch'essa, perché io non ci sarò più. Cosi' credo. Altri, provvisti di un dono che a me manca – "la fede" – pensano diversamente e … aspettano serenamente. Beati loro!
Concetto che condivido pienamente e che, immagino, l’amico Giovanni non me ne vorrà se me ne appropriero'.
Benito Marziano
Noto, 22 novembre 2010
Giovanni Stella
''Miele estremo''
2010, 16°, pp. 270
Libreria Editrice Urso, Collana Omnia n. 3
Euro 13,00
EAN 978-88-96071-33-5
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Erika Coffa |
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Venerdì, 4 Giugno 2010 00:54 Host: 93-46-35-153.ip105.fastwebnet.it
Natalia Romano, I colori del silenzio - Racconti,
Libreria Editrice Urso, Collana Opera prima n. 13, 2008, 8°, pp. 88, Euro 10,00
...ho fatto una sintesi a modo mio del libro di Natalia Romano.
Il libro mi è piaciuto moltissimo. Tutte le storie erano belle, però a dir la verità mi hanno colpito particolarmente questi racconti:
LA COSA PIU' IMPORTANTE
Una ragazza di nome Lisa che è felice di esistere, si pone mille domande su come era nata e perché non era nata durante nove mesi come le altre ragazze della sua età. Lisa è quasi perfetta, tranne che per un motivo. Un pomeriggio cercava di prepararsi per la serata che avrebbe passato da un'amica, e siccome voleva essere carina per un ragazzo aveva deciso di prepararsi al meglio. Mentre cercava gli orecchini a forma di rosellina, trova qualcosa sulla sua nascita. Da lì scopre che era artificiale e che i suoi due fratellini non erano riusciti a sopravvivere. Poi, però, si guarda allo specchio e vede una ragazza carina, dolce e vera. Perciò, non è diversa dalle altre. Lei, Lisa è una ragazzina come tutte ed è felice di esistere. Ed è questa la cosa più importante.
AL DI LA' DEL SILENZIO
Siamo più o meno durante la seconda guerra mondiale, ai tempi della Shoah. Un bambino di nome Karl, vede piangere spesso sua madre. Il bambino pensa che forse è per la morte di persone che conosceva.Ogni giorno moriva qualcuno. Forse sua madre piangeva perché era sparito suo padre. Un giorno li fecero mettere in fila e decisero se mandarli "a destra o a sinistra". Il bambino, la madre e la sorellina andarono a destra, mentre il papà a sinistra. Quella sera la madre li mette a nanna. Dopo un bel po' la mamma sveglia i bambini e gli raccomanda di nascondersi. I soldati che, nel frattempo entrano in casa, trovano subito sua sorella Catrina e la portano via. Invece, non trovano Karl. Karl quella notte va da un signore con gli occhi buoni. Il bambino si sveglia quando è giorno. Vede che i soldati puntano il fucile a tutti loro e li fanno andare verso una collinetta. Arrivati sulla collina sente tanti spari e dopo un po' anche lui va al di là del silenzio, come Catrina e il suo papà.
Niente male, eh?
A proposito di libri ho trovato due frasi bellissime.
La prima è: "Essere liberi è un dono, essere semplici è un dono. Un dono è trovare il posto giusto per noi".
La seconda, la mia preferita, è: "Bisogna scrivere la verità e metterci dentro il cuore".
Erika Coffa
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