Benvenuti sul sito della Libreria Editrice Urso, dal 1975 un angolo di cultura ad Avola. Novità del mese Offerte del mese Acquista per informazioni F. E. ALBI
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SARÀ IL SOLE
di F. E. Albi
Con un sole calibrato…a gioia istantanea, francamente preferisco indugiare nell’orto, dove tutto sembra celebrare, almeno per lo spazio d’un mattino, il sorriso di coppie innamorate. Si pospongono i pensieri guastafeste. Tutte le fanfaronate che vedo/odo esibire per il mondo non fanno che richiamare il buonsenso del gran Guglielmo: “Much Ado About Nothing” (“Molto rumore per nulla”). Saltando di palo in frasca, la memoria mi riporta all’altro capo, come a dimostrare la ubiquità del senso comune. Avevo poco più di vent’anni, e mi ero di fresco imbarcato su d’un peschereccio che spigolava nel Pacifico, al largo della costa della British Columbia. Lo skipper, Goravic, era un tipo taciturno, piccolino, che soleva dormire vestito; lo rivedo nitidamente sotto il consunto berretto, occhio vitreo e cervello ottuso, ma cuore d’oro o quasi (mi scaraventò fuoribordo un libro ancora da spaginare). “Fishermen don’t read,” pronunziò. “Neanche i pesci,” azzardai. Ma non era cattivo. Prima di affidarmi il timone per la prima volta, m’insegnò a navigare senza bussola, con la prora allineata ad occhio nudo con un lontano punto di riferimento in fondo all’orizzonte. “Take it easy. Steady! Senza virate brusche. Per mantenerti in rotta, basta dare un’occhiata alla scia che ti lasci dietro: una “V” perfetta non minaccia sorprese.” Fra i mortali, la lezione rimane di moda, come il vizio del lupo.
Mi ero ripromesso di concedermi una vacanza mentale, andando a caccia di lumache, di quelle senzatetto, voracissime di germogli, ghiotte di zucchine in particolare, o basilico; vanno matte anche per le lattughe. Non prevedevo un incontro di… passaggio: un simpatico partenopeo in vacanza presentatomi da un mezzo conoscente, abitante nei dintorni. Don Gennaro è di quelli che non riescono a star zitti. Fa un sacco di domande e, se esiti un istante, si risponde da solo:“Vi sarà pace nel Medio Oriente? Certo che sì. Eventualmente. Ma prima bisogna attendere almeno sette mutazioni del genere umano (se intanto non si suicida). Di buono c’è che, almeno per un attimo, ci si distrae dai soliti incubi quotidiani: Aids, fame, guerra e terrorismo. Ci mancava il SARS.” Don Gennaro si tiene al corrente. D’un tratto mi propone: “Se avessi bisogno d’un’automobile usata, da quale capo di governo oseresti acquistarla?” Rispondo che, nel caso, non c’è privilegio nella scelta. Siamo d’accordo che ognuno di questi strateghi è disposto a barare. Troppi assi nascosti nella manica, ed i media di massa si prestano al vecchio gioco, incapaci di notare l’ovvio, oberati come sono dal vendere pubblicità.
Di preferenza sparla di Bush. Con tanta mala fama da rimontare, all’estero certo molto più che non in casa, il cowboy s’industria di disimpegnare un ruolo che non convince nessuno: pace in terra, come già democrazia in Mesopotamia. Dovrebbe fare il mediatore, con le carte sotto il tavolo, fra due parti, dicesi, opposte, che in verità sono più volte tante: da un lato, Ariel Sharon, col suo carisma da sbirro, in testa alla compagine sionista che, diramandosi dalla Casa Bianca, allunga tentacoli ovunque, e succhia risorse inestimabili, onerose, esose più di tutte le campagne elettorali americane degli ultimi undici lustri, messe insieme; dall’altro, un Abu Mazen, peso ancora incognito, installato da Washington per fare le veci di Arafat, e menare i connazionali ad una pace che, secondo i terroristi, equivarrebbe alla resa. “Facessero le cose con un minimo di serietà. Ccà nisciunu è fesso!” Don Gennaro sbotta, fastidiato, sfiorandosi la fronte, con tanto di mossa. È convinto che l’itinerario della pace (roadmap) è una trovata poco geniale.“Non c’è di chi fidarsi: Iddio creò i pesci. Gesù li moltiplicò. Sharon li pesca e Bush li divide.”
Corre voce che correnti influenti palestinesi già non aspirano ad uno Stato indipendente: ne vogliono uno solo, con parità di diritti, incluso quello del ritorno, per tutti i cittadini – rospo che gli Israeliani non vorranno mai ingoiare. E non solo loro: religione e politica in mano ai fondamentalisti di tutte le tinte costituiscono un pericoloso molotov MDW (ordigno di distruzione di massa). Come se il puzzo di petrolio non fosse abbastanza per incendiare conflitti mondiali, i fanatici della fede perorano la loro agenda: i sionisti devono occupare tutta la terra promessa senza di che il loro Messia non ha voglia di visitare il popolo eletto; gli evangelisti cristiani sono della medesima convinzione, ma per garantire il ritorno di Cristo, la distruzione degli ebrei che non si convertiranno, e la sconfitta d’un Islam, di cui Maometto sarebbe stato il primo terrorista. Secondo loro, Bush avrebbe il sacrosanto dovere di proteggere l’Israele per far sì che si avverino le profezie cabalistiche e bibliche. La mediazione dell’itinerario della pace avrebbe quindi motivi reconditi e per niente spassionati.
Si suol dire che più il mondo cambia più rimane lo stesso, ma non è sempre vero. Una volta, almeno fra le nazioni ritenute civilizzate, la guerra aveva le sue regole, con tanto di dichiarazioni e crimini, da concludere in pomposi armistizi. Oggi no! Il più forte trova il pretesto di saltarti addosso quando vuole, te le suona, ed infine pretende persino dettarti quando ne hai prese abbastanza. Eccetto che il terrorista, in concetto di martirio, debellata la sindrome della paura, dichiara: “Siamo noi a decidere quando terminano le ostilità.” Si continua a morire in Cisgiordania ed Afghanistan, mentre in Iraq i terroristi vogliono persino rivendicare lo spietato regime di Saddam, malgrado Bush si sia affrettato a cantare vittoria, e nonostante la metà delle forze armate sia tornata a casa fra il plauso e la generosità tangibile del popolo: un bordello del Nevada offre accesso gratuito ai reduci (fra cui cinquanta uomini e tre donne hanno già accettato). Evviva il progresso! Intanto, per mandare in tilt i governi del mondo, i terroristi non devono far altro che aumentare il “chiasso” elettronico. Non c’è comunque niente che non si possa spiegare in base ai criteri dell’umana natura.
Prima assoluta fra le regole pratiche, la norma guicciardiana: el particolare mio o l’interesse privato, che vale per l’individuo come per la nazione, perché ognuno gira l’acqua verso il proprio mulino. Da ciò l’inefficacia delle Nazioni Unite, ancora di mezza intesa (a malincuore) solo perché devono difendersi dal mal comune: il terrorismo. Peraltro non v’è alleanza stagionata abbastanza da rendere obsoleto lo spionaggio reciproco. Segue a ruota una massima indiscutibile: se potere è denaro, tutto il mondo è capitalista. Il che vuol dire che i potenti sfruttano ovunque le masse, anche se, come in America, non sempre si giunge all’assurdo, volendo far credere che per sfamare gli affamati vegetariani è necessario ingrassare maiali.
In linea di massima, qui le cose non accennano a cambiare; ci si pasce ancora di corruzione politica: per la campagna elettorale del 2004, almeno tredici apostoli disseminano di già le banalità di sempre per disarcionare il re del rodeo. Si propone fra l’altro la nomina d’un prosecutore indipendente per stabilire se e fino a che punto Bush e chi con lui hanno inventato i parametri per l’invasione in Iraq. Il governo prevarica impunemente. Si fa di tutto per mantenere la supremazia militare, indispensabile al programma imperialistico della nazione, suggerito dalla nuova distribuzione strategica delle forze armate americane nel mondo, specie nel Medio Oriente e nella Corea del Sud. Nessuna maraviglia se negli ultimi sondaggi dei paesi arabi, l’America gode d’una disapprovazione che oscilla dal 73 all’89%.
No, non è solo il sole ad invogliarmi che mi occupi di lumache.
(Appare in Canada su Il Congresso ed in Italia su La Voce del Savuto)

IL PARADISO PORTATILE
di F. E. Albi


Il titolo di qualsiasi pubblicazione suole essere al tempo invito, esca (per stuzzicare la curiosità) e persino sfrontata pretesa. È come dire: “Smetti di correre! Fermati! Metti tutto da parte e prestami un momento. Trascura il lavoro, le distrazioni elettroniche, le sabbie mobili della cibernetica, le montagne di carta stampata, e leggimi! ” Chi ha voglia di esteriorizzarsi è sempre convinto della bontà delle proprie caccole. In partenza avevo optato per Kumu Ka’ikena, in omaggio alla filosofia di chi ispira queste divagazioni, ma infine ho deciso di sostituirlo con un richiamo d’immediata intelligibilità: il paradiso portatile.
In lingua hawaiana, “kumu” traduce “precettore” e “Ka’ikena” denota una persona di ampie vedute, disposta, secondo la tradizione ancestrale, a disseminare la propria saggezza. Ka’ikena è il titolo conferito da una longeva signora hawaiana allo psicologo Paul Pearsall, del Michigan, all’epoca della sua adozione in seno alla ’ohana (famiglia) della comunità insulare. Autore prolifico e conferenziere ricercato, oggi domiciliato ad Honolulu, Pearsall ha recentemente pubblicato – dopo dieci anni in cerca d’un editore (disposto a presentare un lavoro controcorrente) – Toxic Success (Makawao, Maui, Hawai: Inner OcISBN, 2002). Il volume riassume decadi di ricerche intese a promuovere, col permesso dei kupuna (anziani), lo stile di vita oceanico – po’okela – tramandato oralmente da millenni, prima che i Vichinghi imparassero a navigare. Proponendo sensibilità per l’energia spirituale (mana) e l’operosità sana del cuore contento (pu’uwai), po’okela rappresenta una via di mezzo, una valida alternativa all’introspezione spirituale della cultura orientale ed al consumismo moderno di quella occidentale: non si lavora per vincere e per ottenere bensì per condividere, crescere e diventare.
La differenza consiste nel buon senso, nella saggezza atavica (“Gli antichi ci hanno derubati di tutte le idee nuove,” ironizza Mark Twain), e nel poderoso esercizio della scelta a tutti i livelli, senza dannarsi l’anima, ponendosi onerosi quesiti e preoccupazioni di natura esistenziale: Esco con o senza ombrello? Scalo la montagna o la contemplo dalla valle? Inseguo l’arcobaleno per acciuffarlo o me lo godo a distanza in tutto il suo splendore? Mi accontento di ciò che ho oggi o mi sforzo per avere di più domani? La felicità è un’attitudine, un modo di pensare. Scrive Szasz: “La felicità è una condizione immaginaria, una volta attribuita dai vivi ai morti, ed ora di solito attribuita dagli adulti ai bambini e dai bambini agli adulti.” “La vita consiste di quello che l’uomo pensa tutto il giorno.” (Emerson) Nella civiltà oceanica l’enfasi è sul noi piuttosto che sull’io, e l’individuo evita quindi l’angoscia della solitudine e dell’impotenza, la condanna di sentirsi libero e responsabile (come vuole Sartre), e non si sogna di chiedersi perché è nato e tanto meno perché non è stato consultato, prima di nascere (Pascal). Tutt’al più l’Hawaiano (come l’esistenzialista) sa di dover scegliere, anzitempo, e senza adeguata esperienza, il tipo d’individuo che intende essere, e che ogni scelta susseguente dipende dalla prima. Per sua fortuna, può contare sulla guida dei kupuna.
Specializzato in PNI (psicon€immunologia), Pearsall analizza gli epigoni del successo, contrapponendo quello che definisce tossico, generato dalla voglia contagiosa ed insaziabile di accumulare possessioni materiali, e quello autentico, che risulta dall’operare diligentemente, onorando Dio ed avi, rispettando la Natura, preponendo al tutto il godimento delle gioie familiari, la celebrazione dell’amicizia ed il benessere della comunità. Nei casi di successo tossico, l’individuo è portato inevitabilmente a differire qualsiasi soddisfazione ad un perenne ed eludente domani, ad inseguire la felicità (come suggerisce la Costituzione americana), a vivere nel futuro, fra deficienze, dubbi e disappunti che finiscono per esaurire e deprimere
Il successo genuino, salubre, consiste nell’ascoltare la voce del cuore, accontentandosi di quello che si ha, condividendo gioie e dolori, vivendo collettivamente nel presente, e creando memorie che durano tutta la vita. In fondo, Ka’ikena non fa che provare e ribadire quello che saggi e filosofi hanno sempre saputo: “Il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende.” (Pascal)
Massime, queste, che mal si addicono al credo del capitalista, ai principi del profitto, all’incremento continuo della produttività, all’accumulo di beni materiali che ci sottopongono ad un ciclo di tre fasi: prima ci consumiamo desiderandoli, poi ottenendoli, ed infine cercando di disfarcene. I guru della motivazione, gli spacciatori d’illusioni accusano Ka’ikena d’utopia, di spolverare teorie che non hanno nulla a che fare con la loro realtà quotidiana. Per il tipico individuo di gran successo tossico, americano o no, self-made, uomo o donna che sia, la vita è un costante arrembaggio alla piramide, ed un inferno per chi capita di star vicino. Dietro ogni vittoria si nasconde il vuoto, la depressione, e la sfida per un’altra meta. “Quando sei presso l’apice,” mi confidava il noto scultore de Santiago, “non puoi permetterti il lusso di distrarti. Anzi, devi lottare più che mai, devi picchiare, calpestare la concorrenza, onde prevenire che ti stia dietro, e che cerchi di raggiungerti e di sorpassarti.”
Fu a Maui, dopo una conferenza, che un cliente afflitto da successo tossico, affluente abbastanza da poter vivere dovunque e comunque gli piacesse, fissò una colazione con kumu Ka’ikena, per confessargli che avrebbe fatto di tutto per sottrarsi ad una vita che non riusciva a celebrare e tanto meno condividere. “Se decidessi di trasferirmi alle Hawai, potrebbe garantirmi che troverei anch’io il paradiso?” Ovviamente (ma non troppo), si sarebbe trasferito con tutta la famiglia, senza consultare nessuno. Al che kumu Ka’ikena rispose: “Il paradiso, egregio signore, è una specie di valigia: se non se lo porta dietro, molto probabilmente non lo trova.” Alcuni lo trovano eventualmente, ma spesso troppo tardi; come le stelle, che non si vedono di giorno, il paradiso c’è sempre dove si vive, ed è inutile cercarlo altrove. Si parte o si rimane? A che pro chiedersi dopo come sarebbero andate le cose? Agli effetti pratici, probabilmente poco sarebbe cambiato, a meno che, come dicono gli Ellenici, la nonna non fosse nata con i baffi. Alla resa dei conti, calcolando il tutto, la differenza si riduce ad un piatto di lenticchie.
Promovendo lo stile di vita oceanico tradizionale, kumu Ka’ikena lo corrobora con ricerche scientifiche d’avanguardia (n€biologia e n€teologia), ed illustra il tutto con dati clinici tratti dalla sua numerosa clientela: un primo gruppo consta di cento individui (cinquanta uomini ed altrettante donne) colpiti da sindrome di successo tossico, ed un secondo di venti (dodici uomini ed otto donne) morituri, tutti sofferenti di tumori (fra cui Ka’ikena stesso, sopravvissuto ad un linfoma di quarto stadio), e quindi propensi ad una più sana valorizzazione del vivere: “Sarebbe stata una gran vita, se vi avessi fatto attenzione.” Ka’ikena invita a pensare ammonendo: “Non mordermi il dito, prima di saper cosa ti sto mostrando.” Nell’era spaziale continuiamo a peccare di geocentrismo: il sole nasce e tramonta, e non ci accorgiamo d’essere tutti surfisti, costantemente planando il pianeta. Ka’ikena e consorte se lo ricordano a vicenda all’alba: “Svegliati, che cala l’orizzonte!” Per inciso, fra quelli che praticano lo sport del surf, chi si sforza di mantenersi sulla cresta dell’onda, o d’infilarne il tunnel, non si diverte. Il vero surfista ama spossarsi nell’acqua salata, come il bambino nella paglia sull’aia.
La saggezza oceanica ci consiglia di svegliarci e di respirare l’aroma del caffè, di scegliere, in altre parole, dove concentrare la nostra attenzione ossia il filtro che ci separa dal mondo che ci circonda, e che determina la qualità delle nostre esperienze mentali e la quantità ed il funzionamento delle nostre cellule immunitarie. La vita non consiste di quello che ci succede, bensì di come percepiamo quello che succede. Secondo le ricerche d’una nuova scienza (energy cardiology), il cuore dispone di energia propria e d’un suo modo di pensare; il cuore può palpitare al di fuori del corpo perché possiede memoria, n€ni e ormoni, e può trasmettere messaggi al cervello basati su dati propri. Si deve ascoltare quello che il cuore espressa, in sentimenti se non in idee chiare. Il cervello addita come arrivare a destinazione; il cuore suggerisce di chi o che cosa si ha necessità. La differenza fra il successo tossico e quello salubre sta nel modo e su che cosa l’individuo sceglie di concentrarsi.
La percezione precede l’attenzione, che è filtrare o non percepire. L’attenzione è l’ultima linea di difesa, che permette di selezionare quello che si vuole divenga consapevolezza; l’attenzione è l’unica risorsa umana che ci permette di arginare quello che non vogliamo ci occupi la mente. Un cinque milioni d’anni fa, più o meno, l’uomo ed i suoi Primati abbandonarono la comune linea ancestrale; dopo tanta evoluzione, ambo le specie ritengono pur oggi il 98% del medesimo codice genetico. Il restante 2% rappresenta la nostra capacità di concentrarci su tutto quello che vogliamo ci occupi la mente, e diventi consapevolezza. Ovviamente non ne facciamo molto uso. L’homo sapiens (o stressiens) reagisce per lo più d’istinto, da primitivo, pronto a battersi o a fuggire, a contendere e non cooperare. L’individuo affetto da successo tossico è portato a fare più che ad essere, diventando perciò incapace di prestare attenzione al mondo interiore, e soffrendo quindi di “anhedonia” (neologismo americano che indica inabilità a godersi la vita), e di “cyclothymia” o condizione emotiva che causa malinconia cronica.
La pace e la gioia sono condizioni interiori. Come vuole l’adagio cinese, “La gioia non dura mille giorni di seguito, ed il bocciolo non perdura cento.” Lo psicologo Miller offre da scegliere: “Puoi rammaricarti di essere calvo o rallegrarti perché ti rimane la testa.” Thomas Jefferson dichiara: “Non è la ricchezza né lo splendore, ma la tranquillità ed il lavoro che rendono felici.” Il poeta polacco Cyprian Norwid insiste che per essere felici bisogna avere di che campare, per chi vivere e per chi morire. La vita va presa come viene, sicuri che gioia e dolore si complementano, susseguendosi. La sofferenza è un regalo che garantisce la gioia. “Non ti preoccupare che la vita abbia a finire; preoccupati che non abbia a cominciare.” (Cardinale Newman)
Gli esempi non mancano. Ma non si può fare a meno di menzionare la nozione del tempo, quasi a voler decidere che specie di diem si vuole col carpe. Nella cultura occidentale il tempo è il ticchettio inesorabile dell’ora che fugge, del nanosecondo che si dilegua, del presente infinitesimale che si consuma e passa; in quella orientale, si ricorre ad una forma di meditazione – TM – (meditazione trascendentale) che nulla ha che fare col meditare e che consiste, al contrario, nel sottrarsi a qualsiasi attività mentale, compresa la nozione del tempo; nella cultura oceanica il tempo equivale al flusso dell’onda pacifica che, prima di rifarsi oceano, e tornare eventualmente a lambire la spiaggia, dispensa carezze azzurre sulla sabbia della baia. Definitivamente, il tempo non è denaro, come ben sa chi va in giro con la sporta colma d’oro per comprare il tempo perduto. Per godersi una lunga vita bisogna collaborare, praticare il mutuo soccorso, mantenersi calmo e contento; bisogna sottrarsi agli affanni del mondo d’oggi, alla mania del clicca e cancella, per sostenere la carica di mana (energia vitale), nota come prana (India e Tibet), qi o chi (Cina), yesod (fra gli Ebrei della tradizione cabalistica), orenda (fra gli Iroquois), megbe (fra i pigmei del Congo) e Spirito Santo (fra i Cristiani).
In conclusione, Ka’ikena ci concede la libertà di scelta, pur riconoscendo che i filosofi la considerino un paradosso, dovuto alla contraddizione di troppe opzioni che risultano in assenteismo psicologico. In nuce, fa’ quello che vuoi, in modo che la libertà di scelta non diventi tirannia. La stasi è impossibile, goditi quindi il caos dello squilibrio, e ricordati che la saggezza dell’erudito proviene dall’otium, e che l’immaginazione vale più del sapere. Ama e lavora con la medesima intensità, ma non morire di karoshi come i Giapponesi (i quali, col 2% della popolazione mondiale, riescono a raggiungere il 10% delle esportazioni globali). Come guida al successo salubre, il kumu Kawaikapuokalani suggerisce un acrostico di ALOHA (amore):
Akahai – Accettazione di se stesso
Lokahi – Armonia con la Natura
‘Oia‘i‘o – Integrità
Ha‘aha‘a – Umiltà e rispetto verso Dio, Natura e Umanità
Ahonui – Pazienza e fortitudine
O, per semplificare, in una specie di scioglilingua in dialetto afro-americano: “Sii te stesso, non quello che non sei, perché se non sei quello che sei, sei quello che non sei.”

IL COLMO DEL TROPPO
di F. E. Albi


Quando ci si espone, anche di propria volontà, a stress eccessivo, si apre automaticamente la valvola di scarico. Anche la follia è una maniera di evadere la realtà. Come un po’ tutti, faccio dall’inizio del conflitto iracheno dieta di bollettini di guerra in diversi idiomi (quelli americani sono troppo uniformi) per rendermi conto precisamente di come stanno le cose, fino al punto di vedermi costretto a verificare in svariati dizionari il significato di vocaboli comuni. Il fracasso degli esplosivi, i riverberi, i fuochi ed il fumo, i funghi, le flebili eppur rabbiose proteste della contraerea, i disastri, barbarie, distruzione, carneficina, dolore, angoscia, disperazione, menzogne, inganni e bombe umane che, assieme al surrealismo di quel mondo notturno a tinte verdognole, mi spingono persino a verificare la voce “guerra”. Quella che si presenta alla tele o alla radio non sembra coincidere con i ragguagli dei dizionari. Il nuovo Zingarelli, ad esempio, pontifica: Situazione giuridica esistente tra Stati in cui ciascuno di essi può esercitare violenza contro il territorio, le persone e i beni dell’altro o degli altri Stati con l’osservanza delle norme di diritto internazionale. Ma che norme, diritti, regole, e convenzioni! L’America non dichiara guerre dal 1941! E Saddam si pasce di ferocia. Le guerre odierne che impazzano qua e là sono asimmetriche in tutti i sensi. Perciò non me la sento di arzigogolare con gli entusiasti dell’uno o dell’altro campo, né con quelli di mezzo. Attonito davanti allo schermo, a bocca semiaperta e muscoli tesi, mi identifico con il dolore umano e non mi chiedo per chi rintocca la campana.
La conclusione della campagna irachena già da tempo scontata a favore della coalizione degli aderenti (tre, agli effetti pratici), pur senza tenere in conto l’eredità di vendetta, è nel migliore dei casi una vittoria pirrica per l’umanità. La strage si sarebbe potuta evitare, se l’ONU fosse stata capace d’imporre a Saddam prima ed a Dubya dopo, la priorità del bene comune, che purtroppo finisce dove l’interesse nazionale comincia. Ammettiamolo pure, le Nazioni Unite sono soltanto un’idea half-baked (a mezza cottura), da cuocere a sufficienza, con la creazione d’un Consiglio Globale Umanitario, vietato a politicanti cui solo interessa menare acqua al proprio mulino. Nel frattempo dovremo sopportare le fragili alleanze d’occasione, assieme ai raggiri dei contendenti di turno. Va subito detto che la guerra in Iraq ha poco a che fare con l’esportazione di termini camaleontici – democrazia, liberazione, libertà – capaci cioè di cambiare coloratura e connotazione da una frontiera all’altra. È più ovvio di quanto non si sospetti: fra tutte le repubbliche del mondo nemmeno due si rassomigliano. Ed è superfluo sottolineare che la democrazia americana si nutre d’un allarmante consumismo che è ormai pandemico più dell’Aids. Si fa a gara: chi più ha più vuole, senza mai averne abbastanza, ed ognuno, vincendo, spesso a spese di chi non riesce a sbarcare il lunario, si lascia dietro schiere di vinti. Negli ultimi due anni d’amministrazione Bush, l’America ha perso altri due milioni di posti di lavoro.
A livello internazionale, la sindrome della pandemia dell’interesse si osserva nella diplomazia della cosiddetta ricostruzione, molto più impegnativa che non quella per il cambio di regime in Iraq. Pur avendo fatto da spettatori, Chirac e Schroeder fanno causa comune con Putin per assicurarsi una fetta del bottino. Mosca e Parigi vantano crediti considerevoli contro Baghdad. Pur avendo bisogno di aiuti ingenti per rimettere in sesto il paese tuttora in fase di annientamento, Bush e Blair, il primo più del secondo, insistono sul diritto di gestione; dopotutto sono stati loro a sacrificare nel deserto il sangue degli eroi (e la pelle delle vittime). Sarebbe stata una vera miniera di fonti per l’estro di F. Scott Fitzgerald: “Show me a hero and I’ll write you a tragedy.” (Mostrami un eroe e ti scriverò una tragedia.) Trascuro di menzionare gli istruttori russi a servizio di Saddam, e le industrie francesi che hanno violato l’embargo, fornendo all’Iraq dispositivi di visione notturna. Approfitti chi può! Ogni occasione è buona. Serbia e Bosnia hanno fatto la loro parte. E persino la Giordania ha venduto a Saddam munizioni di dotazione americana. Fra tante contraddizioni, la mentalità di Bush emerge con più… coerenza.
Va premesso che governo e popolo non sono sinonimi, né l’uno rappresenta il secondo. Tutto il mondo è paese: anche in America una mano lava l’altra. E tutte e due sono al servizio di interessi privati. È sempre stato così: Los Angeles affoga nel traffico e rimane senza metropolitana perché a suo tempo si volle favorire l’industria pneumatica, ragion per cui si divelsero persino i binari del tram. È probabile che Dubya (o chi per lui) abbia anzitempo sognato di promuovere l’industria petrolifera, fonte della dovizia di famiglia. Ma è ridicolo immaginare che si voglia rubare il petrolio a nessuno. Come si fa a trafugare un pozzo? Tutt’al più, come ogni brava multinazionale, l’industria petrolifera americana vuole solo gestire il petrolio iracheno, contando di rifarsi delle ingenti spese sostenute e da sostenere. È assurdo concepire un’America piena di debiti disposta ad affrontare un deficit di centinaia di miliardi per il privilegio, encomiabile che sia, di esportare la sua democrazia doc. Ancora più assurdo, se non fosse poco attendibile, che Dubya voglia cullare l’intenzione di ricostruire una nazione more perfect dell’America stessa, con scuole efficienti (che scarseggiano negli Usa), con infrastrutture moderne (in decomposizione in America) e persino con una assicurazione medica universale (che rimane interdetta agli americani). Chissà che non sia l’uso dei possessivi a confonderci! Al quesito “Why do they hate us?” (Perché ci odiano?), il musulmano-americano risponde: “Because we do not realize that they are us.” (Perché non ci rendiamo conto che loro siamo noi.) Ancor prima che i pacifisti del mondo cominciassero a protestare, Dubya distribuiva già contratti ai suoi finanzieri (Halliburton, Bechtel eccetera) per rimettere in piedi l’Iraq che sapeva di voler distruggere. Una succursale di Halliburton, Boots and Coots, spegne già i pozzi petroliferi incendiati dai fedelissimi della Guardia Repubblicana in ritirata.
Per ritrovare il nord magnetico, vale la pena rinfrescarsi la memoria con una cronaca del petrolio. Basta sfogliare una traduzione de Le défi mundial, La sfida mondiale, di JISBN-Jacques Sirvan Schreiber (Milano: Mondatori, 1981), per persuaderci che, al massimo, le multinazionali petrolifere si sono sempre limitate a sfruttare i giacimenti, e magari a defraudare i loro legittimi proprietari. Da tali circostanze, partorì l’Opec. Il volume è istruttivo ed affascinante; si legge come un romanzo: fra le vicende più accattivanti si annoverano l’ascesa al potere di Muammar el-Gheddadi in Libia, la deposizione dello scià di Persia, Reza Pahlavi, e le manovre del Medio Oriente teocratico, dei Sauditi, in primis. Esitando a proporre una convinzione senza dati di fatto, non saprei che dire della creazione dello Stato d’Israele, eccetto che trovo poco plausibile la spiegazione tradizionale: più che per onorare la memoria dell’Olocausto, l’Occidente volle garantirsi un approdo sicuro al Medio Oriente, mai immaginando le grane che la strategia avrebbe generato. Se è la coda a scuotere il cane, Gerusalemme stuzzica e Washington abbaia. Approfittando della confusione del momento, Sharon continua impunito ad annettere territori palestinesi ed ad opprimere la popolazione araba, per indurre i kamikaze irredenti a rinunziare al diritto di nascita. Campa cavallo!
Se è dato sperare malgrado l’ora tragica, bisogna anzitutto debellare il fondamentalismo religioso, il fanatismo malcelato dei sionisti ortodossi, dei cristiani rinati e degli estremisti islamici. Torna lecito chiedere al presidente Bush, born again confesso, fino a che punto si attiene alle profezie del Vecchio Testamento, che prevedrebbero divina ricompensa per chi aiuta il popolo eletto, anche nel trucidare i cugini in casa propria. Se ne avrà un’idea, forse, quando Bush, di ritorno dalla mini summit con Blair, varerà il piano di pacificazione in Cisgiordania, prerequisito a qualsiasi tentativo di dialogo con il mondo arabo. In quanto all’Iraq, sarebbe utile che l’Occidente si mettesse l’anima in pace e desistesse di sognare oro nero. Bisogna restituire il governo dell’Iraq agli iracheni, i quali, per esperienza, hanno ampie ragioni per dubitare delle promesse altrui, americane incluse.
A domicilio, checché ne dicano i lestofanti, dopo i prossimi mondiali di calcio, cui l’America resterà come al solito indifferente, il cittadino americano avrà un’altra opportunità di dimostrare, correndo alle urne, se ha o no imparato qualcosa durante il nuovo millennio. Il guaio è che l’elettorato non può più contare su un sistema bipartito: si è tutti ridotti allo stato di consumisti demopubblicani. Di questo passo, all’insegna della sicurezza nazionale, ed all’ombra della gigantesca conglomerazione dei media di massa, si potrà soltanto esportare libertà doc, indottrinata, e patriottismo inteso come vassallaggio più che amor di patria. Strano! Rivedo i cartelloni delle corride in terra di Spagna: matadores di fama, toros bravos, de Murcia… il tutto comincia… a las cinco de la tarde, en punto… si Dios quiere… y si Franco lo permite. È solo un’allucinazione.

Burro di Arachidi (copertina)novità nella paginaF. E .Albi, Burro di arachidi- Peanut butter, 2002, 8°, pp. 118, € 10,00 $ 10 US acquistaAcquista

INTRODUZIONE CRITICA Sebbene sommariamente irrelato al mondo-spazio della pièce dell’autore italo-americano, mi sembra tuttavia lecito poter dire di Albi ciò che Gramsci pensò a suo tempo opportuno enunciare a proposito del Pirandello drammaturgo, che intuiva cioè nel teatro dello scrittore siciliano uno spessore più intellettuale e morale, ovvero culturale, che artistico. In parole povere, mi sembra di veder vagare, nel locus privilegiato della pagina-scena di Albi, una concezione altamente fàtica e dialettica dell’oggettività, una oggettività comunque non scevra di una certa tipologia introspettiva, velata com’è dal manto veristico del mondo piccolo-borghese, ancorché cosmopolita, all’interno del complesso e non facilmente decifrabile macrocosmo americano. Figlio della grande diaspora intellettuale europea del dopoguerra, erede e veicolatore di un bagaglio culturale di valori imperniati su un umanesimo di stampo grecolatino, Albi osserva e drammatizza con acume critico e sorriso ironico i gesti e le gesta, si fa per dire, di un’America e per molti versi di un mondo occidentale sull’orlo della irrazionalità. Una irrazionalità, quella avvertita da Albi, che se non è certo congenere alla lacerante apocalittica visione di Giorgio Agamben, di disumanizzazione cioè e di disinteresse totale per la vita, rispecchia nondimeno e drammatizza la sconfitta della comunicabilità del linguaggio umano e, per evidente sillogismo, della comunanza ed interazione umane, in un’epoca, la nostra, che vanta la più alta densità di tecnologia delle comunicazioni. Non è forse solo un caso che questa opera venisse ultimata alla vigilia del folle volo dell’11 settembre, surreale atto nichilista di efferata ed incomunicabile teatralità che, ricollegandoci ineluttabilmente ad Auschwitz e a quanto di peggio è recitato sul palcoscenico della condizione umana, ci rammenta le sinuose profezie di Huntington e ci fa meglio postulare lo spirito dell’appello kennedyano che l’autore ha tenuto opportuno, quasi a mo’ di dedica post facto, parafrasticamente traslare.
Un filo di speranza per la vita e per l’avvenire del mondo sembra animare i personaggi di Albi i quali, seppur alquanto scettici all’inizio della rappresentazione sulle reali possibilità comunicative e dialogiche dei rapporti umani – “Preferirei non parlarne più” è la battuta di apertura del dramma – tendono alla fine ad inscenare una pur labile decodificazione della realtà segnica che li circonda. Il profondo disincanto della partenza, che si riaggancia in un certo senso alle teorie di Wittgenstein sulla inadeguatezza del linguaggio nel manifestare debitamente gli svariati flussi della coscienza, perplessità tra l’altro elaborate da Pinter, e persino dal Pirandello, per non dire di altri più recenti, viene patentemente ridimensionato nella trattazione, chiamiamola così, catartica e conclusiva (letterariamente forse ancor più che tecnicamente convincente, a mio avviso) allorquando Albi potenzia la gestualità rappresentativa delle “rose rosse” come canonico (“giusto”), e non più sovversivo, messaggio da recuperare. È solo infatti dopo l’olezzante entrata in scena delle rose (“dal gambo lungo”, quasi a richiamo del solipsismo naturalistico di George Bernard Shaw) che Monique recepisce adeguatamente le proposte dell’amica, cogliendone sia la valenza segnica che la comunanza umana.
Va ricordato che è operazione critica volutamente rischiosa imprendere l’indagine di ciò che è a tutti gli effetti un evento teatrale, una performance di tempo-spazio fondale/proscenio, da una postazione palesemente extradiegetica, qual è la mia, a prima vista riduttiva, come potrebbe appunto sembrare la riflessione estetica del testo, della scrittura. Soffermandosi su considerazioni di questo genere gli espressionisti avevano ad esempio decantato le virtù dello stile telegrafico mentre i futuristi, con le loro parole in libertà (o meglio, nella gabbia della libertà), avevano anche loro diffidato della nozione che il linguaggio drammatico fosse davvero in grado di rispecchiare di per sé le particolari movenze di un personaggio, diciamo beckettiano, il cui animo vaga inerme sullo sfondo o sull’avanscena del mondoteatro. Rifacendomi alla felice intuizione del Gramsci, formulata, checché il critico marxista desiderasse accorgersene o meno, dopo un atto di lettura, e non di fruizione dell’evento teatrale pirandelliano tout court, mi sembra di cogliere fra i parametri dello spazio bianco della pagina di Albi una costante coesione di registro aulico che funge da struttura portante dell’intero apparato rappresentativo, dispiegando e potenziando al tempo stesso tutte le coordinate spaziotemporali del ritmo scenico. Albi, egregiamente consapevole del potenziale quasi delfico e terapeutico del linguaggio umano nella plurimillenaria cultura dell’umanesimo grecolatino, ripropone sulla scena del teatro e del mondo americano una sorta di iperlinguaggio appunto, nel senso dionisiaco di un élan vital, e non di mera virtualità esistenziale (vedi l’esempio della disumanizzante omologia della cassiera = contatore elettronico). Ritengo che l’autore, in altre parole, incarni i propri personaggi, e mi riferisco a madre e figlia (autentiche eroine), di una intensità e di una coscienza ierofanica della lingua, di una sacralità e di una dimensione liricamente orfica (si pensi alla passione per un certo tipo di lettura “classica” da parte di Denise, nonché alla sua girovaga intertestualità), tali da poter controbattere gli incessanti assalti della indifferenza/rassegnazione/edonismo (Chad), nonché quelli non meno assillanti della totale irrazionale chiusura al mondo del dialogo, rappresentata tramite l’oneroso ostinato silenzio ed il patologico non-mondo del pater familiae. Mentre il silenzio patriarcale potrebbe verosimilmente segnalare la morte di un certo linguaggio maschilista che dopo secoli di scenografica actio non sembra più avere ormai niente da dire, manifestando nel contempo l’inabilità stessa del teatro come mimesi di vita, l’etica schizofrenica contemporanea impone metodi di sopravvivenza corrispondenti al ritmo del capitalismo imperante, ricercando nella fuga e nella instabilità dell’essere e del sapere (vedi Lyotard, Habermas, Deleuze, Lévi-Strauss) le motivazioni per una definizione postmoderna della condizione umana. Definizione tesa a generare persino l’illusione, e non esclusivamente teatrale, di una risoluzione immaginaria delle contraddizioni reali. Albi, con la compostezza e la misura proprie di chi conosce i meccanismi della cultura e delle lingue che la veicolano, rivisita queste grandi questioni e contraddizioni, investendo i suoi personaggi, se non di una carica risolutiva, di una indole però sufficientemente drammatica da poter coinvolgere il lettore/spettatore in una sorta di complicità attanziale volta a meglio identificare e quindi a meglio valutare le problematiche che affliggono l’umanità. Ed è in questa rivalutazione scenica, nel continuo gesto dialogico e nel ripristino dell’illud tempus, come illustra spesso la madre, nella ragnatela segnica dei percorsi onirici, nelle socialità profonde, e nella valenza polisemica ad essi attribuibile che si genera l’antidoto contro il veleno della irrazionalità. È grande merito di Albi saper dosare il flusso e la frequenza con i quali queste problematiche si iniettano nella economia della fabula, annodandosi con naturale disinvoltura all’intreccio primario dell’azione drammatica.
Burro di arachidi, in vetrinaA parte la congenita frammentarietà stilistico-artistica di ogni opera destinata alle scene, Albi è a mio avviso probante nel rivisitare classici stilemi teatrali, rivestendoli però di un loro manto originale. Così, ad esempio, sull’asse scenico di queste due stupende donne che incarnano il passato ed il futuro e sulla lenta ragionata agnizione dell’amore reciproco che deve assolutamente riempire questo spazio di tempi che è il presente, su una madre e una figlia, dicevo, che concorrono a immettere ordine e buon senso, e umanità – Monique: “Anche se è una illusione, ho bisogno di credere che la nostra relazione ha un significato” / Denise: “Nulla pare aver senso” / Monique-Moira: “Cercava di essere semplicemente umana” – in un mondo genericamente sovversivo e irrazionale (Chad è tra l’altro un hacker), l’autore sparge teatralissime metonimie (macellaio per medico), sinestesi strutturalmente e liricamente riuscite (dolcissima agonia), prolessi e analessi narrative scenicamente persuasive nell’organico della struttura drammatica interna. Una lettura di sottile interazione dunque, quella di Burro di arachidi di Franco Albi, una lettura che non può non cauzionare una eventuale ed altrettanto felice messinscena. Alla fin fine, da quanto appena detto di questa tranche de vie americana, si può articolare un senso di fruizione dell’opera che non vada a urtare contro le inevitabili e paradossali interferenze di un qualsiasi metalinguaggio? Come consumiamo, diciamolo pure, questo burro di arachidi così ricco di proteine e nel contempo così densamente emblematico di cattive abitudini culinarie, quasi sovversivo (perchè americano) nell’ambito della cultura della buona (leggi classica) cucina? Se vi è una immanenza euristica nel gesto e nel gusto del burro spalmato la si può sicuramente avvertire e sullo spazio della fetta di pane e sulle tonalità vocaliche e teatralmente segniche che Albi mette in atto.
Gabriele Niccoli

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La differenza

O papera, mia candida sorella!
tu insegni che la Morte non esiste:
solo si muore da che s’è pensato.
Ma tu non pensi. La tua sorte è bella!
Che l’esser cucinato non è triste,
triste è il pensar d’esser cucinato.

From: "La via del rifugio" (Guido Gozzano)

F. E. ALBI, da Grimaldi (CS), Italia, ha conseguito un Ph.D. in Lingue e Letterature Romanze presso l’Università di California a Berkeley. Fra i suoi scritti recenti, parzialmente pubblicati, sono Pebbles in the Sand e Wilding in the Morn. Sighs and Songs of Aztlán, First Anthology of Chicano Literatur, Peregrinando (novelle) e una monografia su Salvatore di Giacomo sono fra i suoi primi lavori.

 

CURRICULUM VITAE

F. E. ALBI

9878 S.E. King Way

Portland, Oregon 97266 USA

503 654-4848

EDUCATION

Doctor of Philosophy in Romance Languages and Literatures, University of California at Berkeley, California

Master of Arts in Italian, University of California at Berkeley, California

Bachelor of Arts in French and Spanish, University of British Columbia, Vancouver, Canada

TEACHING

1981-1982: Department of Foreign Languages and Literature, Lewis & Clark College, Portland, Oregon

1979-1979: Department of Foreign Languages, Portland State University, Portland, Oregon

1975-1976: Chicano Cultural Center & Department of Foreign Languages, Bakersfield College, Bakersfield, California

1971-1977: Department of Foreign Languages, California State University, Bakersfield, California

1961-1963: Department of Foreign Languages, University of Maryland, €pISBNDivision, Naples, Italy

American Studies Center, Naples, Italy

NATO Foreign Languages Center, Naples, Italy

1961-1962: Italian-American Traveling Fellowship, from University of California at Berkeley, California

1956-1960: Department of Italian, University of California at Berkeley, California

 

OTHER PROFESSIONAL ACTIVITIES

1975-pres.: Director of House of Albi, Art, Brokerage & Communications

****-pres.: American correspondent for Il Grimaldello / La Voce del Savuto, Italy

1990-pres.: American correspondent for Il Congresso, Canada

1993-1994: American correspondent for L’Eco d’Italia, Vancouver, Canada

1983-1988: Director of Voice of Italy, KKEY AM-FM, Portland, Oregon

1974-1976: Director of Voice of Italy, KGEE AM-FM, Bakersfield, California

1971-1972: Director of International Marketing for A & P Investments, Brussels, Belgium

1969-1970: Management Consultant for Horizon Corporation, Tucson, Arizona

1968:1969: Director of Lady Med Gallery, Vancouver, Canada

1963-1968: Director of the MediterranISBNDivision of General Development Corporation, Miami, Florida

RESEARCH AND PUBLICATIONS

Academic

"What Is What with INI" in Inism, II, 4, 2002, quaderni bianchi di Bérénice, rivista di studi comparati e ricerche sulle avanguardie (presso l’editore) 65127 Pescara: Angelus Novus Editori, 2002.

"Canto e racconto nella poesia di Vittorio Butera," PAPC, Vancouver, Canada, 1985.

"The Future of Soccer in the USA" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, October 20, 1984.

"From Chicanos to Hispanics" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, September 14, 1984.

"Highlights of Dante’s Inferno," (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, September 13, 1984.

"The Future of Foreign Languages in America," (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, September 12, 1984.

"The Last Days of Francisco Franco" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, January 26, 1984.

"Sighs and Songs of Aztlán, Selected Readings" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, January 24, 1984.

"Communication by Short Circuit" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, December 3, 1983.

"A Decade of Chicano Literature" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, College, December 12, 1983.

"The Western €pISBNView of Nuclear Arms Deployment" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, October 18, 1983.

"Oil Politics" (conference), Bakersfield College, Bakersfield, California, October 18, 1983.

"Santiago de Santiago: Vuelo hacia Sirio" in Santiago de Santiago, Avila, España: Caja de Ahorros, sin fecha [1981?].

"Bruno Miséfari, Calabrian Anarchist" Proceedings (First International Symposium on Anarchism, Lewis & Clark College, Portland, Oregon, 1980..

"Santiago de Santiago’s Sculptural Mystique," Southwest Art, February 1979, 44-51.

"Decadenti e decadenti all’italiana," PNCFL, 1977.

"Portrait of a Warrior," La Luz, April 1977.

La Calabria d’un poeta calabrese," PNCFL, 1976.

Sighs and Songs of Aztlán, ed., First Anthology of Chicano Literature, Bakersfield, California: Universal Press, 1975.

"Di Giacomo in lingua" PAPC, 1975.

"Da Boccaccio a Chaucer e Shakespeare: evoluzione d’una storia amorosa," PAPC, 1975.

"Neapolitan and di Giacomo," Forum Italicum, December 1974.

"Squarci di teatro napoletano di fine secolo e del primo 900," PNCFL, 1974.

"Natura e Amore nella poesia digiacomiana," PNCFL, 1973.

"Lepardi: Pensieri sulla lingua e sulla poesia," PNCFL, 1972.

Salvatore di Giacomo (Ph.D. thesis), University of California at Berkeley, 1964. [The original English version was revised and rendered into Italian in 1990. A copy is available at the Sezione Lucchesi-Palli, Biblioteca Nazionale di Napoli.

Guido Gozzano (M.A. thesis). University of California at Berkeley, 1958. Revised and digitalized in1990.

La novela psicológica en Hispano-América (B.A. thesis), University of British Columbia, Vancouver, Canada, 1956.

 

CREATIVE WRITINGS

Peanut Butter / Burro di arachidi, (Engish and Italian versions), Rogliano (CS), Italy: Atlantide Edizioni, 2002.

"Nightmare" and "Flight with 13-A" (short stories), Chicano Anthology, University of California at Irvine, 1978.

Variations in Grief Major: Random Poems (multilingual), Bakersfield, California: Universal Press, 1977.

One Who Made It (short story), Bakersfield, California: Universal Press, 1976.

Sighs and Songs of Aztlán, First Anthology of Chicano Literature, ed. (trilingual), Bakersfeld, California: Universal Press, 1975.

"El testigo no oye" (short story), Orpheus, California State University, Bakersfield, California, 1975.

"Con ojos entornados" (poem), Orpheus, California State University, Bakersfield, California, 1974.

"Rumbo norte" (poem), Orpheus, California State University, Bakersfield, California, 1973.

Peregrinando (novelle), Cosenza: MIT, 1972.

 

CREATIVE WRITINGS (digitalized)

Burro di arachidi / Peanut Butter, Rogliano: Atlantide Edizioni, 2002

Semi d’Oriente (haiku), House of Albi: 1990-2000.

Journal (collection of articles), House of Albi: 1993.

Wilding in the Morm (short stories), House of Albi: 1993.

Pebbles in the Sand, (short stories), House of Albi: 1993

Salvatore di Giacomo (in Italian), House of Albi: 1990.

Guido Gozzano. Revised. House of Albi: 1990.

Momenti, (Collection of multilingual poems), House of Albi: 1989.


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