 Fabrizio Demaria
Pelle. Racconti
2009, 16°, pagine 112
Libreria Editrice Urso
Collana OPERA PRIMA n. 17, ISBN 978-88-96071-14-4 – Esaurito
I racconti di Pelle sono brevi frammenti di identità al margine.
Il libro è una follia come i racconti, viscerale nell’idea pensata e nella sua nascita… non sono sentimenti viscerali sperimentati da me, mi sono limitato a rimanere ai margini e guardare come li vivrebbe ciascuno, con una forte capacità di immedesimazione…
Mi rivolgo alla sensibilità di tutti quelli che, riuscendo ad osservare in pienezza, sanno guardare oltre le cose e le situazioni senza fermarsi all’ovvio, bensì “vedendo” oltre. Sono nati ovunque, sul divano, in treno, al lavoro, ciascuno nato in circa 15-20 minuti, sempre di getto… ho lasciato che anche la forma descrittiva rimanesse integra, […] è frutto di quella stesura immediata e improvvisa.
Il margine ci fa paura, penetra sotto la pelle la nostra pelle, sconvolgendoci, semplicemente, a causa dell’eccesso.
L’eccesso frantuma, squarcia le difese come in un terreno fatto di zolle sventrate dall’oltre della vita. Le zolle, così come la pelle rappresentano il contatto, sono l’epidermide.
“Sono nata il ventuno a primavera ma non sapevo che nascere folle aprire le zolle potesse scatenare tempesta”
Chi siamo noi se non la nostra pelle?
Le parole per dirlo, sono le parole per esserci, per sentirci depositati nei frammenti di identità che appartengono alla nostra storia personale, alla nostra pelle.
Le parole per dirlo sono sulla pelle, dentro, sotto la pelle. Toccandoci ci sentiamo ancorati, vivi.
“Nei rari momenti di lucidità, quando la mia pazzia mi lascia spiragli di realtà , quando le provette che ho conservato, piene di quella polvere e dei frammenti di quelle essenze di vita, confuse con la cenere aizzata dal fuoco. Quando spetto di guardare queste provette è solo perché la follia sobbalza nella mia testa e prende il sopravvento: allora prendo quel pulviscolo, che ha conservato memoria della mia passata esistenza e la mescolo alle mie lacrime insistenti, spalmando quella mistura nelle pareti della mia stanza bianca, con rinnovato dolore, con nuova sofferenza, per continuarvi ad avvicinare il mio naso e annusare”. (p. 24)
La pelle siamo noi, ci radica quando tutto il nostro vissuto è al confine, al margine di qualcosa che è la stessa vita.
Quando la paura predomina e la sete di centratura lascia lo spazio al disagio causato da squilibri della vita … la pelle questo strato che si riscalda, soffre, gioisce, sorride, ha i brividi, ha paura, ci contiene, ci contiene e allo stesso tempo ci separa dagli altri, si fa parola e immagine dentro di noi, si riversa nei suoni raggomitolati dei pensieri e delle parole per dirlo, che rannicchiate come un bambino impaurito, nello stomaco urlano per essere ascoltate, accolte, seppure in uno spazio al margine, uno spazio invisibile.
“Aveva mani lunghe e sottili, incavate sotto il peso della sozzura e della solitudine. Muoveva il suo arco con perfetta disinvoltura ed energica decisione, producendo suoni soavi e delicati che stridevano con il suo stile di vita, impalpabile ed invisibile agli occhi dei passanti” (p. 37).
Il confine si sbriciola in cocci che disgregano la pelle come un vaso di porcellana infranto che per terra grida la sua vita esplosa in io-frammentati, disgiunti, ma ricchi di profonda semplicità.
“La mia provenienza contadina mi aiutò a non perdere la genuinità del mio contatto con la povertà e la semplicità della mia terra, mantenendo un atteggiamento rispettoso e curioso delle stranezze che mi circondavano, della gente che aveva arricchito di sguardi e di sorrisi la mia giovinezza”. (p. 81)
La pazzia ci fa paura, è sempre un esperienza randagia, un esperienza che a pelle ci dà ribrezzo, vomito, nausea per i particolari scarnificanti che umiliano la pelle.
L’ascolto di storie a margine ci avvicina a quella “confraternita dei perdenti, dei braccati” che rimangono impigliati lanciandoci fendenti lancinanti allo stomaco e senso di straniamento.
“La sofferenza mi attraeva come una calamita, ne rimanevo affascinata ed impaurita allo stesso tempo come le sensazioni che mi regalava la follia”. (p. 81)
Ma chi di noi non ha vissuto, seppur per un attimo, per alcuni giorni, per qualche ora al margine?
Chi di noi non si è scontrato con il dolore, con la verità che non vogliamo osservare, ma che sentiamo a pelle …?
Pelle esprime Le parole per dirlo come durante l’analisi, in terapia quando La Cosa prende il sopravvento.
Dalla pelle dei protagonisti alla nostra pelle, fino alle viscere, alla nostra pelle interna. Queste storie sono verità che non vogliamo osservare, che abbiamo paura di leggere perché ci portano al confine, dove i corpi non sono chiari, sono mutevoli, sono e non sono, per un certo verso sono vivi e sono morti allo stesso tempo.
Veronica Miceli
Il testo riprende fedelmente il dialogo con l’Autore.
Cfr. A. MERINI, Vuoto d’amore, Collezione di Poesia, 1991.
Il testo offre richiami e suggestioni che continuano il dialogo con lo spazio della follia. Cfr. M. CARDINAL, Le parole per dirlo, Bompiani, Milano, 1975.
Da Amaltea Trimestrale di cultura Anno V, Numero uno, marzo 2010 //59
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