Benvenuti sul sito della Libreria Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. per informazioni Acquista Offerte del mese Novità del mese AVOLA IN LABORATORIO
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ARCHIVIO

  1. Il desiderio, di Orazio Parisi
  2. TRE DONNE DI DANTE
  3. Avola, «Inferno» di Dante una pizza e una birra
  4. I CONTENUTI Dl "AVOLA IN LABORATORIO"
  5. INTORNO AGLI SPAZI PUBBLICI
  6. Le feste nel centro storico...
  7. Matematica e pensiero umano
  8. Brancati e la Sicilia
  9. Vi parlo per otto minuti
  10. La risoperta dell'umanesaimo
  11. Corrado Bono poeta estemporaneo del 2006
  12. I PERIPATETICI DI ELORO, di Orazio Parisi
  13. PER I ''MERCOLEDI’ LETTERARI'' DI AVOLA IN LABORATORIO, di Lucia Bonanni
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    Un altro nostro amico se n'è andato

    Elio


    Lo avevamo conosciuto come politico impegnato nel centro-sinistra degli anni Sessanta e Settanta, straordinario oratore capace di intrattenere migliaia di persone nei suoi comizi, poi lo vedemmo sindacalista, giudice di pace, ma lo conoscemmo soprattutto come "Uomo delle associazioni", e si vantava di essere stato sempre presente alla nascita si quelle più note nella città. Lo vedemmo attivissimo nella "Pro loco" di Avola, presente sempre in "Acquanuvena" e anche negli incontri di "Avola in laboratorio", la nostra associazione senza organi dirigenti e senza finanziamenti pubblici.
    Con lui organizzammo in un momento di coinvolgimento col sociale, sperando sicuramente in un futuro migliore in questa citta diventata difficilissimaper persone dignitose, due splendide manifestazioni, che lo videro relatore nel Salone comunale, allora fruibile pubblicamente in forma gratuita e senza discrezionalità dagli omuncoli del potere; la prima il 10 aprile 1999 su "Degrado ambientale e culturale. Rimedi e speranze", e la seconda, quasi un mese dopo, il 15 maggio 1999 sul serio tema "Dalle proteste alle proposte".
    Elio fu sempre a noi vicino, quando passava, e i suoi occhi ci cercavano, per segnalarci il suo sorriso, la sua vicinanza, la sua manifestazione di malessere per quegli sbalzi di pressione tenuti sotto controllo medico, o per quella difficoltà a partecipare ancora con noi, e a dibattere con passione.
    Come si fa a dimenticarlo? Ineluttabile il compiersi del destino di ognuno di noi, e il pensiero va a lui e a tutti gli altri amici che materialmente non sono più con noi, ma a cui pensiamo spesso (Salvatore Di Pietro, Libero D'Agata, Corrado Tiralongo, Claudio Kastrevic, Antonio Caldarella, Lucia Sortino, Sebastiano Basile, Carmela Monteleone, Tina di Rosa, Iano Di Rosa, e così via).
    Ciao Elio, grazie per essere stato con noi.

    Per "Avola in Laboratorio"
    Ciccio Urso

    Elio

    PER I ''MERCOLEDÌ LETTERARI'' DI AVOLA IN LABORATORIO
    ispica 2-1-2014

    “Sei stata coraggiosa” mi dice tra le altre cose Francesco Urso quando insieme a suo figlio Marco ci salutiamo mercoledì 29 giugno scorso. “… coraggiosa a venire a trovare persone sconosciute!”. E’ un momento assai “delicato”, questo, non voglio farmi vedere con i lucciconi agli occhi e l’emozione che fa tremare la voce. Mi giro indietro solo un momento… per vederli andar via… e, quando mi ritrovo davanti alla porta 14 del volo CT/VR, mi rendo conto che la mia settimana nella bella Trichelia è volata via assieme a quei gabbiani “in perpetuo volo” sul mare di Avola! Avola? Ma quale… quella dei “fatti” di quel dicembre lontano nella cronologia del tempo, ma sempre tanto presente in quella del cuore e della mente? Sì… proprio quella…! E pensare che tutto era iniziato per via della partecipazione ad un Concorso Letterario, trovato tra le pagine del network più famoso… FB…! Un bel concorso, con tanto di dedica ad una persona da poco scomparsa… del denaro devoluto per un’opera umanitaria… tre belle copie dell’antologia insieme ad una quarta che va a raggiungere quella terra, come dice S. Quasimodo, “spaccata dal sole e dalla solitudine”, copie a cui seguono altre copie di raccolte poetiche, di narrativa e saggistica, di richieste di amicizie, commenti, contatti, suggerimenti di amici e inserimenti in pagine specifiche. E così, tra un commento e l’altro, giunge anche il 22 giugno scorso e con tutto il mio “coraggio” nel primo pomeriggio atterro all’aereoporto di CT e soltanto dopo poche ore mi ritrovo al risto-pizza del campeggio Sabbiadoro per la riunione mensile dei mercoledì letterari nel cui contesto sono sati inseriti due eventi di presentazione di libri: quello di Fulvio Maiello “Il crepuscolo della nobiltà” e la silloge poetica “Poesie d’estate” di Cettina Lascia Cirinnà con le bellissime foto dell’artista-fotografo Fabio Montalto alias Mont’.

    “Il mondo nel quale viviamo è un cerchio in cui la circonferenza è scomparsa e il centro può essere ovunque” riferisce Zygmunt Bauman, noto sociologo, in una delle sue opere più conosciute. Ma caspita… in questa “Avola in laboratorio” la circonferenza c’è ed è pure tutta intera ed il centro è ben definitito e può essere ravvisato in quella Libreria Editrice, ... che fa da perno a quel “Libr’Avola” che dispensa cultura attraverso “L’arte che soddisfa il bisogno più imperioso (e che ) sarà sempre la più onorata" (C. Baudelaire).

    Pian piano il locale si riempie di gente… ed io vorrei sedermi accanto a Sonja e a Mary, ma Francesco mi ha già destinata ad “altro luogo”…!

    foto“Conosco da sempre Fulvio Maiello e ricordo pure le lunghe passeggiate notturne a Noto con il nostro gruppo di amici e lui era quello che voleva sempre andare avanti…”, esordisce Benito Marziano, iniziando la presentazione dell’amico che adesso abita lontano dalla sua terra siciliana.

    Parole ben misurate quelle di Marziano, ben calibrate su una storia che si snoda per le vie di quel “giardino di pietra” che Giovanni Stella citerà poi per recensire le liriche di Cettina che, seduta vicino a me mostra gradire il mio ventaglio per sventolare lontano, assieme alla calura estiva, l’emozione del momento. Intanto Marziano continua a discorrere con voce invitante all’ascolto e fluidità di vocaboli che dipingono con toni netti e ben delineati le varie sequenze della fabula e dell’intreccio che Maiello ha voluto regalare ai lettori.

     

    foto“Lucia, ti senti di dire di dire qualcosa sulla poesia?” mi suggerisce “invitante” Francesco allorché con orecchio sagace nella frase del relatore capta la parola “poesia”. “Sempre a te stretta non tener l’idea, ma lascia che il tuo pensier in aria vada, come uno scarabeo legato a un piede” (da Aristofane “Le Nuvole”) …così vado a braccio e col pensiero mi dirigo dove mi porta il cuore. Sento che si è creata una bella circonferenza d’intenti e mentre parlo di versi e di poeti, con lo sguardo cerco volti già noti e penso anche a chi non ha potuto esser presente… mentre Marco panoptico scatta bellissime foto e i deliziosi stacchi musicali di Liliana sono pioggia benefica sui campi assetati delle emozioni e del sentire. Mi sento serena… direi felice… mi sento in una delle tante “Città Invisibili” chiamata Amicizia che come tutte le altre città ha le sue vie e le sue piazze ed anche con i tavolini dei caffè dove ci si può incontrare e stare insieme. Una città, questa, dove si respira un’aria nuova, diversa, un’aria che ha il sapore della comunità, del senso di appartenenza ad un gruppo, della condivisione di momenti importanti, dello stare insieme per costruire percorsi e relazioni umane durature nel tempo e nello spazio, rafforzare le empatie e consolidare atteggiamenti di scambio di cultura senza l’uso di inutili sofismi, ma con la vera consapevolezza che “Se un’idea ti confonde le idee, lasciala e passa oltre poi riprendila a mente fresca…” (Aristofane, op. cit. ), passala ad un amico ed assieme a lui attua quella magnifica catarsi del pensiero e dell’animo che solo un abbraccio circolare può dare a ciascun uomo. Durante la presentazione Fulvio è emozionantissimo e lo diventa ancora di più quando scrive “A Lucia Bonanni con la condivisione di un sogno” sulla copia che gli porgo da autografare, come pure lo è Cettina, immortalata in una bella immagine mentre mi dedica le belle parole di amicizia : ”A Lucia… per condividere emozioni in poesia”.

    “Oh capitano… mio capitano…” (W. Whitman)… Francesco tira le fila da abile tessitore di trame di cultura e orditi di spazi amicali come pure è abile a spagliare il seme benefico della pazienza, della comprensione, della fraternità condivisa, della disponibilità sincera e dell’accoglienza… e dato che “Tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili” (D. Campana), chiama in causa Orazio Parisi che con la sua raffinata competenza e dialettica acuta e puntuale disserta in merito al verseggiare fino a spingersi oltre il limite consentito della metamorfosi tra la metrica ed i chicchi di mais… per la sola ragione che tutto è poesia…!

    E in questa serata di impalpabile magia, di sogni realizzati, di corale armonia, di sensazioni leggere e respiri evanescenti l’arte si è fatta medium di serenità e sollievo dai tanti affanni del vivere perché l’arte è Attimo di scoperte inattese e Rumori silenziosi, di tesori rinvenuti in Eternità sorvolate con le ali del cuore unite a quelle della fantasia.

    Grazie per avermi accolta tra voi.

    Lucia Bonanni
    IL DESIDERIO
    (
    di Orazio Parisi)

     

      ''Riso, sorriso, risotti e risate!'', in quell'unico incontro, dell'ottobre 2006, in cui fu ospite Lucia Sortino

    Una di alcune sere fa, alla Gepas, con Ciccio, prima di iniziare la routine del lavoro di correzione delle bozze, stavamo rivedendo alcune foto e qualche filmato degli incontri di ''Avola in Laboratorio'', e l'attenzione cadde sulla videoripresa, fatta da me, e poi anche sulle foto, di quell'unico incontro, dell'ottobre 2006, in cui fu ospite Lucia Sortino. Ciccio, guardando quanti amici oggi scomparsi, a parte Lucia, erano presenti a quell'incontro (molti: Claudio il Milanese, Corrado Tiralongo, Antonio Caldarella, Libero D'Agata, Sebastiano Di Rosa; e forse, ma sarebbe il colmo, ne dimentico qualche altro), mi fece notare come quel filmato, uno dei pochissimi che avevo fatto io, fosse un rarissimo esempio, per certi versi ''esilarante'', di ''testimonianza premonitrice'' (non aggiungo all’esempio gia' abbastanza esilarante, per questione di ''convenienza'', come e' facile comprendere, l’altro aspetto che mi si vorrebbe accollare, cioe' quello relativo alle circostanze evocatrici di gesti scaramantici; come a dire, o meglio a ribadire, che al senso del tragico si accompagna sempre una paradossale ''spinta'' alla comicita'). E subito dopo aggiunse, quasi sorprendendosi pure lui, che anche il tema di quell'incontro era abbastanza ''leggero'', verteva addirittura sul riso (''Riso, sorriso, risotti e risate!'', il titolo). Certo, quel titolo era stato voluto, per donare, per così dire, un po' di serenita' a Lucia, scrittrice esordiente, che da lì a qualche anno (cercavamo di nascondercelo, ma ''si sapeva''!) avrebbe lasciato questo mondo. Non si poteva immaginare, viceversa, con altrettanta facilita' che l’ironia di quel titolo avesse toccato a breve anche il destino di tutti gli altri. In fondo, quella metonimica serata, per quel che e' accaduto a partire da quella ''sfortunata'' videoripresa, ci ha fatto toccare con mano che la morte in un certo senso fa anche ridere, perché e' imprevedibile, ci sorprende e gioca magari a nascondino, nel senso che, come diceva Epicuro, quando ci siamo noi, lei non c'e', e quando c'e' lei, noi non ci siamo.

     

    Il lato ridicolo dei nostri desideri
    Non ho voluto ricordare questo episodio per affermare una nostra presunta originalita' riguardo alle tematiche esistenziali. Trattando in questo scritto il concetto di desiderio, potrei comunque dire che, di essere originali, coltiviamo (come tutti gli intellettuali, sic!) sicuramente quantomeno una segreta speranza. Ma la realta', come ci mostra senza infingimenti il filmato dell'incontro di cui ho appena parlato, spesso ci sbatte in faccia brutalmente il lato ridicolo dei nostri desideri. E qual e' questo lato ridicolo del desiderio? Diciamolo chiaramente: la (nostra) vanita' (Leopardi nei Pensieri: ''Le persone non sono ridicole se non quando vogliono parere o essere cio' che non sono'').

    Di non essere originali, e' oltretutto una (nostra) evidente consapevolezza. Come ci ricorda la memoria storica, fu proprio il secolo appena trascorso, il Novecento, ad avere un ''esordio filosofico'', come lo chiama Lucio Villari nel suo libro ''L'insonnia del Novecento'' (Bruno Mondadori, 2005), del tutto corrispondente alla nostra ''testimonianza premonitrice'': ''L'esordio filosofico del Novecento e' stato un Saggio sul significato del comico apparso nelle librerie parigine nel maggio 1900. Era il sottotitolo de Il riso e non poteva rappresentare con migliore spirito una stagione del pensiero filosofico francese ed europeo che e' stata tra le piu' vive e coinvolgenti di tutto il secolo. L'autore era Henri Bergson, un signore di quarantun anni che da alcuni mesi aveva iniziato le lezioni di filosofia al Colle'ge de France''. Villari prosegue dicendo come il gia' famoso (e affascinante, e molto desiderato dalle dame dell'alta borghesia parigina) autore fosse stato trascurato e frainteso riguardo a questo scritto (da Sorel soprattutto, che definì tale scritto non ''soddisfacente'', ''... perché il riso non e' suscettibile di una unificazione''). Si e' molto sbagliato al riguardo Sorel. Le tragedie del Novecento, dalle due guerre mondiali, al nazismo e allo stalinismo, al Vietnam, alla guerra del Golfo sino agli ultimi rantoli di questo martoriato secolo, e direi sino ai nostri giorni (che di esso ereditano, anche se poi sviluppatesi in forme nuove e per certi versi inedite) le nefandezze, vanno lette, con Villari, anche alla luce di una sottovalutazione della leopardiana ''potenza del riso'' (Leopardi, in Zibaldone 4391: ''Terribile e awful e' la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, e' padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire''). ''Ho l'impressione – scrive Villari – che solo Oscar Wilde, scomparso proprio nell'anno della pubblicazione del Riso, vi avrebbe visto significati che ad altri sembravano sfuggire. Infatti per Bergson il comico esige, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa come un'anestesia momentanea del cuore: si dirige alla pura intelligenza. Una provocazione liberatoria che Wilde avrebbe accettato pienamente e che aveva attinenza solo parziale con la pratica e l'ideologia dell'humour sulle quali, dopo Bergson, si esercitarono, nei primi anni del Novecento, scrittori inglesi, francesi, tedeschi e italiani (compreso Luigi Pirandello, il cui saggio L'umorismo e' del 1909). Pensiamo anche ai vantaggi che ne avrebbe tratto il quasi coetaneo di Bergson, Freud, se (pur avendo letto Il riso) ne avesse saputo estrarre gli elementi positivi, liberatori e terapeutici per uno stato interno (e profondo quanto la psiche) come l'intelligenza umana. Tale intelligenza – scriveva Bergson – deve sempre rimanere in contatto con altre intelligenze. Ecco il fatto al quale conviene prestare attenzione: noi non gusteremmo il comico se ci sentissimo isolati. Sembra che il riso abbia bisogno di un'eco. Ascoltatelo bene: non e' un suono articolato, netto, finito; e' qualcosa che vorrebbe prolungarsi ripercuotendosi successivamente, qualcosa che comincia con uno scoppio e continua con rullii, come il tuono nella montagna.

     

    Per parlare di desiderio, bisogna partire dall'imprenscindibilita' del sociale nell'equilibrio caratterizzante l'esistenza umana

    La 'potenza del riso' di cui parlava Leopardi diventa così piu' intelligibile come forza creativa del linguaggio, di ogni linguaggio (lo era nella letteratura e nel teatro, lo sara', nel Novecento, nel cinema) e come parte integrante di relazioni sociali (Per comprendere il riso, bisogna riportarlo nel suo ambiente naturale che e' la societa', bisogna anzitutto determinare la sua funzione utile, che e' funzione sociale). Una lezione, questa di Bergson, che, cent'anni dopo, ci sembra non discutibile''.

    Allora, per parlare di desiderio, io credo che bisogna partire proprio da cio' che indica questa lezione bergsoniana dell'imprenscindibilita' del sociale nell'equilibrio caratterizzante l'esistenza umana. Il desiderio, che come il riso e' incontenibile nell'individuo, deve ''apprendere'' il senso del limite perché l'individuo puo' trovare il suo equilibrio solo nella societa'. Al giorno d'oggi, specie nelle societa'  cosiddette democratiche in cui, come ci ricorda ancora Lucio Villari citando l'ultima intervista di Popper, rilasciata al giornale ''La Repubblica'' nel 1992, e' invalsa ''la terribile idea che la gente debba essere in grado di fare in tutto e per tutto cio' che vuole'', questa consapevolezza del limite (cioe', il richiamo al senso di responsabilita') e' divenuta una necessita' ineludibile. e' chiaro come questo sia anche un aspetto umoristico, sicuramente ironico della vita: proprio quando l'uomo raggiunge, nella modernita', una invidiabile liberta', deve, pena la sua stessa sopravvivenza, riconoscere che la liberta' ha il proprio limite nella liberta' stessa come fattore di convivenza sociale: la mia liberta' deve tener conto della liberta' degli altri.

    Dunque, anche il mio desiderio non puo' essere ''sconfinato''. E questa consapevolezza acquista un'importanza senza pari, se si tiene presente quanto ha affermato ancora Popper (nell'intervista citata) riguardo a quella che lo scienziato ritiene essere la ''vera'' conquista del Novecento: ''Ai nostri ragazzi, specialmente in Europa, si va ripetendo che vivono in un mondo terribile: la verita' e' che viviamo nel migliore dei mondi che sia mai esistito in Occidente: non perché sia il piu' ricco, ma perché e' il piu' giusto''. Villari commenta in maniera esemplare questa riflessione: ''Ecco individuato qualcosa di 'moderno' che il passato non ha mai conosciuto. C'e' infatti in questo giudizio la ferma convinzione che, rispetto al passato, non vi sia una differenza di valori e di saperi; la novita' e' invece sul piano della giustizia (intesa, mi pare, nel senso plurale di legge eguale per tutti e di equita' sociale tra gli uomini)''.

     

     

    Senso pubblico e sociale dei desideri
    La nostra societa', democratica e legalitaria, nonostante le ''imperfezioni'' che vi si possano riscontrare (o forse, probabilmente, proprio in virtu' di tali imperfezioni, che attestano comunque il fatto, indiscutibile anche questo, che la democrazia ha posto il problema della giustizia come questione centrale del nostro tempo), ha dunque rafforzato la sua legittimazione rispetto ai bisogni dell'individuo, e paradossalmente cio' avviene proprio quando in essa si affermano nel contempo in forma molto ampia i principi liberali. Come dire: questa societa' riconosce e tutela i sogni e i desideri di tutti gli individui che la compongono in quanto da' ''senso pubblico e sociale'' ai desideri stessi, li rende cioe' ''accettabili'' a tutti in virtu' del fatto che al contempo ne segna, e assegna, i limiti entro cui e' dato, per l'individuo, ''desiderare''. E questi limiti sono proprio il ''fattore'' sociale, ossia il fatto che gli individui sono liberi, non dalla societa', ma nella societa'.

    Occorre infatti rivedere il concetto di liberta', e proprio alla luce del fatto che l'individuo (uomo), non potendo non avere un desiderio eccedente, e trascendente, in quanto ''animale mancante'', come l'ha definito Paolo Flores d'Arcais, non puo' essere libero proprio nella sua mancanza di ''animale eccedente'', ma lo e' (o meglio, lo puo' essere) invece nel ''comportamento'' sociale. Che non e', e' bene precisare, un comportamento dettato dall'istinto. Proprio perché l'uomo e' ''l'essere imperfettissimo, l'animale malformato [dal caso, cioe' da un errore di trascrizione del dna stocasticamente certo, di cui e' nota la frequenza] strappato irreversibilmente alla rotondita' degli istinti... l'animale cacciato una volta e per sempre dall'habitat senza tempo dell'istinto cogente, dal paradiso immutabile della certezza dell'essere... l'essere imperfettissimo definitivamente liberato nell'esilio dell'in-certezza, definitivamente precipitato nell'aperto del comportamento possibile...'' (P. Flores d'Arcais, in Micro Mega n. 4/2005), nella (sua) societa' agisce attraverso il suo nuovo ''istinto'' che e' il nomos (la legge, le Norme fatte dall'uomo). E questo nomos ''... che e' sempre auto-nomos, per essere deve sempre essere il nomos di un gruppo. (La scimmia nuda non puo' chiamarsi Robinson. Una scimmia nuda di nome Robinson non sarebbe mai nata. Se e' nata, non e' sopravvissuta, e non ne sapremo mai nulla). Il nomos deve essere dover-essere-del gruppo'' (Ibidem).

     

    L'uomo ''animale mancante''

    Niente istinto, dunque, nell'''animale mancante'' che e' l'uomo. O meglio, niente istinto, nel significato che usualmente si da' a questa parola. Lo chiarisce molto bene Flores d'Arcais, questo concetto: ''L'animale e' quello che e'... Nell'animale bisogno e soddisfazione si corrispondono. Il bisogno non eccede mai la possibilita' della soddisfazione e la soddisfazione la necessita' del bisogno. Questa necessita' e questa possibilita' sono istinto... ('Immagazzinare' acqua e' parte dell'istinto del cammello: quella quantita' e non di piu'. 'Immagazzinare' miele – e la 'perfezione' di quelle celle – e' l'istinto delle api. Non oltrepassa nulla: e' l'immediato dell'istinto, del suo essere-cammello e del suo essere-ape). L'animale puo' quel che deve e deve quel che puo'. Né piu' né meno. Presso l'animale, possibilita' e dovere non hanno luogo''. L'istinto dell'uomo e' invece quello di un animale ''mancante'' ''per cui la necessita' diviene possibilita' e la possibilita' necessita'''. e' allora evidente che la ''scimmia che tutti noi siamo e' ontologicamente l'eccesso''.

    Se l'animale e' (solo) istinto, l'animale-uomo e' allora (anche) desiderio: ''Se il dna prevede un pansessualismo orgiastico-egualitario (come per le felici scimmie bonobo, o pigmy chimps, nome scientifico Pan paniscus), tutti gli esemplari del branco sperimenteranno il kamasutra di promiscuita' in-derogabile per istinto (in-derogabile nella forbice di variabilita' individuale de-finita dall'istinto). Nella scimmia deontica che tutti noi siamo, come cacciare la preda non e' piu' de-finito dall'istinto. Quando attaccare e quando fuggire non e' piu' circo-scritto nel codice genetico. Come combattere e fino a che punto combattere, per la supremazia e per la femmina, non e' piu' dettato dai cromosomi. L'elica del dna non ditta e comanda secondo che avvolge sulla distribuzione della soddisfazione e dei bisogni. Il conflitto e' s-vincolato dall'istinto, gettato nell'il-limitato della possibilita'... L'eccedenza di possibilita' e' possibilita' di eccedenza nel conflitto, fino all'hybris e all'autodistruzione'' (Ib.).

     

    L'essenza del desiderio e' la ''trascendenza''
    L'uomo e' pertanto il solo animale che desidera cio' che non e' (per questo desidera di possedere il futuro) e cio' che non ha (ancora), perché, gettato (non dall’essere ma dalla selezione naturale) nell'imprevedibile spazio della possibilita' oltre il bisogno e la necessita', e' ''mancante'' di essere, e questa mancanza gli suscita un desiderio illimitato: ''L'animale eccedente e' un animale mancante. Piu' ha e piu' manca. L'eccedere della soddisfazione trascina con sé l'eccedere del bisogno e lo spinge piu' avanti... L'animale eccedente era gia' animale mancante. Non ha organi specializzati di aggressione e difesa: zanne, corazze, velocita', fuga sugli alberi, volo. Non ha riparo di pelliccia contro il freddo, il vento. e' inerme. La scimmia della spirale dei bisogni e' la scimmia inerme, armata solo delle sue possibilita', dell'hybris e del caos delle sue possibilita''' (Ib.).

    e' logico, a questo punto, che l'acme e diciamo pure l'essenza del desiderio e' la ''trascendenza'' (desiderio d'infinito, d'immortalita', d'eternita', ecc.). E questo bisogno di trascendenza possiamo chiamarlo, con Mario Ruggenini (in ''Filosofia 92'', pp. 117-144), ''bisogno metafisico'', che consiste nel bisogno dell'uomo di ''alleggerirsi'' del peso della finitezza. Saggio, questo, non senza spunti interessanti di riflessione, che mostra come sul bisogno metafisico in fondo pesi ''...il limite che l'esistenza incontra da ogni parte e che l'attende, rendendo vana ogni fuga, all'appuntamento ineludibile con la morte''. Ma che alla fine ''ripropone'' la necessita' del ''mistero'' (metafisico) proprio attraverso l'''ironia del limite'', che ''consiste dunque non nella dialettica fittizia, per cui esso non potrebbe che rinviare all'illimite, ma nella necessita' per la quale esso rivela la finitezza dell'alterita' stessa che lo costituisce come tale. La terra, a cui aderisce l'esistenza finita, e' dunque abitata dall'alterita' che non trova sede altrove''. Insomma, Ruggenini vuole dire, per dirla con il Gianni Vattimo e il Maurizio Ferraris dell'''Introduzione'' a ''Filosofia 92'', che ''l'uomo e' finito perché c'e' dell'altro''.

    E, da qui, tutti a immaginare (ecco che ''su questo mistero si costruisce un rinnovato incanto del mondo'') cos'altro ci possa essere oltre la finitezza in cui l'uomo e' gettato e di cui e' parte integrante. Non vorrei essere irriverente, ma mi e' venuta alla memoria l'ilare storiella di un mio concittadino, che da ragazzo, dopo aver fatto il bagno a mare, ha detto alla madre: ''Ho una tale fame, che mi mangerei una balena con i peperoni''. Evidentemente, in questo caso, il ragazzo non manifestava tanto la richiesta di soddisfare un bisogno naturale, ma il desiderio ''illimitato'' di eccedere il bisogno: non le bastava la balena, voleva pure dell'altro, cioe' il contorno dei peperoni. Se la mia e' irriverenza, vediamo ora cosa dice Wikipedia alla Voce Hume:

    ''Ci sono, per Hume, due tipi di filosofia, una facile e ovvia, l'altra difficile e astrusa. Quella ovvia e' esortativa, precettista, consolatoria e alla fine risulta fin troppo banale, l'altra e' astratta, decisamente inservibile per la vita, perché orientata all'esaltazione di dispute interminabili; e spesso scade in una forma di "malattia metafisica" o sapere astratto perché pretende di conoscere l'inconoscibile''. Riprorre il senso del mistero, anche alla luce di una maggiore consapevolezza del finito, significa in definitiva riproporre anche una giustificazione superiore (metafisica, appunto) all'illimitato desiderio dell'uomo, quasi che l'uomo-finito fosse il risultato di una ''volonta''' che supera la stessa finitezza della realta'. Non avrebbe senso, d'altronde, se ci si mettesse a cercare ''dell'altro'', sapendo di trovare cio' che gia' conosciamo. Se andiamo a cercare ''altro'' (rispetto a cio' che sappiamo essere la realta'), e questo cercare ci conduce verso un ''mistero'', significa evidentemente che aspiriamo a trovare, nel mistero (e, si badi bene, non nella scienza), qualcosa che non e' certamente la realta' che conosciamo (o che aspiriamo a conoscere).

    Si ripropone così, anche se in forma indiretta, il ''Disegno finalistico intelligente'' della Religione. Che vuol farci credere ancora oggi, cioe' al tempo di Darwin (diciamo anche questo chiaramente!), che tutto il ''trambusto'' della storia dell'Universo, ''14 o 15 miliardi di anni e di sconvolgimenti cosmici'', e' servito, ''per mettere infine al mondo, a compimento e coronamento dell'intera faccenda, la scimmia nuda che tutti noi siamo'' (in ''Micro Mega'', n. 4/2005, p. 5). Non vi sembra molto comico anche questo ''smascheramento'' dell’autoreferenzialita', tipica della scimmia nuda? Proprio perché ''nuda'', la scimma che s’e' fatta uomo, ignara della sua casuale e (purtroppo!) umiliante posizione in un universo che, per quanto finito, al suo confronto sembra illimitato, ha camuffato da sempre il suo pathos, la sua megalo-mania, con il sentimento del sublime.

    L'uomo ha certamente il senso dell’infinito, ma solo perché, come ho gia' detto, con Flores d'Arcais, casualmente (dalla selezione naturale) gettato nello spazio infinito (illimitato, imprevedibile, vorticoso e caotico) della possibilita'. Prima degli ''ermeneutici'', la giustificazione del senso del mistero era stata affrontata, e in un contesto certamente meno ermeneutico e piu' scientifico, dai cosiddetti ''teorici di una teologia naturale'' dell’Ottocento. ''Ma, – come scrive Alessandra Attanasio nell’Introduzione ai ''Taccuini filosofici'' di Darwin (Utet, 2010) – nella costruzione della theory darwiniana, insieme al vacillare della stabilita' delle specie, va in frantumi anche quel disegno divino tanto minuziosamente descritto dai Kirby, dai Paley, dai Macculloch''. Darwin, come aveva gia' fatto Hume, raggiunge il cuore del problema: il libero arbitrio. Il libero arbitrio appartiene secondo Darwin a quelli che Hume nel Trattato sulla natura umana aveva definito ''i fantasiosi sistemi di liberta''', la cui confutazione e' scientificamente inevitabile. ''Se – scrive la Attanasio – la necessita' che vediamo nel mondo fisico era stata ridotta da Hume a una ‘impressione della mente’ che percepisce solo l’unione costante di causa e effetto, allora anche la volonta' e' una ‘impressione interna’ che ci da' l’ebbrezza della liberta' incondizionata, cioe' il libero arbitrio, l’anima donata da Dio. La liberta' invece e' condizionata, dal mondo fisico e sociale, dal corpo, dal cervello'' (Ib.).

     

    Tutto il resto, e' riso

    In definitiva, il desiderio illimitato, inteso come prerogativa essenzialmente umana, non e' un dono divino, ma il frutto di una situazione, derivata dalle ''semplici'' leggi di natura, in cui e' venuto a trovarsi un animale che per ''errore'' ha dovuto, per sopravvivere, sostituire l’istinto cogente con l’insicuro, impreciso e caotico ''calcolo'' delle probabilita'. E a tale calcolo dell’insicurezza ha dovuto affidare per sempre il suo destino di sopravvivenza in questo mondo. Non ha dunque alcun carattere eccezionale il suo desiderio, quanto e' invece eccezionale proprio questa evoluzione intelligente del babbuino. E non solo del babbuino: ''Dall’animale di pietra, il corallo, al verme, alle emozioni, alle ragioni dimenticate, alla nuova teoria degli istinti, alla coscienza morale, questa, dice Darwin, e' una spiegazione straordinaria'' (Ib.).

    Il desiderio, pertanto, va ricollegato, come ho detto all’inizio, al suo carattere sociale e va considerato all’interno del naturale mondo della vita. Tutto il resto, e' riso. E il riso, si badi bene, e' certamente necessario per la felicita' dell’uomo nel mondo; ma acquista importanza e positivita' solo se svincolato dalle vane sequele del desiderio dell’Assurdo e della sua ''ritualita''' che non conosce spiegazione alcuna.

    E invece catturato interamente nel linguaggio dell’arte:

     

    Le vele le vele le vele

    Che schioccano e frustano al vento

    Che gonfia di vane sequele

    Le vele le vele le vele!

    Che tesson e tesson: lamento

    Volubil che l'onda che ammorza

    Ne l'onda volubile smorza...

    Ne l'ultimo schianto crudele...

    Le vele le vele le vele

     

    Dino Campana, Barche amorrate

     

     

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    >>>ASCOLTA Frammento dell'intervento di Orazio Parisi
    nell'incontro di AVOLA IN LABORATORIO
    del 26 maggio sul tema ''Desiderio''


    Foto CorradoBono©2010

    COMUNICAZIONE E RELAZIONE

    Oraziodi Orazio Parisi

     

     

      ''Avola in laboratorio'' e la nostra tanto proclamata vocazione ''anarchica'' della cultura



    Ho scritto, nell'occasione del nostro precedente incontro, citando Starobinski, che la scelta dell'argomento non è ''innocente'', in quanto presuppone una preventiva interpretazione, ispirata da un ''interesse attuale''. Qual è ora il nostro ''interesse''? Se ''Avola in laboratorio'', che è un'associazione (culturale), il cui scopo naturale, comune a qualunque altra associazione, è quello di ''mettere in contatto'' le persone che vi partecipano (e non solo quelle), sottopone a dibattito il tema della comunicazione (e della relazione), questo tema non può non manifestarsi preliminarmente senza la sua vera e reale intenzionalità. Che non è certamente quella di un tema generico e casuale, ma piuttosto quella di un problema serio e concreto, che riguarda direttamente lo scopo intrinseco alla stessa associazione. Detto più chiaramente: se un'associazione, e ancor più un'associazione culturale, pone all'attenzione del dibattito interno ad essa il tema della comunicazione, questo tema, è evidente che non può essere svolto, banalmente, attorno al suo solo significato, quasi allo stesso modo di una''disinteressata'' lezioncina scolastica, ma deve per forza di cose toccare soprattutto i suoi aspetti limitativi e conflittuali, quelli cioè che possono indurre ad approfondire seriamente le possibili cause e motivazioni che richiamano il nostro attuale interesse, di riconoscere i limiti e gli ostacoli che possono impedire, o che di fatto impediscono, in tutto o in parte, il raggiungimento dello scopo associativo; nel nostro caso, quello di ''fare'' cultura.

    Altre considerazioni in merito non credo possano essere pertinenti, in quanto qui l'aspetto del ''gioco'' culturale, caratterizzante i nostri incontri, non trova accoglimento proprio per il fatto che il tema della comunicazione non può essere affrontato come un argomento qualsiasi, frutto del capriccio o della semplice curiosità di qualcuno, o di alcuni. Del gioco possiamo, in questo specifico caso, mantenere solo l'aspetto, maliziosamente elusivo, del''prenderci gioco'', in particolare, della nostra tanto proclamata vocazione''anarchica'' della cultura: liberi sì, ma non (illusoriamente) liberi di sostenere tutto e il contrario di tutto (che poi è niente).

    "Non si può non comunicare"

    È oltretutto un dato storico, il fatto che la comunicazione nella società non si pone solo ed esclusivamente come elemento caratterizzante della società medesima, ma emerge sin dal principio anche come fattore problematico di essa. Per quanto l'uomo possa essere considerato, in senso aristotelico, ''animale politico'', è fuor di dubbio che è proprio nella società che egli trova, oltre alla necessità della comunicazione, soprattutto i limiti e gli ostacoli alla ''ottimizzazione'' della stessa. La comunicazione può essere definita attraverso l'assioma di Paul Watzlawick secondo il quale, in una situazione in presenza di persone, "non si può non comunicare". Questo assioma lega strettamente la comunicazione alla società attraverso due aspetti fondamentali: 1) la comunicazione segue lo stesso principio ''evolutivo'' che caratterizza gli individui nella società; 2) essa può essere verbale (orale o scritta) o non verbale (segnica o simbolica), e si realizza esclusivamente attraverso un feedback continuo fra individui, che, l'esperienza quotidiana insegna, non sempre''funziona''. Da entrambi gli aspetti emerge chiaramente il carattere problematico della comunicazione.

    La prima domanda che allora ci dobbiamo porre è la seguente: perché, nonostante la si consideri quasi alla stregua di un imprescindibile istinto, la comunicazione viene ritenuta costantemente insoddisfacente, quando non addirittura complicata, difficile e, in taluni casi, persino impossibile? Va detto preliminarmente che il titolo del nostro incontro, ''comunicazione e relazione'', rischia anche di apparire tautologico, ossia viziosamente ripetitivo. Per certi versi, lo è. Come ho accennato sopra, comunicare, infatti, non è una semplice trasmissione di un messaggio. L'origine semantica del termine chiarisce inequivocabilmente questo aspetto. Il verbo latino communicare deriva da communis, comune. Quindi, comunicare significa ''mettere in comune'' (ad es., communicare altari, accostarsi all'altare). Il comunicare ''impone'' l'instaurarsi di un rapporto di reciprocità, il formarsi di una relazione con qualcosa o con qualcuno, e non può pertanto escludere il referente, né può avvenire al di fuori di una qualunque sede referenziale. In definitiva, comunicazione e relazione sono sinonimi. Non si comunica se non si instaura una relazione.


    La comunicazione, senza la relazione, perde la sua identità


    Ma la logica moderna ci invita a riflettere anche sulla ''differenza'' insita nel principio d'identità. Quando dico, cioè, ''A è A'', dico sì, che A è uguale ad A, e tuttavia la copula ha già operato una differenza, tra soggetto e predicato. C'è, o meglio viene alla luce, per mezzo della funzione ''relazionale'' della copula, una ''differenza'' nell'identità stessa. Anche se dico semplicemente ''A'', la differenza si mantiene, come dire, nascosta, perché la copula in questo caso viene omessa ma non eliminata (permane implicita in qualunque affermazione di identità). Nel nostro caso, il titolo vuole dire che, siccome non si ha comunicazione senza relazione, la comunicazione, senza la relazione, perde la sua identità. Non è banale la precisazione anzidetta, se si tiene conto del carattere di poliedricità a cui il significato di comunicazione viene di necessità ricondotto per la sua evoluzione storica e per i suoi riferimenti pluridisciplinari. ''Fra le definizioni esistenti sull’argomento, la prima sembrerebbe essere quella dell’autore inglese I. A. Richards del 1928, secondo il quale:

    La comunicazione avviene quando una mente agisce sul suo ambiente da cui un’altra mente è stata influenzata, e nell’altra mente si verifica un’altra esperienza che è come l’esperienza nella prima mente, ed è causata in parte da quell’esperienza.

    In realtà, alla luce dei successivi e attuali studi e approfondimenti, questa si può ritenere incompleta, in quanto tiene in considerazione solo l’aspetto cognitivo e l’influenza del contesto; quindi risulta priva degli altri fondamentali elementi intervenienti nel processo comunicativo, e indispensabili perché di comunicazione si possa parlare (es. mittente, destinatario, messaggio, canale di trasmissione, rumore, feedback, ecc.)'' (Dina Parisi, ''Tesi di laurea sull'editoria siciliana'', Università degli Studi di Catania, 2008).

    In definitiva, possiamo dire che la comunicazione ha la sua problematizzazione proprio nel fatto di essere un fondativo ''elemento culturale''. Come tale, va distinta radicalmente dalla violenza istintiva del messaggio, che pure di essa è parte integrante, e va considerata principalmente nel contesto storico delle relazioni fra individui. Da qui emerge in tutta la sua evidenza come il carattere problematico della comunicazione si fondi, per dirla con Freud (e con il Lacan dell'analisi del Thanatos, o pulsione di morte), sul conflitto tra super-io e società (cioè tra desiderio illimitato del soggetto e ''linguaggio'', inteso precisamente come rispetto, limitato, delle regole di convivenza sociale), meglio noto attraverso la classica definizione freudiana di ''disagio della civiltà''. Non a caso, Massimo Baldini (in Storia della comunicazione, collana ''Il Sapere'', Roma, Newton & Compton, 1995) categorizza la comunicazione (e la sua evoluzione storica) con il termine cultura (c. orale, manoscritta o chirografica, tipografica e infine dei media elettrici ed elettronici).

    Tale categorizzazione, oltre alle riflessioni sui fattori ''tesaurizzanti'' della comunicazione come cultura (in Dina Parisi, cit.), conduce necessariamente anche agli aspetti ''critici'' che la comunicazione come cultura ha messo in evidenza nel corso della sua evoluzione sino ai nostri giorni: per citare i due poli estremi entro cui si è dibattuta storicamente l'analisi critica sulla comunicazione, dal ''rifiuto'' della scrittura di Socrate (e Platone), che mette in rilievo la ''inaffidabilità'' della comunicazione (Platone, contrariamente a quanto spesso con superficialità si sostiene, pone all'apice della conoscenza, non l'oralità, ma la ''muta contemplazione''), fino al ''discredito'' assoluto della comunicazione contemporanea, quella massmediatica, definita da Mario Perniola come ''l'opposto della conoscenza'' (in ''Contro la comunicazione'', Einaudi, 2004).

     

    La comunicazione si presenta come ''la bacchetta magica

     

    Per Perniola la comunicazione si presenta come ''la bacchetta magica che sembra trasformare l'inconcludenza, la ritrattazione e la confusione da fattori di debolezza in prove di forza e che sostituisce l'istruzione con l'edutainment, la politica e l'informazione con l'infotainment, l'arte e la cultura con l'entertainment. Nel suo rivolgersi direttamente al pubblico il tutto ha del resto una parvenza assai democratica: non a caso per designare questo fenomeno, è stato coniato il termine democratainment (...) Perciò i fautori della tradizione, che si appellano ai valori, alla classicità, al canone, vengono spiazzati da questi funamboli, da questi giocolieri, da questi acrobati che vogliono anche farsi eternare nel bronzo e nel marmo. E chi dice che non ci riescano? C'è sempre una caterva di ingenui pronti a scrivere la storia dell'ultima idiozia, a solennizzare le stupidaggini, a trovare significati reconditi nelle bazzecole, a fare entrare nell'insegnamento di ogni ordine e grado anche le sciocchezze, pensando di fare un'opera democratica e progressista, di andare incontro ai giovani e alla gente, di realizzare l'incontro tra la scuola e la vita.

    La comunicazione perciò sembra mettere fuori gioco i valori non opponendosi a essi, ma appropriandosene. Se si vuole combattere efficacemente la comunicazione su questo piano, bisogna lasciare da parte la metafisica e l'etica: il fondamentalismo religioso e filosofico appartengono ancora all'età ideologica e sensologica, in cui ci si riconosce in una sola verità. I predicatori e i profeti, in buona o in cattiva fede, devono ancora mantenere una certa coerenza di discorso, della quale i comunicatori fanno a meno. Infatti i comunicatori possono, per così dire, in ogni momento rubare la parte ai radicali e agli intransigenti, trasformarsi in un baleno da colombe in falchi per diventare successivamente qualcosa di intermedio e tingere tutto del colore can che scappa. (...) così contro la società cognitiva nasce il dispotismo comunicativo, cioè una strategia volta ad asservire non solo professori, scienziati e giornalisti, ma anche ogni sorta di intellettuali e di specialisti con pretese di legittimazione autonoma (magistrati, grand commis dell'amministrazione pubblica, direttori di strutture ospedaliere, economisti, esperti di qualsiasi tipo dotati di deontologia professionale). Parte un grande attacco al professionalismo e a ogni sorta di mediazione autonoma che si frapponga tra i vecchi poteri riciclati e il pubblico (di cui appunto è un esempio, il cosiddetto spoil system, che letteralmente vuol dire sistema del saccheggio o della razzia, e indica quel malcostume che distribuisce le cariche direttive dell'amministrazione pubblica ai seguaci del partito vincente).

    (...) Come evitare di farsi rompere i timpani dal frastuono della comunicazione? (...) Da un lato, non si riesce a riportare la comunicazione nei ranghi di un discorso teorico rigoroso, sistematico e conseguente, dall'altro, essa è troppo assimilatrice e ingurgitante perché la filosofia possa a sua volta prevalere seguendo questa strada.'' (Ivi, p. 6, 22, 26,27, 57 e 58). Insomma, Perniola riconosce che non si può contrapporre all'illimitatezza massmediatica la''smisuratezza del discorso psicoanalitico e filosofico'' (come hanno tentato di fare, rispettivamente, Lacan, con ''l'affermazione dell'ordine simbolico'' e Derrida con ''il rifiuto del vitalismo'') senza rischiare nel contempo di cadere nel ''cattivo infinito del produttivismo autodistruttivo''.

     

    I mezzi di comunicazione sembrano modellare e controllare la società

    È questa in fondo la ragione per cui il discorso debba essere ''ricondotto'' nell'alveo dell'analisi sociologica; ma di un'analisi sociologica che, ponendo alla base della riflessione una ''concezione umana della sociologia'', tenga conto essenzialmente del contesto di trasformazione e di transizione presenti nella società attuale e nel contempo affronti i modi con cui i singoli e i gruppi incidono sulla trasformazione stessa. Al riguardo, è di estremo interesse lo studio condotto presso l'Università di Perugia e riportato nella pubblicazione''Elementi sociologici della comunicazione nella società postmoderna'', a cura di Maria Caterina Federici (Morlacchi Editore, Perugia, 2004). Scrive la curatrice nella Prefazione: ''Una vasta osservazione ed una profonda esperienza consentono agli Autori di inserire il tema della comunicazione non solo nel contesto di una società in trasformazione, ma anche nella metodologia con cui gruppi e singoli incidono sulla trasformazione stessa. Tutti i contributi insistono su una analisi spassionata e realistica della comunicazione ai nostri tempi, aperta a progressivi cambiamenti''. E Raffaele Federici, all'inizio della sua analisi, segnala, appunto, che la socialità ''sembra essere caratterizzata da una straordinaria forza e da una complessa creatività, da trasformazioni accelerate e da mutazioni incontrollate, nella prospettiva di un mondo politico ed economico instabile ed imprevedibile. (...) Tutto è informazione e, contemporaneamente, incertezza, ed i mezzi di comunicazione sembrano modellare e controllare la società, una società instabile, in cui domina il rischio e il cambiamento, un mondo dove, paradossalmente, il verbo connettere accompagna la formazione complessa di tracciati sempre più individuali. (...) La post-modernità produce nuovi luoghi, dei nonluoghi della comunicazione come autostrade, villaggi turistici, parchi-gioco, comunità virtuali, aeroporti, reti telefoniche digitali mobili, siti web e shopping mall. (...) Nella società postmoderna il termine crisi nel cambiamento è, paradossalmente, una condizione stabile, una certezza dell'incertezza. (...) Tuttavia, anche in altre epoche sono avvenuti grandi cambiamenti, ma la velocità del mutamento sociale nel postmoderno è sicuramente superiore e caratterizzata dall'imprevedibilità. (...) La disordinata complessità, l'aumentare dei percorsi individuali, lo sviluppo dei conflitti solo superficialmente risolti o risolvibili, sembra essere il terreno in cui si sviluppa l'affermazione: si può non comunicare''.

     

    Nella nostra associazione converrebbe stare zitti

    Se questo è il quadro generale di comunicazione e relazione, allora è necessario domandarci se nella nostra associazione, nell'ambito dei nostri incontri (culturali?) le cose stiano diversamente. Sì, stanno peggio. Se anche il silenzio, come ha sottolineato Federici, è comunicazione, a noi converrebbe stare zitti. A chi possa pensare che questa affermazione abbia i caratteri della ''brutalità'' nichilista, io faccio presente che dovremmo ''fare cultura'' in questa associazione (o no?). E allora non è fuori luogo domandarci che tipo di cultura stiamo facendo. Il tema di questo incontro, come ho precedentemente detto, in qualche modo ci obbliga a interrogarci sul tipo di comunicazione e relazione che si è ''manifestato'' nei nostri incontri. Interrogarci, significa innanzitutto attenzionarci su quel che succede attorno a noi. Vediamo allora che succede una cosa molto palese: tranne pochi ''desaparecidos'' (perché ''fatti scomparire'' da questa società ultra individualista), la gran parte delle persone che frequenta i nostri incontri lo fa in maniera, come dire, ''usa e getta''. Né comunica né si relaziona: vuole anche qui, alla stessa maniera con la quale agisce nei ''non luoghi'' che in genere frequenta, solo ''apparire'' per soddisfare il suo sconfinato narcisismo. E, siccome al peggio non c'è mai fine, per dirla con Zaid, ''il narcisismo per nulla piacevole di chi dice: 'Leggimi e io ti leggerò' è degenerato in un narcisismo che non è per nulla reciproco: 'Non chiedermi di prestarti attenzione; piuttosto, presta attenzione a me. Io non ho il tempo, né il denaro, né il desiderio di leggere quello che hai scritto tu. Io voglio il tuo tempo, il tuo denaro, il tuo desiderio. Che importano le cose che interessano a te, quando ciò che importa sono le cose che interessano a me?'' (Gabriel Zaid, ''I troppi libri'', Jaca Book, Milano, 2005).

    Per un'estrema sintesi: la comunicazione, in definitiva, non dipende dalla quantità di messaggi e informazioni che si possono avere. Comunicazione significa avere''cose in comune'', cioè avere la capacità di relazionarsi con l'altro. Senza questa ''relazione'', omnia habentes, nihil possidentes.

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    A PROPOSITO DEL DIBATTITO DI AVOLA IN LABORATORIO DEL 31 MARZO 2010

    Amor ch'a nullo amato amar perdona...
    E il naufragar m'è dolce in questo mare

    Orazio Parisidi Orazio Parisi

     

     

    Nella retorica dei riferimenti letterari, l'aspetto dell'incongruenza di un titolo con l'argomento che esso suggerisce di trattare è quello che risalta maggiormente sin dall'inizio di un dibattito, di una conversazione, di una discussione, ma anche, e soprattutto, di uno scritto. Se c'è incongruenza o contraddizione, oppure semplicemente non sense, si crede che il prosieguo del discorso ne venga compromesso. Nel nostro caso, accostare Dante e Leopardi, e con versi che all'apparenza non hanno alcuna attinenza tra loro, sembra già quantomeno una bizzarria senza alcuna possibilità logica, produttiva, reale di essere affrontata. Allora dobbiamo domandarci cos'è che dobbiamo affrontare e come.

    Avola in Laboratorio è anche un gioco – questo aspetto caratterizzante i nostri incontri culturali è stato messo in rilievo sin dall'inizio, e con diverse sfumature e motivazioni, ma sempre al fine di mettere in risalto il nostro convincimento sulla vocazione per così dire “anarchica” della cultura. È chiaro comunque, che anche nel gioco si corrono dei rischi. Il gioco, se condotto in maniera irresponsabile, può pure aggiogare, cioè imbrigliare i nostri incontri nei lacci della futilità, della superficialità e infine della superfluità. Va quindi tenuto sempre presente il livello di intenzionalità con cui ci approcciamo a discutere. Per dirla con JISBNStarobinski: “Diamo per scontato che la scelta dell'oggetto di studio non è innocente, che presuppone già un'interpretazione preventiva, e che è ispirata dal nostro interesse attuale. Riconosciamo che l'oggetto non è un puro dato, bensì un frammento di universo che si delimita in base alle nostre intenzioni. (...) Diciamo: incontro, e anche: lavoro. Abbiamo appena parlato dell'opera designandola come un essere e allo stesso tempo come un materiale. È l'uno e l'altro: un essere che attende l'incontro, un materiale, esso stesso lavorato, che richiede un lavoro; o ancora: un'intenzione che si rivolge alla nostra attenzione attraverso lo sviluppo di una forma”.

    E, in questo senso, va tenuto presente che non viene comunque meno la libertà del relatore, di interpretare in forma originale il pensiero degli autori citati. Libertà, preciso, non nel senso della licenziosità, ma come naturale destino (che è quello di essere reinterpretato e fatto proprio da altri) di ogni pensiero espresso dalle parole. Come dice Schopenhauer: “Un pensiero vive veramente finché non è giunto al punto limite delle parole: ivi si pietrifica, è quindi morto, ma indistruttibile, simile agli animali e alle piante fossili dei tempi preistorici. La sua vera vita momentanea si può anche paragonare a quella del cristallo nell'attimo della cristallizzazione. Appena, cioè, ha trovato parole, il nostro pensiero non è più intimo, né serio nel profondo della sua essenza. Quando il pensiero comincia a esistere per gli altri, cessa di vivere in noi; come il bambino si stacca dalla madre quando inizia la propria esistenza. Anche il poeta, del resto dice: Non confondetemi col contraddire, basta parlare, e si comincia a sbagliare”. Ma addirittura Vincenzo Cerami accentua questo aspetto dell'errore sostenendo che i primi a sbagliare siano gli stessi autori, per il fatto stesso che i pensieri non sono altro che “un continuo ruminare di idee, sensazioni e immagini che abitano la mente di ognuno di noi”, e quando questi pensieri, che non sono fatti di parole, diventano parole, cioè “quando vogliamo riferire a qualcuno cosa stiamo pensando, lo stesso pensiero cambia subito di segno e diventa veicolo di un'idea del mondo, di un modo d'essere”. “A questo punto – conclude Cerami – viene voglia di dire che i pensieri originali, profondi, incoffessabili, contraddittori non potranno mai vedere la luce, perché non sono formulabili, non hanno una grammatica e una sintassi per essere trasmessi. Quando parliamo siamo sempre, necessariamente, reticenti se non proprio bugiardi, perché diciamo solo cose che si comprendono, mentre i nostri liberi, autonomi pensieri sono incomprensibili. Per questo esistono gli scrittori, per cercare di dire parole chiare, per dare luce all'incomprensibile. Ci riescono? No di certo. Ma ci provano da sempre”.

    La contraddizione esiste, dunque, come destino di qualunque discorso comunicativo. Ma, è proprio con questo errore, di “travisare e trasmutare” i pensieri degli altri (oltre che, attraverso le parole, anche i nostri), che ogni pensiero morto “torna in vita” e approda a nuovi esiti. Il contra-dire è implicito in ogni dialogo, perché svolge quella funzione dialettica del porre sempre nuove domande anche su tematiche da sempre affrontate. Com'è quella di questo appuntamento. A noi infatti tocca preliminarmente soltanto rendere quanto più chiaro possibile qual è l'argomento che il titolo ci suggerisce, e questo argomento a me sembra inequivocabile. In fondo, la domanda che sottende il suo titolo è una di quelle interrogazioni storiche ed esistenziali che accompagnano da sempre il destino dell'uomo. Ma, attenzione! Il titolo del nostro incontro, con la citazione dantesca, non allude, o non allude soltanto e semplicemente, al significato della parola “Amore”, ma pretende di rappresentare pregiudizialmente l'amore, nella sua figurazione estrema e incontenibile, attraverso il concetto di lussuria. Mentre, con il verso leopardiano, reclama un'indagine ulteriore sul senso sia storico sia psicologico di questo concetto nella vita dell'uomo. È quindi una di quelle eterne domande che, in quanto immemorabili, sono state propinate in tutti i linguaggi e in tutte le forme, e anche con i più strani, insoliti, e pure stravaganti accostamenti. E soprattutto, è una forma di domanda che conduce necessariamente alle tendenze, sfumature, implicazioni storico-sociali che di volta in volta ne hanno condizionato l'esito. Il verso di Leopardi, pertanto, si giustifica come sottotitolo dell'argomento, reclamando (credo, giustamente e inevitabilmente) una indicazione e una specificazione con riferimento al nostro presente (e, aggiungerei, con attento riguardo agli sviluppi ulteriori della società umana, a un presente infuturante).

    Ci dobbiamo, allora, interrogare su quale senso la domanda fatta attraverso il verso di Dante possa darci nuove e adeguate indicazioni nel contesto della nostra attualità. Più precisamente, occorre chiederci se alla forma delle due classiche esposizioni del verso dantesco – la contraddizione tragica tra il carattere travolgente dell'amore (per cui vien quasi impossibile all'amato rifiutarlo) e l'adulterio che ne consegue (nel caso si verifichi come “rottura” di un ambito matrimoniale) – se ne possano accostare altre che contraddistinguano meglio l'amore estremo nel nostro tempo; oppure se non ci sia piuttosto una riproposizione di queste forme consolidate dell'amore con le sole varianti “sociologiche” dell'attualità.

    Qui vien facile porre l'accento sul capovolgimento di senso, anche se lento, del concetto di lussuria che, a partire dall'Umanesimo e dal Rinascimento, si è avvertito lungo gli ultimi secoli, specie nel Seicento, fino al “consolidamento”, nel Novecento, di questa, come dire, nuova “concezione capovolta”, ad opera del Manifesto futurista della Lussuria di Valentine de Saint-Point del 1913.

    Con il Seicento, infatti, si arriva a una “svolta” storica del ruolo della donna nella società. Georges de Scudéry in realtà è lo “pseudonimo” di Madeleine de Scudéry, che firma i suoi romanzi con il nome del fratello. Con questa straordinaria donna s'inaugura il cosiddetto “preziosismo” letterario, in cui la donna acquista un'autorevolezza letteraria quasi mai ad essa riconosciuta. Con il suo salotto letterario (1650), che divenne famoso col titolo “i sabati di M.lle de Scudéry”, “Saffo”, come veniva soprannominata la scrittrice (e che era tra l'altro il nome della eroina del suo romanzo Artamène ou le grand Cyrus), si scaglia contro il matrimonio, che non esita a definire un'istituzione tirannica. Infatti, lei rimase nubile, pur avendo sostenuto per tutta la vita il valore dei sentimenti e soprattutto dell'amore (particolarmente pregnante un suo aforisma: quando si comincia ad amare si comincia a vivere). In Clélie, histoire romaine, altro suo romanzo inneggiante al “coraggio” della donna attraverso la figura mitologica di Clelia, la fanciulla romana data in ostaggio al re etrusco Porsenna nel 507 a. C. e da questi liberata per aver riconosciuto il suo valore, figura una famosa Carte de Tendre, che possiamo tradurre con il titolo di un eccezionale libro di Giuliana Bruno, “Atlante delle emozioni” (Bruno Mondadori, 2006). “Nel 1654, – scrive la Bruno – a corredo del suo romanzo Clélie, Madeleine de Scudéry pubblicò una mappa di sua creazione. La sua Carte du pays de Tendre – una mappa del paese della tenerezza – illustra un paesaggio multiforme: terra, mare, un fiume, un lago, alberi, qualche ponte e svariate città. Disegnata da uno dei personaggi femminile del romanzo per indicare la via che porta 'alle terre della tenerezza', è l'incarnazione di un viaggio narrativo. Visualizza cioè, in forma di paesaggio, l'itinerario emotivo di cui parla il romanzo. La Carte de Tendre ci svela dunque un mondo di affetti. Nel suo tracciato, frutto di un viaggio amoroso, il mondo esterno esprime un paesaggio interiore. Le emozioni assumono la forma di una topografia mobile. Attraversare quel territorio significa immergersi nel flusso e riflusso di una psicogeografia personale e tuttavia sociale. (...).

    La mappa di Scudéry traccia in realtà il moto delle emozioni – quel paesaggio particolare che l'immagine 'in movimento', vale a dire il cinema, ha trasformato in arte della mappatura. La sua tenera geografia ha fatto da carta nautica al mio tentativo di delineare la mappa della storia culturale delle arti spazio-visive. Collocando il cinema all'interno di questa costruzione, Atlante delle emozioni esplora la relazione tra cinema e altri campi visivi, 'modellando' in particolare il suo rapporto con l'architettura, la cultura del viaggio e la storia delle arti visive, nonché la connessione con l'arte della memoria e della mappatura”.

    Questo accenno a Scudéry, e soprattutto alla “specificazione contemporanea” che ne dà Giuliana Bruno, fa capire meglio cosa avviene nel secolo a cui tutti noi oggi presenti apparteniamo, a partire da Valentine de Saint-Point. L'autrice nel suo Manifesto futurista della Lussura scrive: “La Lussuria è la ricerca carnale dell'Ignoto, come la cerebralità ne è la ricerca spirituale. La Lussuria è il gesto del creare, ed è la creazione. (...) Occorre trasformare la lussuria in un'opera d'arte, fatta, come ogni opera d'arte, d'istinto e di coscienza. (...) La Lussuria è una forza”. Questa tematica – che subito dopo il surrealismo rafforza ed estremizza fino ai limiti della protesta violenta contro la società borghese attraverso la forza della trasgressione, come testimonia il romanzo, uscito anonimo, di Louis Aragon, “Il sesso d'Irène” (1928), laddove si legge: “Se avete mai amato anche una sola volta nella vita non svegliatemi se avete mai amato!” – è ripresa ai nostri giorni dal critico e artista Vitaldo Conte e da una schiera di artisti italiani, tra cui la leccese Tiziana Pertoso e la romana Laura Baldieri. Nel libretto “Rosa Lussuria – Body Writer: pulsioni di sconfinamento”, edito da Il Raggio Verde, Lecce 2009, Conte, riferendosi alla Lussuria di Valentine de Saint-Point, scrive: L'ho voluta esprimere con un progetto d'arte, sviluppatosi nel 2008/2009 prevalentemente in Puglia, nel Salento. Questo percorso ora diviene una pubblicazione-mostra, “narrata” attraverso opere (pitture e oggetti d'arte) e video dell'artista salentina Tiziana Pertoso (coordinatrice dell'iniziativa) e da altre giovani autrici, Laura Baldieri e/o “travestite da T rose (con opere e rielaborazioni video-digitali, come Maristella Petrolo). Ad alcune di queste espressioni, talvolta, ho collaborato anch'io e/o con una 'maschera' artistica di Vitaldix, in quanto come Roland Barthes Ho una malattia, io vedo il linguaggio: un testo 'percorso' dalla Lussuria futurista desidera naturalmente una fuoriuscita di immagine/azione dai confini della pagina e tela”.

    La contraddizione tragica della lussuria dantesca viene, dunque, capovolta, dopo il “riconoscimento” secentesco della capacità intellettuale della donna, nella “forza creativa” della Lussuria futurista di Valentine de Saint-Point e nell'inevitabile “sconfinamento” del corpo vivo, palpitante e senziente della Body Writer di Vitaldo Conte. In conclusione, il nostro tempo ha “strappato” (ho usato volutamente l'aggettivo strappato al posto di “liberato” per indicare una lettura di questo percorso culturale non scevra dalla consapevolezza di quella violenza che l'ha accompagnata in tutto il suo corso storico fino a oggi) la lussuria dalla catena conflittuale del peccato, morale e religioso, e l'ha fatta simbolo addirittura di una necessaria e illuminante “forza” di vita e creatività. Al corpo “confinato” della contrizione (cilicio) e del martirio (autoflagellazione) subentra il corpo “sconfinante” della “volontà di potenza” (in senso nicciano) che proprio nella lussuria non trova soltanto i semi di una passione-libertà da sempre agognata, ma addirittura rinviene, e riconosce, quella che con Aristotele protremmo chiamare il senso della Potenza, cioè il desiderio, infinito e quindi immortale, di espansione insito in ogni individuo. Ma sia in Valentine sia in Vitaldo questa forza sconfinante del corpo, pur attratta dal carattere eccessivo dell'arte (la pagina bianca) e della passione (la rosa rossa), prende consapevolezza che lo sconfinamento rimane “limitato” alla finitezza del corpo stesso (aderente in tutto e per tutto alla vita come sola e unica condizione di realizzazione del suo senso materiale e spirituale), il quale avrà sempre davanti a sé l'arte e la passione come borderline, linea di confine tra il senso e il non senso dell'opera e dell'operare e tra l'illimitato desiderio del corpo e l'incalzare del suo tempo finito.

    Oltre che nell'arte, questa nuova immagine borderline dell'amore prende forma in maniera molto evidente anche nella narrazione letteraria. E non solo in Occidente. Kawabata in Giappone, per citarne uno, e Yu Hua in Cina, per riferirci proprio al nostro “presente remoto” (Anni Settanta, Ottanta e Novanta), sono esempi fin troppo evidenti del cambiamento universale di segno, da negativo a positivo, della lussuria nel rapporto amoroso.

    In “Bellezza e tristezza” (Einaudi), Kawabata pone l'accento sulla lussuria come conflitto ma non come punizione. Il conflitto emerge dalla “segretezza” violata del rapporto d'amore. Questo concetto è sintetizzato nella pagina del romanzo in cui si riferisce del ritrovamento della tomba della principessa Kazunomiya contenuta in un articolo di una rivista museale intitolato "La bellezza e l'effimero".

    "Ecco. Hanno trovato tra le braccia della principessa una lastrina di vetro appena più grande di un biglietto da visita. ... Uno dei ricercatori incaricato delle investigazioni sui materiali tessili, portò la lastrina al museo pensando si trattasse forse di uno specchietto, o di una qualsiasi lastra fotografica."

    "Ora lo specialista dei materiali tessili ha cercato di esaminare quel vetro da ogni angolo e ha visto apparire infine la figura di un uomo... Si trattava infatti di una fotografia."

    "(...) Anche il ricercatore aveva pensato la stessa cosa, cioè che la foto nelle braccia della principessa fosse l'immagine del marito che l'aveva preceduta nella tomba. Aveva perciò deciso di portarla all'Istituto di Storia Culturale l'indomani per trovare un modo di rendere più nitida la fotografia. ... Il giorno dopo, tuttavia, quando guardò la foto alla luce della mattina, l'immagine era completamente sparita. In una notte, la lastra era diventata una semplice placca di vetro trasparente."

    "Per essere stata esposta all'aria e alla luce dopo tanti anni di sepoltura, immagino, - fece Oki.

    "Proprio così. C'è poi un testimone che afferma di aver visto anche lui l'immagine sulla lastra. Il ricercatore quindi non è stato vittima di una allucinazione."

    "E l'autore del saggio scrive: È una storia che ha un che di effimero." (...)

    "Si capisce che l'autore-ricercatore è anche poeta. Non finisce l'articolo con questa frase ma continua la storia con la sua fantasia. Si sa che il vero amore della principessa Kazunomiya era stato il principe Arisugawa. L'autore quindi fantastica che la fotografia fosse quella del principe e non di suo marito, lo shogun Iemochi."

    "Uhm. Quanta immaginazione, - disse Oki. - Ma se veramente fosse stata la fotografia del principe, la storia acquista molto più fascino con la scomparsa dell'immagine nello spazio di una notte."

    "Sei d'accordo con l'autore del saggio. la fotografia, scrive lui, doveva rimanere per sempre sepolta nel segreto della terra. L'immagine è scomparsa dopo aver passato una notte sulla terra, certamente per desiderio della principessa morta."

    Yu Hua, nel suo esilarante “doppio” romanzo “Brothers” e “Arricchirsi è glorioso” (Feltrinelli), parte dalla Rivoluzione Culturale e prosegue mostrando i cambiamenti e gli stravolgimenti che ne sono conseguiti nel corso degli Anni Ottanta (le riforme economiche) e Novanta (il Celeste Impero dei nostri giorni) in Cina, anche a causa del “contatto contaminante” forte col Giappone e con l'Occidente. La lussuria in questo romanzo viene rappresentata dal rapporto conflittuale e tragico tra due fratelli (in realtà sono fratellastri, ma il loro amore reciproco è davvero “fraterno”, anche quando avverrà l'inevitabile allontanamento fra i due), protagonisti del romanzo, Li Testapelata e Song Gang, con una donna, bramata da entrambi. Lei, innamorata di Song Gang, rifiuta le avances assillanti e volgari di Li Testapelata e sposa Song Gang. Ma, per tutta una serie di corcostanze, e soprattutto per le alterne fortune che attraversano nella vita i due fratelli, lei cade nelle braccia di Li Testapelata e a Song Gang, sconfitto e debilitato, non rimane altro che il suicidio. La donna, alla notizia della morte di Song Gang, sconvolta e in preda a una disperazione fredda e rassegnata, abbandona con disprezzo Li Testapelata e finisce per fare la tenutaria di una casa d'appuntamento. Nel romanzo la lussuria sembra ritornare al tema del peccato; ma in fondo, a un attento esame, con essa non si arriva a una mortificazione del corpo e della psiche degli adulteri, né a una loro condanna morale, perché entrambi “sopravvivono” alla tragedia della loro comune vittima.

    In questo caso, anzi, emerge l'altro aspetto della lussuria contemporanea, che ben rappresenta qui il verso leopardiano: il naufragio (d'amore), pur non eludendo del tutto il senso del tragico, viene caratterizzato dal nostro tempo come una condizione non solo non completamente irreparabile, ma addirittura come una ineluttabilità alla quale tutto sommato ci si può acclimatare con la “dolcezza” malinconica (e oggettivamente irresponsabile) della rassegnazione a vivere, e a sopravvivere, sempre e comunque. L'amore, in fondo, in una società “mercificante”, non si distingue più dal desiderio. E, siccome il desiderio è nell'individuo puntuazione di forza, la più grande spinta di vita, l'amore stesso deve divenire sinonimo di desiderio, abbandonando definitivamente il concetto stilnovistico di amore come “rinuncia”.

    Crediamo di conoscere il desiderio, qualcuno ha detto, ma il desiderio non è una cosa facile. La figura di Valentine de Saint-Point ne è un esempio. “Nel Manifesto della Lussura – scrive Vitaldo Conte – l'autrice auspicava l'avvento di una “superfemmina”: aggressiva figura materna nella difesa della razza; amante luciferina, votata alla lussuria e all'esaltazione del desiderio sessuale, libero dai fardelli sentimentali dell'amore fino all'estremità dello stupro per ricreare la vita. La psiche della donna, nei suoi tratti fondamentali, rimane più o meno immutabile attraverso i secoli e le epoche. (...) in ogni amore di donna vi è maternità, la donna è stata e resterà colei che crea, che domina, che esalta, e che, incoraggiandone le ambizioni, rafforza la volontà di vivere degli uomini, e dal suo ruolo di creatrice di corpi si eleva fino alla capacità di produrre anime” (Rosa Lussuria, cit.).

    In Italia il versante letterario, sia pur indiscutibilmente “ricco”, ha bisogno tuttavia di giovani. E i giovani per fortuna ci sono. Nello specifico, ha bisogno di giovani perché i giovani sono i naturali portatori di novità. E ci fanno capire meglio di altri quali sono le tendenze future, per un auspicabile allargamento dell'orizzonte culturale in cui viviamo già oggi; senza il quale, oltretutto, ed è questo l'aspetto più importante, non capiremmo bene a quali esiti tale orizzonte culturale sta conducendo la nostra società. Va detto per inciso che i nostri giovani oggi sono poco valorizzati, si loro poco spazio e, nel contesto “equivoco” della crisi economica, vengono perdippiù frustrati nelle loro aspettative di carriera, persino di vita. Da qui, tutti i fenomeni del crescente “disagio giovanile”, dalla droga, all'alcool, al sesso, all'abbrutimento, fino al dispregio della vita, propria e altrui. Citare autori e romanzi che affrontano tali questioni in modo netto, preciso e efficace, anche con riferimento stretto al tema che stiamo trattando, se non si stabiliscono a priori quelle che sono le prime, essenziali, sintetiche questioni irrinunciabili da cui poter partire per proseguire nel dibattito, si rischia un'elencazione interminabile di opere, tutte eccellenti (da “La famiglia in bilico” di Paolo Di Stefano, al più recente “Gli anni veloci” di Carmelo Abate, per citarne, a caso, appena due, e che affrontano la questione su versanti differenti) ma che ci farebbero smarrire l'essenziale. E, nel nostro caso, l'essenziale è il “sentire” dei giovani di oggi, con riferimento soprattutto al sentimento dell'amore, che si ritiene ancora (e non sappiamo se a torto o a ragione) il sentimento principe attorno a cui crediamo (ma che, appunto, non conosciamo bene, perché viviamo in una società disattenta, e non ci interroghiamo abbastanza e a fondo nemmeno su un suo eventuale, oltre che probabile, cambiamento di segno) ruoti tutta la vita dei giovani.

    E allora credo che un romanzo che ci può dare un'affidabile bussola per seguire un percorso “nuovo”, e che ci possa mettere anche nella condizione di indagare in maniera seria e produttiva su questo aspetto caratterizzante l'attuale condizione giovanile, sia “Raccontami la notte in cui sono nato” (Perrone) del giovane, ma anche profondo e talentoso scrittore romano Paolo Di Paolo. Alla fine del libro, a mo' di postfazione, il giovane autore scrive: Questa storia si ispira a una storia vera. All'inizio del 2007, i giornali di tutto il pianeta hanno raccontato la bizzarra iniziativa del ventiquattrenne australiano Nicael Holt, deciso a mettere in vendita la sua vita sul sito di aste online eBay, per circa seimila dollari. La vicenda mi ha molto colpito, come si può intuire. E ho finito col chiedermi se anche scrivere non sia, in fondo, una curiosa forma di compravendita (di sentimenti, di esistenza)”.

    Così scrive Paolo Di Paolo: compravendita “di sentimenti, di esistenza”. I giovani hanno dunque una percezione chiara e vivida di quello che Perniola chiamerebbe “il sex appeal dell’inorganico”, ossia la mercificazione del corpo, ad opera di una società omologante, standardizzata e consumistica, e persino del suo sentire sospeso in una percezione neutra, per cui la pelle può essere un tessuto da afferrare, indossare e “consumare” liberamente, senza nessuna profonda vergogna, e che a sua volta può essere rivoltato come si vuole e in cui scompare, di conseguenza, la differenza tra interno e esterno. Non scompare del tutto il senso moderno di lussuria come “forza”, “sconfinamento”, ma questo sentire, che fino a poco prima ha conservato tutta la sua carica erotica e passionale, ora si colloca come in uno stato “sospeso”, tra il reale e il “digitale”, in una “pulsazione” virtuale, in cui la vibrazione e l’eccitazione emotiva non lascia segni emozionali forti, ma solo momentaneo ottundimento pronto a sparire come i pixel di una immagine al computer sotto i filtri performativi di un ritocco grafico, per esempio, di Photoshop. E la scoperta, sconvolgente, che possiamo fare riguarda il livello di “abbassamento adolescenziale” in cui questo sentire si è già collocato.

    Prendo a caso uno dei tuoi compleanni – scrive nel suo romanzo Paolo Di Paolo –, facciamo l’undicesimo, non so che cosa ti fosse preso, tutt’a un tratto ti sei chiuso in camera tua a piangere. E Edoardo te lo ricordi come bussava forte? Allora aspettando che passasse quell’infuriato quarto d’ora, i tuoi compagni di classe hanno preparato uno striscione di carta, con i colori a tempera – blu, giallo, rosso – ti hanno scritto un grosso BUON COMPLEANNO; poi tenendo le braccia in alto volevano mostrarlo nella foto di gruppo, ma uno sbuffo di vento ha piegato indietro lo striscione. Qui ci sono tutti, all’ultimo anno di scuola elementare. Pam era l’unica che sapesse già qualcosa di sesso, ne accennava qualcosa tra un’ora e l’altra, in classe. Pam, scusa, e i baci con la lingua? Pam, scusa, e il pisello. Eccetera. Pam tiene in braccio suo fratello piccolo, ha l’espressione di una già entrata da un pezzo nei segreti dell’adolescenza. Tutt’altro sguardo Minetti e Catinelli, loro sì, sempre-bambine, con i vestiti a fiori e i braccialetti, l’espressione morbida, un po’ tonta. Potevi immaginare che sarebbero diventate donne anche loro? Un giorno, per gli strani incroci della vita, avresti saputo di una Minetti inedita. Aveva preso una piccola cotta per lei un tuo compagno di liceo. Guarda che la conosci, diceva Libero, veniva alle elementari con te. O mio dio. E ti raccontava che no, niente sesso, ci siamo solo baciati parecchio, poi – eravamo a casa mia – l’ho convinta a sfilarsi la maglietta, aveva un reggiseno azzurro sotto cui indovinavo i capezzoli turgidi, ha proprio un bel corpo la Minetti, devo dire, così io ero rimasto in mutande e lei aveva ancora i jeans, l’avevo duro da un pezzo e si vedeva, lei ha sorriso – io non puoi capi’ – stavo morendo di voglia, lei si è tolta il reggiseno, deve avere intuito, come mi piaccioni i seni di una donna quando è distesa a pancia in su, coi capezzoli che indicano il soffitto, come mi piace lo spazio tra l’ascella e l’inizio del seno, le ho avvolto con le mani il bacino stretto, ho avvicinato la bocca ai capezzoli poi sono sceso giù fino all’ombelico, a quel punto le ho sbottonato i jeans, lei non mi ha fermato, ho azzardato una mano sotto le sue mutandine azzurre, mi ha punto la superficie ruvida del pube, i peluzzi corti, ho sfiorato la fessura, era umida, via i pantaloni Minetti, via le mutande ti prego! ho pensato, e lei in quell’esatto istante ha fatto da sola, si è liberata in un colpo di tutti e due, come svincolandosi da una morsa, e finalmente ecco la Minetti nuda, ed ecco me che porto il mio viso tra le sue gambe, e adesso che ci faccio qui, i peluzzi hanno un colore strano, non so dirti, forse biondo cenere, mi pungono il mento e le guance. Che sapore ha? A me è sembrato un sapore di limone, un poco acido, ma buono. Però a questo punto non sapevo più che fare, mica facile stare laggiù, mi sono tolto le mutande, lei con la coda dell’occhio mi controllava, un po’ di sbieco, severa, restando supina, mi sono assestato su di lei, ma senza entrare, ho cominciato a muovermi su di lei, ma senza entrare, spingendo il pisello sulla sua pancia, non era il massimo, ma si era raccomandata, dentro no, restava rigida, a un certo punto ha fatto mm, ma non sembrava di piacere, era di fastidio, ha infilato un braccio tra me e lei, e con la mano me l’ha spostato verso sinistra, e quella era anche la prima volta della sua mano sul mio pisello, quindi non so come, è stata proprio una questione di secondi, io in quel preciso istante ho sentito una fitta tra il fondo pancia e il buco del culo, non so come dire, e sono venuto su una coscia, mi sono alzato di scatto e ho visto il laghetto di sperma sulla sua coscia, le ho detto scusami Ale, non volevo, lei è rimasta immobile, come bloccata, e c’era questo corpo nudo disteso e quella grossa chiazza bianca e viscida sulla sua coscia”.

    In conclusione di questa per forza di cose sintetica esposizione, posso concludere (conclusione non definitiva, è evidente) dicendo questo: la Lussuria ha attraversato la storia dell'uomo fino a oggi caratterizzandosi in tre fasi o “aspetti”:

    1 – Lussuria come peccato, in senso morale e religioso;

    2 - Lussuria come “forza” creativa e vitale e come capacità di “sconfinamento”;

    3 – Lussuria come sentimento “neutro”, “spettrale”, privo di carica erotica.

    Ma, c'è un ulteriore aspetto dell'argomento non ancora percorso, e al quale ritengo comunque indispensabile accennare. Il pensiero filosofico e scientifico contemporaneo ci due chiavi di lettura del nostro tempo che si possono sintetizzare con due titoli “flash”: il “pensiero debole” e il “pensiero forte” (il corsivo indica evidentemente l'invito ad approfondire, visto che questi sono semplici appunti sull'argomento specifico della Lussuria). Tra questi due pensieri e le loro alterne fortune, si è inserito di recente e in maniera molto precisa, e non solo sul versante della scienza, un nuovo pensiero che, riallacciandosi al “Trattato sulla natura umana” di Hume, alle scienze cognitive, e ancora alle n€scienze (in particolare, Edoardo Boncinelli, Edelman, Tononi, Domenico Parisi, Antonio Damasio e altri), e infine attraverso una rivisitazione non solo scientifica ma anche filosofica (Alessandra Attanasio) di Darwin, sta indicando una nuova “via” nella filosofia morale. Scrive Alessandra Attanasio nell'Introduzione ai “Taccuini filosofici” di Darwin (Einaudi, 2010): “Dentro la socialità, dentro la materia, dentro il tempo, la coscienza si spoglia dell'anima.

    Ma la domanda ora è: perde questa coscienza il senso della moralità? No, dice Darwin: le radici del senso morale sono 'coadattamenti' che, senza progetto e senza telos, si sedimentano dentro una storia, culturale, cognitiva, e sociale. Una pluralità di fattori socio-bio-cognitivi che definisce 'istinti'. (...) Cosa sono gli istinti? La prima splendida risposta è proprio nei Taccuini filosofici: gli istinti sono 'ragioni dimenticate' (...) Le ragioni dimenticate quindi sono i fossili viventi nella memoria della storia naturale della mente. (...) Le ragioni dimenticate non sono né logica né sentimento. (...). È il passaggio dalla ragione logica alla ragione animale che anche Hume lega agli istinti: la ragione-istinto, o istinti della ragione capaci di motivare all'azione. (...) Ma, in base a quale processo il senso morale acquisisce il valore di legge morale? Secondo la mia teoria, dice Darwin, 'la persistenza degli istinti sociali spiega il sentimento del giusto e dell'ingiusto'”.

    Scrive ancora Darwin (in “Taccuini filosofici”, cit., pag. 146): “Le emozioni più forti dell'uomo sono comuni agli altri animali e quindi al lontano progenitore, (...) la vergogna forse è un'eccezione.
    (...) ma la vergogna come ahimè la conosciamo è molto più facile da vincere dei sentimenti più profondi e peggiori. Nei confronti dei cattivi sentimenti, senza dubbio originariamente necessari, la vendetta era la giustizia. – Nessun controllo sarebbe necessario per il vizio della intemperanza se le circostanze stesse fungessero da controllo – la licenziosità, la gelosia, e l'essere sposati conservano la popolazione. per l'esistenza di così tanti controlli positivi. – (Questo viola i punti di vista del secondo volume di Malthus). Anche Adam Smith parla della necessità di queste passioni, ma le riferisce (io credo) ai nostri giorni e non a uno stato più primitivo di Società. – La civilizzazione sta ora alterando queste passioni istintive – che non essendo necessarie chiamiamo viziose. – (la gelosia in un cane nessuno la chiama vizio). È in base allo stesso principio che Malthus ha mostrato che la dissolutezza è un vizio, specialmente nella donna”.

    A proposito di Adam Smith e Darwin citati da Orazio Parisi
    Paolo Pantano interviene sul dibattito di AVOLA IN LABORATORIO


    - A proposito di Adam Smith, citato da Orazio Parisi, pochi sanno che l'economista a cui si fa riferire il pensiero liberista, oltre a La Ricchezza delle Nazioni scrisse un  libretto secondo me artatamente e volutamente nascosto. Proprio Adam Smith, considerato il più importante sostenitore dell'interesse personale come molla dell'economia, in realtà nella sua Teoria dei sentimenti morali afferma che ''l'uomo dovrebbe considerare se stesso non come qualcosa di separato e staccato, ma come un cittadino del mondo, un membro della vasta comunità della natura ed all'interesse di questa grande comunità egli dovrebbe sempre esser lieto che si sacrifichi il suo piccolo interesse personale'' (pag. 92).

    - A proposito di Darwin, citato ancora da Orazio Parisi, una mia amica docente presso l'Università di Padova, scrive così su Darwin:
     
    Tenendo fede al monito di sapore leibniziano secondo cui natura non facit saltus, Darwin stabilì una scala di gradazioni tra l'uomo e l'animale che non prevede brusche interruzioni, ma che al contrario unisce attraverso un filo sottile e ininterrotto le forme nelle quali si presenta oggi l'essere umano e la conformazione di altre creature viventi o vissute sulla superficie  terrestre. Darwin si fece promotore di un'ipotesi gradualista, stante la quale tra le differenti specie di esseri viventi si può constatare una differenza di grado, ma non una radicale frattura, una incolmabile distanza o una sostanziale differenza qualitativa.
     
    "Per quanto il processo di selezione possa essere lento [...] non riesco a scorgere alcuna limitazione alla quantità di mutamento, alla bellezza ed all'infinita complessità degli adattamenti reciproci di tutti i  viventi fra di loro e con le condizioni fisiche di vita, che possono realizzarsi nel lungo volgere dei tempi ad opera del potente potere selettivo della natura. Numerosi punti di convergenza riscontrati a livello della struttura ossea, embrionale ma rintracciati finanche sul piano comportamentale stanno a dimostrare una pur  remota discendenza delle differenti specie di esseri viventi da un progenitore comune".
    Ciò  costituisce il fulcro innovativo della teoria darwiniana e, allo stesso tempo, la pietra dello scandalo della  medesima. Come accennato in apertura, infatti, trascinato da prove e osservazioni che sempre più restringevano il margine di errore delle medesime, lo studioso non si arrestò dinnanzi a quella che gli si presentava come un'evidenza non ulteriormente occultabile e, dopo dodici anni dalla pubblicazione de L'origine delle specie, diede alle stampe un volume affatto rivoluzionario, all'interno del quale descrisse una vastissima gamma di convergenze e analogie rilevabili tra gli esseri umani e i mammiferi superiori. Attraverso una serie di  accurate analisi del mondo animale, Darwin constatò che gli individui notoriamente considerati “inferiori” nella scala gerarchica delle forme di vita, sono in grado di manifestare sentimenti ed emozioni quali piacere, dolore, felicità, tristezza, coraggio, ma anche timidezza, amor materno, gelosia e senso dell'umorismo. Inoltre altre  osservazioni lo condussero ad affermare che, pur con le dovute distinzioni di grado ed intensità, era comunque possibile attribuire ad alcune specie animali alcune facoltà razionali ritenute fino a quel momento prerogativa esclusiva degli esseri umani: l'immaginazione è riscontrata nella capacità, propria di molti mammiferi, di sognare e, dunque, di “produrre pensieri”; il senso della  proprietà nonché una forma di devozione che molti studiosi considerano il nocciolo di ogni afflato  religioso sono rilevabili, per esempio, in alcune attitudini proprie dei cani addomesticati, quando custodiscono gelosamente il loro  osso, ovvero quando si dimostrano “fedeli” nei confronti dei propri padroni. Per Darwin non è da escludere nemmeno l'ipotesi secondo la quale gli animali sono dotati di un certo gusto del bello, poiché i processi di selezione sessuale teorizzati dallo scienziato dimostrano in effetti come le femmine di una certa specie animale si concedano ad alcuni individui del sesso opposto in base, talvolta, ad una preferenza di carattere estetico. Ciò verrebbe comprovato dal fatto che alcune caratteristiche sessuali secondarie (colore del piumaggio, nudità di certe zone del corpo, odore emanato, ecc. ecc.) pur controproducenti dal punto di vista della lotta per la sopravvivenza, sono state guadagnate e mantenute, fungendo quindi da mero ornamento, per attirare a sé gli individui femmine: «La selezione sessuale implica che gli individui più attraenti sono preferiti dal sesso opposto; [...] dobbiamo supporre che le femmine, abitualmente o occasionalmente, preferiscano i maschi più belli, e che questi abbiano acquisito perciò la loro bellezza».

    Liliana e NerinaLa riscoperta dell'umanesimo
    generazioni a confronto.
    La giornata di "Avola in Laboratorio"
    «Tornare a mettere l'uomo al centro dell'universo», l'unica alternativa che resta, è questo in sintesi il blank del testamento spirituale che ha lasciato Giorgio Gaber. Ed è stato proprio l'ultimo album del cantautore a offrire gli spunti di riflessione e ad ispirare il tema dell'incontro, «Cinquant'anni e oltre: l'umanesimo del nuovo millennio», svoltosi mercoledì sera, organizzato dall'associazione culturale "Avola in laboratorio".
    La relatrice, Nerina Bono, ha rivisitato i testi di Gaber, mentre Andrea e MicheleLiliana Calabrese Urso, si cimentava in un compito arduo: intonare, accompagnata dalla sua chitarra, le canzoni di Gaber. Il piacevole cocktail di recital e meditazione ha fatto rivivere gli eventi storici e politici più importanti dagli anni '60 al 2000. Il risultato è stato vincente: stanare i presenti, spingendoli a uscire dall'io nel tentativo di diventare un «noi». Il nodo della meditazione è stato il disagio esistenziale che coinvolge tutti. Nerina Bono e Liliana Calabrese sono state in grado, aiutate dal menù locale e da un amabile vino, di far emergere il pensiero dei presenti. «Dobbiamo ricostruire un nuovo umanesimo più che con la ragione, con l'arte e con la poesia» ha affermato Orazio Parisi, mentre si interrogava sul futuro e sui valori da lasciare ai figli: «E' sciocco pensare che i giovani sono eredi di un'epoca depauperata dai principi. Può darsi che gli insegnamenti trasmessi dai nostri padri Antonioabbiano perso il loro significato!». E mentre Alfio Santocono, intervenuto ad interpretare alcune sue poesie, ha ribadito: «I valori sono gli stessi, è l'uomo, col libero arbitrio, che ha scelto la morale del potere», c'è stato chi ha intravisto uno spiraglio. «E' l'utopia che deve rinascere, l'unica che ha mosso gli uomini» ha sostenuto Benito Marziano. E' stata una serata particolare, al di fuori degli schemi di «un'umanità intorpidita», in cui ciascuno esprime liberamente se stesso «riappropriandosi del diritto di pensare». Letizia Lampo, fra gli ospiti d'onore, in rappresentanza di Nuova Acropoli, ha illustrato le finalità dell'associazione: «Aiutare la formazione dell'uomo, puntando su quelle qualità che non emergono». Antonio Caldarella, altro ospite della serata, in armonia con il filo conduttore, «l'uomo al centro dell'universo… un individuo tutto da inventare» ha trasmesso ai presenti, con una delicata lirica, la gioia di esistere e lo stupore di stare bene. Andrea Campisi e Michele Gennaro, allievi del maestro Iano Nané della Almus, presentati da Sebastiano Bell'Arte, hanno testimoniato, esibendosi al flauto, la possibilità di una rinascita «un nuovo uomo, che vive senza alcuna ipocrisia…».
    Gabriella Tiralongo
    dal quotidiano La Sicilia del 27/2/2004
    AVOLA IN LABORATORIO Otto minuti per provare il gusto di parlare in pubblico

    La guerra preventiva, il caso di Terry Schiavo e le poesie di Neruda al centro delle conversazioni
    L'insolita formula delle mini conferenze, otto minuti per proporsi agli altri, eliminare gli steccati e confrontarsi su un terreno sperimentale, escogitata da Ciccio Urso, «motore» dell'associazione culturale «Avola in laboratorio», si è rivelata vincente.
    Mercoledì sera, per il consueto appuntamento della serie "Gli incontri culturali in pizzeria", il modulo "disorganizzato" ha permesso di dare spazio a chi non ha voce e ha indotto l'ascoltatore ad una riflessione interiore. Il più intrepido, Libero D'Agata, ha rotto il ghiaccio traendo spunto dall'iniziativa di un noto quotidiano nazionale: «La diversa interpretazione della vita dipende dalla religione, sia essa monoteista o politeista, per cui la vita rappresenta la diretta conseguenza dell'ambiente in cui nasce la stessa religione». Nerina Bono ha sentito la necessità di trasmettere il disagio suscitatole dall'accanimento comunicativo mostrato dalla televisione sulla vicenda della giovane americana: «La cosa che più mi disturba è il mettere in piazza anche la nostra nudità più intima, non accetterò mai che il nostro pensiero venga lobotomizzato». Lenonardo Miucci ha lanciato l'esca leggendo un racconto ironico sulla teoria della guerra preventiva, pubblicato sull'ultimo numero di Stilos. Corrado Gisarella, presidente di Acquanuvena, ha ritenuto di fare «una comunicazione di servizio riguardante la tutela del territorio, che da più parti viene attaccato». «Lentamente muore chi evita una passione,/chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i"/piuttosto che un insieme di emozioni…», sono stati i versi di Pablo Neruda, letti da Maria Restuccia che hanno convinto Francesca Magro a intervenire: «Viviamo fino in fondo le emozioni che leggiamo, non si può vivere una vita proiettati all'esterno dimenticando l'uomo nella sua integralità, inteso come spirito e corpo. Il mio grande desiderio è comunicarvi che la bellezza della vita è nel cuore di ognuno».
    E' stato un gioco quasi catartico che ha permesso una comunicazione vera. L'esibizione della «Corale città di Avola» presieduta da Peppe Caruso e diretta dal maestro Salvo Passarello, è stato il filo di collegamento fra un intervento e l'altro.
    Gabriella Tiralongo
    in LA SICILIA sabato 2 marzo 2004

    LA SICILIA Venerdì 25 febbraio 2005
    Brancati e la Sicilia


    Brancati"AVOLA IN LABORATORIO". Conferenza di Sebastiano Burgaretta

    "Vitaliano Brancati e la Sicilia" il tema del consueto appuntamento mensile organizzato dall•associazione culturale "Avola in laboratorio". Il professore Sebastiano Burgaretta, approfittando della spinta occasionale del cinquantenario della morte di Vitaliano Brancati, celebrato lo scorso 2004, ha voluto indurre gli amici dell•associazione culturale, intervenuti numerosi, a riaccostarsi all•autore siciliano. "E• una riflessione sull•opera per cercare di capire il rapporto che Brancati ha avuto con la sua terra, con questo angolo di Sicilia, con Pachino, per vedere quanto sia stato determinante tale legame sulla sua formazione, sulla sensibilità e sulla produzione" ha esordito Burgaretta che in diversi appuntamenti ha offerto ai presenti spunti di riflessione "senza tante pretese" come ama dire lui. "E• un autore che passa come colui che si è occupato di gallismo, maschilismo, ma questo è un aspetto accidentale, il nucleo dell•opera è altrove". Lo studioso è convinto che la produzione di Brancati nasce in questo angolo di Sicilia, i cui sapori, odori, la luce sono determinati. Ed è partendo dal proprio villaggio, dall•isola, percepita come una sorta di dicotomia fra la luce e l•oscurità, il lutto e la vita, la passione e la razionalità, che l•autore si eleva per interpretare le inquietudini dell•uomo. "Tutta la narrativa di Brancati si gioca fra questa bipolarità della vita, fra il bisogno di un•armonia interiore e un•identità e la spinta verso l•opposta direzione, nel tentativo continuo di ricomporre queste due dimensioni. Ma se nella vita ci riuscì, i suoi personaggi invece non riescono" ha continuato Burgaretta, leggendo alcuni passi salienti del "Diario romano" e di una novella dal titolo "Il nonno", in cui si percepisce tutta la pregnanza di quegli odori e sapori, del vento dell•estrema punta di Sicilia. Si è trattata di una chiave di lettura di un autore siciliano che ancora oggi, a distanza di cinquanta anni dalla sua morte, è oggetto di malumore e suscita discussioni. In tanti hanno risposto alle provocazioni lanciate dal professore Burgaretta, ognuno ha espresso il proprio pensiero liberamente. L•incontro si colloca in quel percorso personale e collettivo di vita che gli amici dell•associazione hanno intrapreso, forse per caso, nella ricerca di un confronto continuo. Gli appuntamenti culturali in pizzeria iniziati diversi anni fa con Dante, quasi con un intento smitizzante, hanno acquistato, strada facendo, una sfaccettatura poliedrica ed un abitus elastico che si adatta alle esigenze dei presenti e di chi si propone come relatore. E senza orpelli inutili, consente non solo di aprirsi alla letteratura ma agli autori locali di farsi conoscere all•esterno.
    GABRIELLA TIRALONGO

    La matematica è quella scienza
    nella quale non si sa di cosa si parla,
    né se quello che si dice è vero.

    Bertrand Russell


    La domanda più imbarazzante che si possa rivolgere ad un matematico è chiedergli di che cosa si occupa
    Le persone comuni credono che l'attività del matematico consista nel fare continue operazioni con i numeri e che la sua bravura si misuri dalla quantità di cifre che riesce ad utilizzare nei propri calcoli. Di fatto il matematico viene confuso con un elaboratore elettronico e scambiato per un computer organico. Questa visione gravemente riduttiva ed arida della scienza dei numeri non rende comprensibili i profondi ragionamenti che si celano dietro il singolo algoritmo matematico e finisce per respingere la maggior parte delle persone e per far nascere in esse un inquietante e persistente senso di sospetto nei confronti di qualsiasi oggetto matematico. La matematica è pensiero astratto numeriper eccellenza, ma è anche una pratica estremamente concreta, pur se ricca di tecnicismi che molti faticano ad afferrare e dotata di un proprio linguaggio e di una notazione non sempre facili da comprendere. E’ anche una disciplina della quale tutti ci serviamo quotidianamente, a un livello più o meno complesso, e naturalmente rappresenta la solida base sulla quale poggia l'avanzamento della scienza. Una disciplina astratta, dunque, ma anche intimamente saldata alla realtà.
    Concezione naturalistica degli oggetti matematici
    Secondo questo modo di vedere gli oggetti matematici non sono altro che un’astrazione e allo stesso tempo un disvelamento degli oggetti naturali: una cristallizzazione del reale che consente di vedere l’essenza delle cose depurata dalla brulicante molteplicità dell’esistente.
    La matematica è la prima delle scienze naturali: chi negherebbe che i cerchi, i triangoli e le figure geometriche in genere siano delle traduzioni fedeli di analoghe forme corporee, che differiscono da quelle della geometria solo in virtù dell’imperfezione della materia che li costituisce e che solo nell’astrazione matematica i singoli enti (stoichéion) trovino la loro vera descrizione e la loro essenza profonda depurata dagli accidenti della materia.
    numeroIdea platonica degli enti matematici
    Si basa sulla convinzione che la matematica sia dotata di un’esistenza obiettiva universale, indipendente dal pensiero umano. L’intelligenza umana può cogliere più o meno bene gli oggetti matematici, ma non li produce, né li può modificare. La verità matematica non è determinata in modo arbitra-rio dai principi di qualche sistema formale creato dall’uomo, ma ha un carattere assoluto, collocandosi al di là di qualsiasi sistema di regole che sia possibile specificare. La matematica è l’idioma universale ed i matematici agiscono da esploratori e di tanto in tanto scoprono un oggetto matematico nuovo, che successivamente, anche dopo decenni, permette la soluzione di specifici problemi della physis.
    Rappresentazione formalista e costruttivista degli argomenti della matematica
    Siamo nella matematica dal volto umano, nella póiesis dell’uomo per l’uomo. La scienza dei numeri non ha alcuna esistenza al di fuori del pensiero umano. Gli enti matematici sono immaginari e privi di esistenza oggettiva. La matematica che conosciamo è un prodotto dell’uomo ed il matematico crea ed inventa nuovi oggetti matematici. In altre regioni dell’universo altri esseri intelligenti potrebbero aver sviluppato dottrine numeriche del tutto differenti.
    Bisogna prendere atto, al di là delle diverse concezioni della matematica, che molte delle leggi che ci aiutano, nonostante tutto, a comprendere qualcosa della struttura del mondo e dell’universo in cui ci troviamo assumono una forma matematica, sembrano valere in ogni tempo ed in ogni luogo e possono applicarsi indipendentemente da circostanze e condizioni al contorno che a priori avrebbero potuto influenzarne la portata. Anzi diventa scientifico e viene considerato oggetto di scienza universalmente riconosciuto solo quello che si può scrivere in formule matematiche. Ossia è innegabile che la scienza dei numeri si rivela incredibilmente efficace nell’impostazione e nella risoluzione di tutti quei problemi in cui le premesse si basano su affermazioni non ambigue e su concetti non contraddittori. La sorprendente ed irragionevole potenza della matematica ha una spiegazione?


    Libero D'AgataLIBERO D'AGATA

    Corrado BonopergamenaCORRADO BONO POETA ESTEMPORANEO DELL'ANNO 2006 In occasione del consueto appuntamento culturale mensile in pizzeria mercoledì 28 giugno 2006, a chiusura dell'attività ottobre 2005 - Giugno 2006, è stato dichiarato all'unanimità da tutti i presenti Poeta estemporaneo dell'anno 2006 Corrado Bono, sempre presente a tutti gli incontri dell'Associazione con la creazione in tempo reale di almeno una poesia in concordanza tematica con gli argomenti trattati di volta in volta.
    Si augura al simpatico e generosa nostro poeta ulteriore fortuna nella vita e nel campo della creatività.
    Ricordiamo che particolare stima dei lettori ha avuto la sua prima raccolta di poesie dal titolo "Frammenti di luce", pubblicata nel 2004 dalla Libreria Editrice Urso.

Aurelio Rossitto interviene sul Degrado ad Avola
Aurelio Rossitto interviene in un nostro dibattito. Al tavolo Sebastiano Suma e Elio Alia

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prigionieri ad Avola?
Prigionieri italiani sulla spiaggia di Avola
durante l'occupazione americana del 1943.

Cultura in pizzeria

Viru ca mi cci attrovu veramenti
a manciàrimi, ccu... fami, na pizza
ogni quattru mèrcuri, cca prisenti
ccu tanti amici, e vinu na... stizza!

Sèntiri parrari a chiddi cciù sperti
ccu picca règuli, allegramenti,
na simpatia eni, c'addiverti
comu se tutti fòrrumu parenti...

A frinisia ppi ll'autru misi
prestu ti pigghia, ca mancu t'adduni,
e li rinoccia tì senti cciù tisi...

Si viri ca ti 'ncucci ccu pirsuni,
c'auricci ccu tutti teni appisi.
Sulu raccussì nesci ri l'agnuni!...


Corrado Tiralongo
Avola 26.03.03

 

Le foto dell'Incontro
del 22 gennaio 2002

LEOPARDI IN PIZZERIA


Lui (Salvatore Amato, di Enzo)
non si è perso neanche un incontro
di Avola in Laboratorio
e fa bene il prof. Burgaretta
a fargli i complimenti.
Sullo sfondo Benito Marziano
"controlla" i presenti
in uno dei tradizionali incontri dei
Mercoledì letterari in pizzeria.

Solano

Dal quotidiano LA SICILIA del 7/11/2003
I giorni dello sbarco degli Alleati

secondo Appolloni e la Calabrese
Liliana«Dieci luglio 1943, lo sbarco ad Avola» questo è stato il tema dell'incontro organizzato dall'associazione culturale Avola in laboratorio.
Ciccio Urso, dopo aver manifestato il suo compiacimento per la grande adesione all'iniziativa, ha sottolineato come gli avolesi riescano, nonostante tutto, a ricavarre una nicchia culturale all'interno di una città che offre ben poco in tal senso.
Gli associati hanno espresso il loro disagio per la nuova disciplina per la concessione in uso temporaneo di alcuni locali ed attrezzature comunali, approvata di recente dal consiglio comunale, che ostacola di fatto ogni manifestazione.
Il relatore Silvano Appolloni ha ricostruito il clima dell'estate del 1943, quando, verso le tre, sbarcarono in diverse spiagge della Sicilia sud orientale i primi soldati anglo-americani, dando inizio all'operazione Husky, che dopo trentotto giorni, costellati da episodi di resistenza o manifestazioni di appoggio e di indifferenza, si sarebbe conclusa con l'occupaziopne dell'isola.
La narrazione è riuscita a coinvolgere i presenti, alcuni hanno condiviso con gli altri il ricordo di quei giorni.
Episodi nitidi alla memoria, che hanno lasciato il segno indelebile nella mente di quanti all'epoca erano appena ragazzini. Sono state recitate delle poesie dialettali attinenti a quelle vicende.
Il repertorio musicale, ideato da Liliana Calabrese Urso, che ha accompagnato la serata, inizialmente si riferiva solo a canzoni inerenti al tema, poi si è lasciata prendere la mano ed ha allietato i presenti con delle piacevoli divagazioni che avevano comunque un filo conduttore: la libertà, la guerra che calpesta ogni diritto.
Gabriella Tiralongo

Azzurro troppo azzurro
Paolo Randazzo relaziona alla presentazione
del libro "Azzurro troppo azzurro", di Paolo Di Stefano.
Da sinistra verso destra: Francesco Urso,
Paolo Di Stefano, Paolo Randazzo e Sebastiano Burgaretta
.

un momento dell'incontro "Cosa chiedere al sindaco"
Elio Alia, Liliana Calabrese Urso e Gaetano Cancemi


Dal LA SICILIA di domenica 22 giugno 2003
Argentina-Avola attraverso il Friuli


Ricercare le proprie radici partendo da internet, complice la crisi che attanaglia il proprio paese. E' quanto è successo ad un argentino, figlio d'avolesi, che ha cercato aiuto, lanciando la sua bottiglia nel «mare nostrum» del web, malgrado le difficoltà culturali ed istituzionali di una Sicilia non in grado di offrire aiuto agli oriundi. Da Mar del Plata, Carlos, con un cognome ''vagamente'' avolese, Artale, ha voluto conoscere i suoi avi, che nel 1920, probabilmente più per motivi politici che per motivi economici hanno levato le ancore verso quell'immenso estuario. «Siccome ho un amico che conosce un po' la storia di questo cognome avolese, abbiamo intuito chi potesse essere», dice il signor Giuseppe, ricostruendo con puntualità il quadro storico d'origine.
«La procedura burocratica effettuata al comune è stata fruttuosa per la gentilezza dei responsabili - dice Liliana Calabrese - non essendo il primo caso affrontato, dall'inizio della crisi dell'America latina». Diversi viaggi sono stati comunque necessari, «ma alla fine siamo riusciti ad inviare i documenti per la cittadinanza di Carlos, dichiaratosi completamente avolese». Dietro la vicenda umana, si nasconde, però, un problema sempre più diffuso: la pressione che gli extracomunitari esercitano sui nostri confini, non ci trova preparati, culturalmente ed istituzionalmente, ad affrontare queste emergenze sociali. In particolar modo è lo squilibrio nell'impostazione dei problemi tra il «Nord, che ha delle strutture previste, anche a livello d' Enti locali, in grado e con la volontà di accogliere questi figli dispersi nel mondo, tra l'altro spesso dotati di formazione culturale medio-alta, ed il nostro meridione, che si rivela ogni giorno sempre più impotente nel soccorrere la persona bisognosa di assistenza». Carlos, infatti, ha dovuto chiedere, grazie all'interessamento di «Avola in Laboratorio, la cittadinanza italiana tramite un Ente locale del Friuli, dove la procedura è più agile».


Roberto Rubino

Sistema classico e sistema barocco
coesistono pacificamente

Libero''L’Aura, il piglio e i motivi dell’epoca neobarocca'' è stato il tema dell’incontro svoltosi il 26-02-2003 ad Avola presso Villa Esedra Ristorante Pizzeria, dall’Associazione ''AVOLA IN LABORATORIO'', nel corso dei consueti Mercoledì letterari.
Relatore dell’incontro, moderato da Ciccio Urso, l’ing. Libero D’Agata. L’epoca neobarocca è stata prospettata, più che come continuazione di un periodo stilistico ed architettonico ben connotato, in un’accezione più ampia, assurgendo le caratteristiche di un ''sistema'', intendendo, con questo termine, consuetudini e ''modus vivendi'' che si basano, esasperandoli, sulle percezioni sensoriali, ottenendone gratificazioni che invogliano a continuare la scelte del sistema stesso. Oggi assistiamo ad una tendenza verso tale sistema sia da parte del sistema politico sia da quello religioso.
La strumentalizzazione della forma volge alla spettacolarità nell’uno e al folclore festaiolo nell’altro.
La stessa scienza, nella sua percezione più comprensibile, quando si esprime come conquista di strumenti di benessere sociale, tende al ''sistema barocco'' , quando gratifica le attività sensoriali, dai sistemi computerizzati alle realtà virtuali.
Il termine barocco, da attributo, in passato, è inteso, oggi, come sostantivo, e, come tale, scelta e tendenza.
La scienza pura, classica, teoretica, non potrebbe, certamente, avere le stesse rispondenze in termini di partecipazione e seduzione.
Il ''sistema classico'', si esprime, parimenti, nella politica, nella religione, nell’arte e nella scienza, come contrapposto alla ricerca di valori immediatamente fruibili, i cui effetti si misurano a lungo termine e che, nella economia dei sistemi, esprime quindi, quei punti fondamentali che saranno di riferimento per ulteriori forme di ricerca.
Appare evidente, comunque, che tali sistemi, più che in contraddizione, coesistono nella nostra moderna società occidentale, in forma complementare, vissuti in base alle tendenze caratteriali, alle forme culturali, individualmente e collettivamente.
Tali considerazioni sono state ampiamente argomentate dagli intervenuti, consapevoli di essere stati insieme, in modo costruttivo, dandosi appuntamento al successivo incontro.


Corrado Di Rosa

27/02/2002 Pizzeria "Augustus" Strada Statale Avola-Noto: Tre donne di Dante Alighieri (In omaggio all'8 Marzo, Festa mondiale della donna)

Relatore: Prof. Sebastiano Burgaretta

(da LA SICILIA   8 marzo 2002)
TRE DONNE DI DANTE
Francesca da Rimini,  Pia de Tolomei,  Costanza d’Altavilla «in pizzeria» per rendere omaggio alle donne «terrene» in vista della festa  dell’otto marzo. Le  figure femminili tratte dai tre mondi danteschi sono state le protagoniste del mercoledì letterario  organizzato all’Augustus dall’associazione ''Avola in laboratorio''. Artefici di questo incontro  Ciccio Urso e Sebastiano Burgaretta ,  personaggi noti nel mondo culturale non soltanto provinciale. Così fra un sorso di birra alla spina ed una bruschetta in attesa della pizza, trenta persone,  sedute  intorno ad un enorme tavolo,  con in mano le fotocopie di alcuni versi riguardanti i canti quinto dell’Inferno, sesto del Purgatorio e terzo del Paradiso  hanno avuto il privilegio di «nutrire»  oltre al  corpo anche lo spirito traendone uno sconosciuto godimento. In realtà non è cosa di tutti i giorni trovare gente che oltre al tempo abbia anche la voglia di mettere da parte i mille impegni quotidiani per parlare di  Dante!  Quando fortunatamente accade, la pizza diventa l’espediente per sdrammatizzare la natura dell’incontro e predisporre in modo soft l’animo all’ascolto della «voce» della cultura.  Nel salutare gli amici intervenuti, lo ha fatto notare sommessamente l’editore Urso prima di passare la parola al professore  Sebastiano Burgaretta:  «Trovarsi insieme in un momento in cui la società è attraversata da profonde contraddizioni,  per  ascoltare e commentare Dante è sconvolgente e straordinario,  segno che la cultura può abbattere ogni ostacolo».  Poi,  il piatto forte della serata,  certamente non l’ottima pizza, costituito dalla magistrale interpretazione dei versi scelti per l’occasione e dal loro commento da parte di Burgaretta.  «Non è stato semplice estrapolare queste tre figure di donne  dal variegato universo femminile dantesco- ha specificato il professore- D’altra parte motivi di   tempo e di opportunità mi hanno imposto di fare una scelta.  Eliminate le figure femminili dal significato fortemente simbolico,  mi sono soffermato su Francesca da Rimini,  Pia de Tolomei e Costanza d’Altavilla».  Tre donne diverse che Dante ha posto in tre mondi differenti ma legate da un  comune denominatore:  l’amore.  Forte,  terreno,  struggente quello che lega Francesca a Paolo,  che condurrà i due a morte tragica per mano del marito tradito. Sebbene Dante li ponga all’Inferno riserva loro un trattamento migliore rispetto a quello delle altre anime dannate «ospiti» nel cerchio. Egli ha vissuto quella tragedia da vicino per essere amico della famiglia di Francesca. Non può fare a meno di collocare i due amanti  fra i lussuriosi però, non nasconde un sentimento di pietà per quell’amore travagliato che li ha legati in vita e non li abbandona nemmeno in morte. «Amor ch’a nullo amato amar perdona»- sottolinea Francesca.  All’amore si deve corrispondere con l’amore. Esso non può permettere che colui che è amato non riami.  Una fatalità a cui non ci si può sottrarre. Si giustifica così Francesca che non rinnega  il suo peccato e insorge contro il marito: «Caina attende chi a vita ci spense», designandogli la pena,  la Caina ovvero il nono cerchio dove sono attesi coloro che si sono macchiati del  sangue dei congiunti. Ed è l’amore che fa morire tragicamente Pia de Tolomei, anche lei uccisa dal marito tradito.  Pia però, a differenza di Francesca,  si pente per ciò che ha fatto. Per questo Dante la colloca in Purgatorio. In Pia non c’è odio verso chi l’ha uccisa. Ciò che le è accaduto nella vita terrena assume una dimensione diversa. In Purgatorio Pia vuole espiare le sue colpe per poter andare al cospetto di Dio. «Deh,  quando tu sarai tornato al mondo e riposato de la lunga via, ricordati di me che son la Pia» chiede a Dante supplicandolo di pregare per la sua anima in modo da ridurre i tempi di sosta in Purgatorio. Ed è l’amore per la vita monacale quello di cui è stata permeata la vita terrena di Costanza D’Altavilla che Dante ha collocato nel cielo della luna come una santa. Strappata con la forza dal convento  ed andata in sposa all’imperatore Arrigo sesto di Svevia dalla cui unione nascerà Federico secondo, Costanza nell’animo rimane sempre fedele alla regola dell’ordine ed ai suoi voti. Tre donne apparentemente così lontane ma animate da un sentimento senza tempo,  l’amore universale. Un modo assolutamente unico per festeggiare l’otto marzo.


 
Cetty Amenta

LA SICILIA
venerdì 8 febbraio 2002
Avola, «Inferno» di Dante una pizza e una birra
E' possibile coniugare, mettere insieme in perfetta simbiosi ed armonia la lettura di un canto della Divina Commedia con un boccale di birra ed una pizza margherita? Ci hanno pensato gli amici di Avola in laboratorio, valido incubatore di cultura avolese, che si sono dati appuntamento l'altra sera in un pub alla periferia della città e tra un sorso di birra ed un altro hanno letto e commentato il secondo canto dell'Inferno della Divina Commedia di Dante Alighieri. E' il canto in cui Dante esprime alla sua guida Virgilio la paura che egli ha di fare il viaggio che il poeta latino gli propone.
"Una esperienza nuova- afferma Francesco Urso, titolare di una libreria - nata per caso da una idea estemporanea di un iscritto all'associazione AVOLA IN LABORATORIO. Questo ragazzo da alcuni giorni aveva ripreso per conto proprio la lettura dell'opera dantesca ed ha chiesto ai soci del laboratorio di ripercorrere il cammino del poeta fiorentino con la lettura di alcuni canti, ancora oggi di grande attualità. A guidare questo cammino non poteva certo mancare l'amico Sebastiano Burgaretta , socio della nostra associazione, che ci ha fatto entrare in un mondo vecchio che già conoscevamo dai tempi della scuola superiore ma sempre nuovo ed attuale. Una esperienza unica nel suo genere, un viaggio attraverso un mondo che fa riflettere ed accrescere le nostre conoscenze, il nostro Io interiore".
Così circa trenta iscritti si sono dati appuntamento in un pub, ed in una cornice suggestiva, fatta di luci soffuse e atmosfera silenziosa Sebastiano Burgaretta, dopo avere opportunamente inquadrato la genesi e il senso dell'opera dantesca, ha dato corso alla lettura del secondo canto, raccogliendo l'attenzione e lo stupore dei presenti. "Dante è quasi stato quasi sfrattato dalle scuole - afferma tra il serio ed il faceto Burgaretta- abbiamo pensato così di accoglierlo in pizzeria. Una lettura senza pretesa alcuna, dettata solo dalla voglia di aggregarci, ritrovarci insieme alcuni amici e creare opportunità nuove di incontro e di confronto, maturare attraverso la lettura di un'opera che conserva intatta la sua attualità." Burgaretta ha tracciato le linee generali dell'opera, con riferimenti all'umanità del Poeta, al periodo in cui è stata scritta la Divina Commedia, introducendo il primo canto e passando direttamente al secondo, dove il poeta viene preso da un moto di scoraggiamento.
Il poeta è combattuto tra il suo desiderio di salvezza e la coscienza della propria umana fragilità e della propria indegnità di fronte al compito che gli viene proposto. Si evidenzia, infatti, il rischio sempre vivo e presente nella possibile contraddizione tra un senso di superbia personale collegata alla consapevolezza del proprio genio poetico da una parte e l'umiltà derivante dalla coscienza dei propri limiti umani dall'altra. E' venuta fuori una straordinaria analogia tra i problemi sociali e politici del tempo di Dante e quelli del nostro tempo, così come è stata rilevata l'analogia, si direbbe quasi la stretta somiglianza, tra le esperienze vissute dall'Uomo Dante e le esperienze che viviamo gli uomini di oggi, tanto sul piano strettamente personale quanto nel rapporto con la società tutta.
E' emerso anche l'atteggiamento umile del poeta, che di fronte all'impossibilità razionale di dominare la realtà, lascia aperto lo spiraglio, nel suo animo, alla ricezione della rivelazione. Tutte queste problematiche hanno coinvolto vivamente i partecipanti a questa specie di conviviale. Sono infatti intervenuti frequentemente con osservazioni e approfondimenti quasi tutti i presenti. "Seguiremo in questo viaggio - dice Burgaretta - l'evoluzione dell'uomo Dante in un percorso che lo fa maturare, gli fa incontrare personaggi importanti, vivere eventi che lo mettono in discussione. Nella speranza che attraverso questo percorso anche noi personalmente possiamo crescere un po' ". " Non è la prima volta che leggo la Divina Commedia- afferma uno dei partecipanti- ma rileggere adesso i versi del padre della lingua italiana da adulto e non più da ragazzo mi ha dato la possibilità di guardare il mondo che mi circonda in una nuova luce ed ottica. Una nuova visione di insieme, che mi farà maturare ancora di più, perché Dante è attuale nella sua visione sociale e politica".


Sebastiano Raeli

I CONTENUTI

Dl UNA "STRANA" FORMA Dl AGGREGAZIONE CULTURALE
QUALE E' AVOLA IN LABORATORIO

Orazio Parisi

Ritengo, in primo luogo, che non bisogna cadere in esperienze già fatte e i cui risultati sono stati che a tutt'oggi non ci sono risultati di sorta. E questa considerazione non si riferisce tanto a "fatti concreti" (che nel campo culturale, oltretutto, non hanno alcun valore), quanto alla evidente presa d'atto che ad Avola non si può dire che ci sia stata sino ad oggi una vera e propria "presa di coscienza" culturale. Questa realtà , infatti, permane "tagliata fuori" dai "luoghi canonici" del dibattito culturale, sia nelle loro forme tradizionali che in quelle attuali, che sono quelli che si predispongono ad accogliere, ovviamente in senso problematico e critico, i cosiddetti "canali culturali" (editoria, mass-media, produzione accademica, extra accademica, istituzioni pubbliche e private, ecc.). Ed è bene, dunque, che innanzitutto prendiamo coscienza del fatto che questa aggregazione non nasce, come ingenuamente un certo comportamento (voluto, o no) lascia intuire, da un"'improduttiva" lamentosa e a volte "velenosa" insofferenza per questa sorta di "malefico destino" culturale del nostro ambiente; ingenuo perché, anziché mostrare una possibile, o più possibili vie d'uscita, rimuove tale elemento critico riducendolo ad un irrazionale ed inspiegabile humus "caratteriale" delle varie iniziative che di volta in volta si sviluppano e si proiettano all'esterno. Essa nasce, piuttosto, dalla oramai irrinunciabile necessità di porre l'insoddisfazione e l'inquietudine per la constatata incapacità del nostro ambiente a trovare un terreno di confronto culturale, al centro dell'attenzione e del dibattito. Compito non certo agevole, questo; ma al quale, in ogni caso, pertiene la ricerca di almeno un elemento ininterpretabile di qualificazione del dibattito stesso. Io credo di individuare questo elemento nella vocazione "anarchica" della cultura e nella sua possibilità di essere assunto sul piano organizzativo interno al dibattito stesso. Circa il primo aspetto, cioè la vocazione anarchica della cultura, precisato che col termine "cultura anarchica" qui s'intende letteralmente la cultura svincolata da ogni costrizione e potere, ma nel senso di cultura non asservita a nessuna "logica" precostituita (in senso anche psicologico) e a nessun "potere" condizionante, si può a lungo discutere sugli svariati significati e precisazioni che ad esso possano attribuirsi, nonché sulle innumerevoli divergenze di vedute al riguardo, ma è incontestabile il carattere quanto meno tendenziale, di assoluta "apertura" della cultura che ne connota la condizione di irriducibilità sotto il profilo ontologico. Mi rendo conto che, nonostante ciò, il suo passaggio all'aspetto organizzativo non è però automatico. Se al limite si può tollerare (ma diciamo pure, se siamo abituati, ma sempre come estremo limite, a tollerare) l'anarchismo culturale nella sua significazione testé detta, il non predisporre "regole" per la sua fruizione appare quantomeno impensabile.

Ma, lasciando da parte il mio stretto punto di vista, che ho già messo, infatti, tra parentesi, si potrebbe convenire, tuttavia, con uno sforzo da parte di tutti ad una maggiore tolleranza e comprensione, che, se si precisano alcuni essenziali termini della questione, qualche tentativo in tale direzione si potrà anche fare. Il problema a mio avviso sta nel riuscire a trovare un qualche paradigma giustificativo della "irresponsabilità" di un dato organismo culturale organizzativo e aggregante. è facile dimostrare che una struttura socialmente aggregativa, che pretenda di dare voce alle innumerevoli tendenze culturali non importa se basse o alte, se provinciali o meno, se accademiche o extra-accademiche, se attuali o anacronistiche, ecc...., presenti in un territorio ben delimitato, non assume certamente responsabilità intrinseche alle culture stesse che porta alla fruizione pubblica per il fatto stesso che, nella misura in cui, appunto, non pu~ chiedere alcuna adesione ad alcuno statuto, manifesto, proclama letterario, scientifico, filosofico o altro, perché vuole rappresentare (nel senso di esporre, presentare e sottoporre a pubblico dibattito e, quindi, a pubblico giudizio) il pluralismo culturale del suo territorio, non può allo stesso modo assumersi responsabilità che competono viceversa ai contenuti delle diverse voci culturali che via via si manifestano, diventando, così, solo e semplicemente il terreno per così dire "neutro" del dibattito.
Ma, detto ciò, una reale obiezione riguarda il concetto più strettamente organizzativo; e cioè, se tale struttura, come si è detto, pu~ passare come "irresponsabile" dei contenuti culturali che essa stessa porta alla pubblica fruizione, quanto meno, per~, dovrà avere un qualche organismo che, rispettando uno "statuto", abbia incontestabili e inequivocabili capacità di poter scegliere e ordinare le varie sollecitazioni che man mano si presentano e di poterle rendere organizzativamente fruibili (reperire fondi necessari alle diverse iniziative, curare gli aspetti logistici di esse, "garantire" che tutte le iniziative abbiano pari trattamento a parità di condizioni, ecc.). Proviamo a prendere per buona tale obiezione; se ne deduce che un organismo siffatto dovrà assumersi "responsabilità" organizzative di proposte culturali esterne ad esso, in quanto deve sempre preservare la sua caratteristica "neutralità" rispetto alle varie tendenze culturali assunte. Certo, un tale organismo può anche essere possibile. Ma, sicuramente esso si assume la responsabilità, al di là della pretesa "neutralità", di essere funzionale ad una precisa "scelta" culturale che giustifica, anche nonostante le sue stesse intenzioni, un modo acritico e improduttivo di intendere i fatti culturali, equivocando la legittima "neutralità", rispetto ai contenuti che i diversi "soggetti" culturali espongono, con una ingiustificata indifferenza nei confronti delle problematiche socio-culturali che emergono dal livello del dibattito (o dalla mancanza di esso) presente in un dato territorio. E, nella migliore delle ipotesi, si rivela, non un organismo culturale, ma una incongruente struttura di servizio senza nessuno scopo, nemmeno a carattere economico, non avendo fini di lucro; perdendo, tra l'altro, irrimediabilmente l'unica sua seria funzione, che è quella, a cui accennavo all'inizio, di focalizzare l'attenzione pubblica sugli elementi di crisi in cui versa la "coscienza culturale" nel territorio da esso rappresentato, o che esso vuole rappresentare.

Pertanto, senza volere imporre punti di vista personali con soluzioni totalizzanti, sarebbe opportuno, almeno in questa prima fase dell'esperienza di Avola in laboratorio, assumere come punto fermo il fatto che più che l'elemento organizzativo è centrale il concetto di crisi culturale, dal cui livello raggiunto far discendere modalità partecipative ad esso adeguate e corrispondenti.

Montaigne nell"'Essais" con amarezza scriveva:"Quando gli uomini si riuniscono le loro teste si restringono". Ma, proviamo a considerare tale massima da un altro punto di vista e cioè: quando gli uomini si riuniscono in una aggregazione culturale, se lo fanno, è perché sanno restringere le loro teste per non occupare . eccessivo spazio; e questo, non tanto per abnegazione altruistica e caritatevole di chi vuole accogliere a tutti i costi il suo prossimo, ma per non cadere in contraddizione con la sua stessa volontà che lo ha portato a confrontarsi con gli altri. Non dunque, per un asfittico riconoscimento conformistico del ruolo sociale, ma per una "seria" e praticabile competizione che consenta una "crescita" culturale individuale, che non è consentito togliere spazio agli altri. Solo in questo modo, e non tanto paradossalmente, una società "chiusa" al dibattito pu~ viceversa capitalizzare e tesaurizzare le disparate tendenze che in essa pullulano, e questa pretesa capacità tesaurizzatrice è per di più la sola logica e condivisa condizione di accrescimento di quegli "spazi" alle cui dimensioni si imputa, non a torto, il restringimento delle teste degli uomini.

Orazio Parisi

area percorsoConclusa con soddisfazione l'escursione domenicale del 15 febbraio 2004 dei peripatetici di "Avola in Laboratorio" nei territori stupendi dei Presocratici e nella terra dell'antica Eloros.
Camminando e filosofeggiando, in un nuovo appuntamento, si parlerà di Mito, Poesia e Scienza prima di Socrate
29/2/2004 Alcuni amici di "Avola in Laboratorio", in sintonia e in solidarietà con quanti della MAILING LIST della Libreria Editrice Urso in giugno-luglio-agosto di questo 2004 faranno il "Cammino di Santiago", si danno appuntamento per le ore 9.00 di domenica 29 febbraio nella piazzetta di Lido di Noto, per una camminata filosofica (fino alle ore 11.00) nell'area del sito archeologico di Eloro, antica città della Magna Grecia.
Camminando e filosofeggiando si parlerà di Mito, Poesia e Scienza prima di Socrate
Hanno già dato la loro adesione Michele Urso, Salvatore Elera, Leonardo Miucci, Orazio Parisi, Peppe e Giovanna Di Pietro, Liliana Calabrese, Francesco Urso, Paolo Cusi, Enzo Genesio, Marcello Giurastante.


I PERIPATETICI DI ELORO
Incontro del 15/02/2004
di ORAZIO PARISI
fotoLa Verità: o noi siamo in essa da sempre o non la troveremo mai.
''Il Grillo'' dell’8/12/1997 riporta un’intervista a Emanuele Severino su ''Che cos’è la verità?''. Alla domanda ''Qual è il rapporto tra l’uomo e la verità. L’uomo alla ricerca delle verità, come deve cercarla?'', Severino risponde: ''C’è un modo di pensare la verità che non potrà mai condurre alla verità. Si dice che l’uomo cerca la verità: si pensa che la verità sia altrove, perché se la cerchiamo non è qui con noi. Allora ci mettiamo in cammino per cercarla. Questa è l’immagine che lei ha enunciato chiaramente: questa è l’immagine di tutta la tradizione occidentale, anche scientifica. Laggiù c’è la verità, e noi ci diamo da fare per raggiungerla. Magari possiamo, a questo proposito, usare una metafora evangelica, molto bella: ci mettiamo a ‘bussare alla porta della verità’.
Proviamo a riflettere su ciò che implica questa immagine del cammino che si deve percorrere per raggiungere la verità. Se io domando: questo cammino, che deve arrivare alla casa della verità, questo cammino è compiuto nella verità? Può essere compiuto questo cammino nella verità, se ci mettiamo, se partiamo dal principio che la verità sia laggiù, chiusa in una casa? Se la verità è chiusa là, il cammino percorso è nella non verità. Allora se bussiamo alla porta non ci sarà aperto.
Questo che cosa vuol dire? Che se noi ci mettiamo nella prospettiva dominante, in cui la verità è qualche cosa che va ricercato, accostato, a cui ci si debba avvicinare, noi non la troveremo mai. L’alternativa è incominciare a pensare alla verità come ciò in cui noi tutti, già da sempre, siamo. Nell’altro modo il discorso è chiuso, e non arriveremo mai ad una verità lontana''.
Il Mare Jonio davanti al Lido di Noto ha riempito di buoni auspici il nostro primo incontro per un cammino intorno a Eloro. Ma, di questa piccola città fondata dai Siracusani all’incirca nel VII sec. a. C. in prossimità della foce del Tellaro, è l’immaginazione più che la realtà a donarci solo deboli segni non ancora del tutto corrosi dalla ‘furia della caducità’.
Ci siamo incamminati, dunque, per stradine circondate ai lati da cancelli, da ville e da piccoli giardini, ora di limoni, ora d’aranci e mandarini. Più in là ancora, alberi d’ulivi secolari e qualche roseto poco generoso si affacciano, insieme a qualche cane-schiavo col suo rabbioso latrato, da decrepiti muri a secco o da angusti muri in cemento sormontati da reti di filo spinato. Insomma, uno tra i più squallidi spettacoli del ‘privato’ ha contaminato in forma ibrida il nostro sentimento di apertura con cui la talassocrazia jonica aveva inaugurato il nostro cammino. E tuttavia, il nostro incedere diveniva sempre più gioioso e sicuro, man mano che il discorso su Mito e Logos, su Dóxa ed Epistéme, su Alétheia, Unità e Totalità, e ancora sui ‘fisici’ jonici ed Eraclito, sugli orfici pitagorici e Parmenide si faceva sempre più avvolgente. Al punto che, per un momento, tutti abbiamo creduto di percorrere la ‘hierà hodós’, la ‘sacra via’ che rivela il ‘cammino di Peithò’ (della Persuasione) verso la ‘verità’, caro a Parmenide.
L’illusione svaniva all’improvviso, allorquando ci siamo trovati dinanzi alla nostra prima aporia: la strada sbarrata dagli scavi della nuova autostrada. Cosa fare? Qualcuno a quel punto suggerisce di tornare indietro per timore di perderci. Ma ci siamo subito ricordati dell’insegnamento di Anassimandro (il quale, dinanzi all’aporia dell’acqua come arché di tutte le cose, ‘cambia strada’ e ‘disvela’ l’ápeiron infinito e indeterminato) e abbiamo imboccato una nuova, sconosciuta, via. La quale, nonostante l’enantiodromia dei sentimenti contrari, si rivela essere la strada giusta, portandoci dopo un po’ nel punto da dove siamo partiti (la strada giusta, dunque, è solo quella che ci riporta alla nostra condizione originaria). Giunti così alle nostre macchine, ci siamo salutati con un arrivederci al prossimo incontro.
Cosa è rimasto di questa prima esperienza? E’ rimasta certamente una bella sensazione; attraversata magari da significati molteplici, da visioni diverse, da differenti emozioni, ma permeata, nel suo complesso, da un comune senso di soddisfazione. Si è voluto intraprendere, non soltanto un cammino di conoscenza, ma anche un percorso di amicizia fuori dai luoghi di routine a cui il quotidiano ci costringe, senza per questo prefigurare necessariamente impossibili ‘vie di fuga’. Si è rimasti ben ancorati ai propri luoghi di origine, ma cercando di dare ad essi ‘nuovi’ significati, odori, sentimenti. A cominciare proprio dal sentimento di amicizia.
Non guasta, al riguardo, per quanto possa sembrare banale, sottolineare il fatto che la ‘nostra’ amicizia è della stessa natura ‘astratta’ della filosofia (che, tutti sappiamo, significa proprio ‘amore del sapere’). Perché essa non ha, come appunto la filosofia, alcuno scopo pratico, ‘utilitaristico’, e per questo somiglia molto alla nietzschiana ‘amicizia dionisiaca’. La quale, ammettiamo, è magari di natura egoistica, ma sicuramente liberata dall’invidia, dalla gelosia e dal risentimento propri della cosiddetta amicizia altruistica (ma anche possessiva) che i più conoscono e praticano. ''Io non vi insegno il prossimo - scrive Nietzsche in ''Così parlò Zaratustra'' - ma l’amico che crea, che sempre ha da donare un mondo compiuto''.
Sappiamo molto bene che questo tipo di amicizia è, come si dice, un’amicizia ‘impossibile’. Ciò che però qui ci preme sottolineare è che, come ha scritto Alfredo Fallica, ''Giulio Cesare non sarebbe stato pugnalato dai suoi amici, che prima lo ammirarono, poi lo invidiarono e infine lo odiarono e lo uccisero, se questi fossero stati amici dionisiaci''. Se, pertanto, non possiamo pienamente essere amici dionisiaci, niente e nessuno c’impedisce tuttavia di aspirare a divenirvi. Ed è quanto stiamo tentando noi con questa nuova esperienza; noi, malati della Follia del nostro Presente, che pensa di scoprire la verità, prescindendo dalla menzogna. La menzogna, ci ha ricordato Nietzsche, è l’Arte e l’Arte è necessaria alla vita.
''La conoscenza è favorevole alla vita, giacché serve da cautela e mezzo per la sua preservazione. Ma il modo in cui avviene la conoscenza scientifica è letale, perché la letalità inerisce alla rigidezza, la rigidezza all’astrazione e l’astrazione alla conoscenza scientifica. Da solo, questo genere di conoscenza non può bastare. Perché valga la pena di vivere, abbiamo ancora bisogno dell’incanto della poesia, ossia di altre forme più libere, differenti, di conoscenza'' (Ignacio Gomez de Liano).

ESSI CERCANO LA FILOSOFIA DEL MATTINO!
Il 15 febbraio erano presenti: Michele Urso, Peppe Di Pietro, Giovanna, Leonardo Miucci, Marcello Giurastante, Liliana Calabrese, Salvatore Elera, Paolo Cusi, Enzo Genesio, Orazio Parisi.
Camminando, accompagnavano i seguenti libri:
Savater, Le domande della filosofia
Savarino, La filosofia antica
Galimberti, I paesaggi dell'anima
Gomez de Liano, Sul fondamento
Russell, Storia della filosofia occidentale - Filosofia greca
Abbagnano-Fornero, Fare filosofia, vol. 1

INTORNO AGLI SPAZI PUBBLICI

FRANCESCO URSO

Il problema delle risorse a disposizione dei cittadini fu posto in modo teatrale il 30 Novembre del 1994 da trentacinque persone, che, avendo intenzione di intraprendere delle iniziative culturali nell'interesse della nostra città, chiedevano al Sindaco di allora (che era il prof. Elia Li Gioi) l'utilizzo di un locale da sempre indisponibile, e cioè il salone dell'ex refettorio del convento di S. Domenico (per intenderci uno dei locali dell'ex Pretura, o dell'ex Ufficio tecnico, sito in Via Mazzini, con accesso al piano terra del cortile). Successivamente Elia Li Gioi, con una lettera ufficiale nella qualità di sindaco di Avola, datata 7/12/1994, non concedeva quei locali, perché l'Ufficio Tecnico ne aveva dichiarato l'inagibilità. Io ero uno dei firmatari di quella richiesta-farsa e ricordo benissimo il clima in cui essa era maturata e lo scopo che si prefigurava, che sostanzialmente era quello di chiedere la disponibilità di ogni tipo di locali per incontri fra cittadini (il tutto entro le caratteristiche del volontariato culturale senza fine di lucro). A dir il vero, già prima di quella amministrazione (coi democristiani, per intenderci), e in ogni modo anche dopo, ci è stato sempre garantito, da parte delle amministrazioni di tutti i colori, secondo il rispetto di alcune logiche regole, l'utilizzo di strutture importanti, quali Palazzo Modica, il ridotto del Teatro Comunale, il saloncino della Biblioteca Comunale e infine lo stesso Salone Comunale. A seguito di quella "scoperta" dellĠUfficio tecnico, noi dopo utilizzammo tutte le sedi disponibili (a volte lavandone i pavimenti, senza piantare chiodi, o smantellare sedie o lampade e senza adeguati servizi igienici. A proposito di quest'ultimo argomento, ricordo di quell'amico giornalista, che a conclusione di una conferenza doveva per forza pisciare e mi chiedeva dove fosse il bagno; gli feci capire, con imbarazzo, che Palazzo Modica ne era sfornito e pertanto gli indicai il grande cortile al buio. L'amico vi si diresse e quando la moglie capì che stava andando in "bagno", non feci in tempo a bloccarla, per spiegarle la naturalezza di quella struttura fatiscente, e così, nonostante tutto, anche lei, chissà come, risolse il suo problema). Così vanno le cose, pur di esercitare questo sacrosanto diritto civile a riunirsi e dibattere. Questo modo di stare assieme, aperto e al servizio della città, senza scopo di lucro, lo chiamammo AVOLA IN LABORATORIO, e ancora oggi ogni tanto, cassa permettendo (per i versamenti rari di pochi amici sensibili), ci facciamo sentire promuovendo, in senso lato, cultura ad Avola.

L'articolo otto dello statuto comunale al primo comma così afferma (come ha fatto bene Orazio Parisi a richiamarloin un suo recente intervento in Agorà):-Il Comune valorizza il libero associazionismo e le organizzazioni di volontariato operanti, senza fini di lucro rendendo disponibili i propri spazi, servizi e risorse in relazione al raggiungimento dei piani di interesse generale e di particolare rilevanza sociale nel rispetto delle proprie competenze e compatibilmente con i mezzi finanziari disponibili. Il Comune riconoscendo il valore della solidarietà umana valorizza l'opera di volontariato in armonia con quanto stabilito dalle leggi-. Si pone allora il problema dei servizi pubblici, aventi come oggetto beni e attività da una parte, e dall'altra la finalità di promuovere sviluppo economico e civile di una comunità locale e di realizzare finalità sociali. A ciò provvede l'art. 22 della legge statale 142/90, che definisce il servizio pubblico in termini molto ampi rispetto a logiche precedenti.

Va allora cercata una strada d'incontro tra le esigenze di risparmi, da parte del Comune, e la politica d'incremento dell'attività nelle sedi pubbliche, che viene dai cittadini e dalle associazioni.

Francesco Urso

Avola 30/05/2000


municipioAll'ill.mo sig. Sindaco del Comune: di Avola
p.c. All'ill.mo sig. Assessore al commercio del Comune di Avola
p.c. All'ill.mo sig. Difensore Civico del Comune di Avola

I residenti, gli esercenti ed i professionisti di piazza Teatro Le scrivono per significarLe il profondo disagio ed i fastidi che vivono e subiscono da diversi, troppi anni. Difatti, come Lei ben sa, in occasione delle festività principali dell'anno (Carnevale, Pasqua, S. Sebastiano,
S. Venera, Commemorazione dei Defunti), ad eccezione del Natale, la suddetta piazza viene destinata a "fiera festiva", e quindi occupata da un numero abnorme di venditori ambulanti con i loro furgoni e banchetti da esposizione, i quali causano disagi non più tollerabili. Costoro, oltre a ricoprire letteralmente la piazza dei loro banchetti, superando lo spazio loro assegnato, parcheggiano dovunque i loro veicoli provocando la sparizione dei posti macchina ed una vera e propria "rivoluzione" dell' intera zona, privando altresì i prospetti inferiori degli edifici insistenti sulla sopraccitata piazza di luce, aria e visibilità ed impedendo financo l'accesso ad abitazioni,negozi e studi professionali, oltre che con la mole dei propri mezzi anche con masserizie e merci accatastate per ogni dove. Da qui inevitabili discussioni e confronti dialettici fra residenti, esercenti e professionisti ed ambulanti, nonché con altri cittadini, fruitori delle attività insistenti sulla piazza, i quali non trovano parcheggio per l'auto dal momento che le stradelle laterali della piazza ed i piazzali antistanti l'Ufficio postale e la chiesa di S. Venera sono occupati da decine di furgoni, e quindi sono costretti ad arrangiarsi su marciapiedi, passi carrabili e ad infrangere tutti i divieti di sosta della zona. A tutto questo fa da contorno il chiasso dei banditori d'asta, dei venditori di musicassette e cd con i loro amplificatori a tutto volume, dei clacson d'auto e dei pullman di linea costretti a zigzagare nel caos della circolazione, con ovvi effetti sul sistema nervoso di tutti, ed in particolar modo di chi ha la disgrazia di dovere svolgere attività intellettuali di studio o di lavoro in mezzo a tale frastuono, e con i risultati che si possono immaginare. Quest'ultimo aspetto realizza fra l'altro, una grave disparità di trattamento fra cittadini, poiché chi non deve subire tali disagi è evidentemente avvantaggiato rispetto a chi deve, suo malgrado, sopportarli, e sotto il profilo della salute, e sotto quello economico-sociale più in generale.Tale quadro,degno di una casbah mediorientale e non di una cittadina europea, viene reso completo dagli allacciamenti (abusivi?) alle linee elettriche che causano cali di potenza a tutti gli edifici della zona ed effettuati in maniera approssimativa e pericolosa, con fili che pendono da tutte le parti; dalla enorme quantità di rifiuti di ogni genere che si accumula disordinatamente non essendo predisposti contenitori idonei all'uopo, e che vengono rimossi a festa finita con dispendio di energie, di uomini e di mezzi del Comune (e quindi a spese della collettività); dalla quantità non trascurabile di "ricordini" fisiologici lasciati dagli ambulanti impossibilitati ad utilizzare negli orari tardoserali e notturni gli adiacenti gabinetti pubblici, chiusi in tali orari, e senza alcuna alternativa che non sia la pubblica piazza, con il conseguente tipico olezzo che in quei giorni aleggia sul luogo, come è facilmente verificabile. Tutti questi disagi sono altresì amplificati dal fatto che durante l'ultimo decennio è aumentato esponenzialmente il numero degli ambulanti presenti (in misura insostenibile per la piazza e per chi ci vive e lavora), nonché la durata della loro presenza (6 giorni in media), e le occasioni della loro presenza (si pensi ad es. all'improvvida iniziativa del "Carnevale estivo"): fattori, tutti questi, anche di evidente forzatura della tradizione, oltre che di disagio. Il quadro tutt'altro che roseo sopra esposto impone interventi urgenti che ci permettiamo di suggerire, nello spirito di collaborazione e non di polemica a cui è improntata questa nostra, quali:
1) Spostare le suddette "fiere festive" in spazi urbani alternativi più capienti e fruibili ed altrettanto meritevoli di valorizzazione (piazzale di Viale Piersanti Mattarella, oppure presso la Villa Comunale, caduta nuovamente nel dimenticatoio); in via subordinata realizzare una rotazione fra tutte le piazze cittadine in qualità di sedi delle "fiere festive" (si pensi, ad es., alla capiente ed inutilizzata piazza Regina Elena), o meglio ancora una ripartizione degli ambulanti nei vari spazi pubblici urbani.

2) Ridurre comunque numero, durata ed occasioni di permanenza degli ambulanti (ad es. escludendo coloro che trattano merce poco pertinente con la festività: cosa c'entrano pentole, mobili e scarpe con il Carnevale?).

3) Attrezzare con contenitori di rifiuti capienti e numerosi i luoghi deputati allo svolgimento delle suddette "fiere festive", nonché assicurarne una sia pure minima pulizia giornaliera; attrezzare tali luoghi con un numero sufficiente di gabinetti "chimici", o comunque posticci, a vantaggio sia degli ambulanti che dei visitatori (si trovano anche a noleggio).

4) Realizzare un piano di parcheggi razionale e rigoroso per i veicoli degli ambulanti, tale da risultare comodo per loro e non penalizzante per coloro che vivono e lavorano nel luogo della "fiera festiva" (ad es., invertire perlomeno il lato destinato al parcheggio nelle stradelle laterali, per i giorni della"fiera festiva", in piazza Teatro, nonché fare in modo da lasciare liberi gli spazi dinanzi l'Ufficio postale e la chiesa di S. Venera). 5) Realizzare un piano della circolazione veicolare urbana ed uno di parcheggi, entrambi da imporre con rigore a cittadini e visitatori, senza lasciare spazi all'improvvisazione ed al fai da te (sinonimo, ad Avola, del fare i propri comodi).

 

Certi di trovare riscontro al nostro disagio, e di non meritare un trattamento discriminatorio a fronte del nostro puntuale pagamento di tutti i tributi comunali ( ICI, rifiuti, acqua, insegne); nonché certi di contribuire in tale modo al progresso civile ed economico (soprattutto sul piano turistico) della nostra città, Le porgiamo distinti e cordiali saluti.

 

Seguono firme:

esagonoLe feste nel centro storico...

...Riflessione fatta martedì 27 febbraio 2001 - h.23.43.59

Pare proprio che il CARNEVALE AVOLESE 2001 sia sul finire......

non si sente più il banditore dell’ asta che ha stazionato indisturbato con tutte le proprie mercanzie in attesa che qualche sprovveduto abboccasse al frenetico ed assordante richiamo del suo microfono,

non si sentono più le stridule note dei soliti strimpellatori ai quali viene concesso di salire sul magnifico palco della piazza centrale,

non si sentono più gli stonati suoni che fuoriescono dagli strumenti dei stanchi componenti la banda municipale,

non si sentono più le urla dei malcapitati fatti oggetto di scherno ( e non di scherzo, come vorrebbe la tradizione popolare ),

non si sentono più i lamenti dei tanti ignari che si sono trovati nel mezzo della folla con il proprio veicolo senza che alcun avvertimento fosse stato predisposto,

non si sentono più le urla di coloro che si sono imbattuti nei cavi di fornitura dell’ energia elettrica lasciati inconsciamente sul manto stradale,

non si sentono più le grida di scampato pericolo degli sfortunati individui presi a bersaglio con armi caricate a pallini e piumini con punta d acciaio,

non si sentono più le lamentele degli ormai dimenticati residenti nel centro storico.

Peccato , si dovrà attendere il 2002 per godere di tanta festa !

Si sente però un forte olezzo di pisciazza e di escrementi, purtroppo umani, che si propaga lentamente ma inesorabilmente dai vari pacchi cellofanati ed abbandonati dagli ambulanti che hanno de-ambulato in questi giorni di festa popolare……………………ma questo fa parte del programma ben noto a tutti i residenti nelle zone interessate dalle concessioni rilasciate agli ambulanti !

Peccato, si dovrà intervenire all’alba di domani con straordinari sforzi economici da parte del Comune, ovvero con i nostri soldi, per ripristinare la normale fruibilità delle zone occupate in questa ennesima festa popolare........

Peccato però che QUALCUNO già si stia opponendo alla possibilità di ripetere il carnevale avolese nel periodo estivo , quando cioè i turisti potrebbero apprezzare la pisciazza calda, e quant’altro correlativo, per far meglio conoscere la città di Avola.

Con tanto dispiacere

diger

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vicino alla postaAltro tipo di occupazione di spazi pubblici vicino alla posta
in Piazza Teatro, ad Avola,
davanti all'Uffico Postale,

automaticamente ad ogni festa locale.
L'Ufficio è aperto al pubblico, come si può vedere,
ma l'accesso viene incredibilmente sempre impedito.

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29/12/2003 Foto ricordo incontro Avolesi.it

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