Capita più volte di celebrare autori, opere e amici... Capita anche a tutti la delusione dell'amore autentico esercitato, il fraintendimento nell'interpretare l'impegno. L'incomprensione tra artisti, scrittori, poeti e, aggiungerei, editori, in un saggio di un fantastico scrittore italiano, compreso in un volume da me sempre segnalato come uno dei libri più belli sulla letteratura.
Francesco Urso
Le
celebrazioni impossibili
Di Claudio Magris
in Itaca e oltre, Garzanti, Milano,
2005, pagg. 77-82
on è l'amore cieco a
venire deluso e mal corrisposto, bensì quello, tanto più profondo e
appassionato, che conserva la lucidità del giudizio e della distanza, e che di
quella distanza nutre e arricchisce la sua intensità: l'amore è nostalgia,
tensione e lontananza ed è tanto più vivo quanto più sa d'essere sempre in
cammino e mai alla meta, traendo le sue linfe da questo distacco mai pienamente
colmabile e dalla speranza di colmarlo. Il destino di quest'amore, e del suo
desiderio di celebrare, è spesso il fraintendimento. Nessuno viene così
frainteso e mal ripagato come chi sente la necessità interiore di celebrare -
una figura, un evento, un libro o una bandiera - con passione ma senza
retorica. Fra i gesti votati alla delusione e al malinteso c'è pure la
testimonianza di chi dice il suo rispetto e la sua intensa partecipazione a un
destino altrui, ch'egli sente come proprio e nel quale egli riconosce un simbolo
esemplare della sua vita, senza tuttavia abbandonarsi a un'enfatica e
sentimentale esaltazione.
La risposta a questa testimonianza è quasi sempre l'incomprensione, forse
inevitabile. Joseph Roth scrive La marcia
di Radetzky, nostalgica e commossa celebrazione dell'impero austroungarico
e dei suoi valori, e i legittimisti asburgici, fra i quali si annoverava egli
stesso, lo accusano di aver offeso e ridicolizzato Francesco Giuseppe e lo
coprono d'insulti. Isaak Babel' esalta, nell'Armata a cavallo, l'epopea dei cosacchi che combattono nell'armata
rossa per la rivoluzione, e il loro comandante, il maresciallo Budjonnyj, cui
egli ha inalzato un memorabile monumento, gli rinfaccia d'aver denigrato le
imprese delle sue truppe e lo attacca con furibonde insolenze.
L'esemplificazione di questi equivoci potrebbe continuare in un elenco assai
vasto, ricco non soltanto di simili casi illustri; probabilmente ognuno di
noi, nella sua piccola vita, ha fatto esperienza di quest'incomprensione, ne è
stato vittima e colpevole, ha misconosciuto e rifiutato la severa e perciò
autentica amicizia che gli veniva offerta ed è stato frainteso e respinto
quando faceva dono di un limpido e libero affetto. Questo malinteso è
forse fatale, e perciò giustificato e legittimo. I monarchici asburgici si
attendevano un ritratto oleografico e aproblematico di Francesco Giuseppe,
l'immagine di un sovrano scevro d'ogni imperfezione, e non
quell'indimenticabile mescolanza di torpore e saggezza, di chiaroveggente pietà
e di letargico oblio che ne ha dato Roth, e che ne coglie tutta la vera
grandezza. Budjonnyj pretendeva un'edificante fanfara della guerra
rivoluzionaria, anziché la raffigurazione epica datane da Babel', col suo
sguardo rivolto all'intera realtà della guerra e ai suoi aspetti contrastanti.
Noi sappiamo che sono stati Roth e Babel', e non le associazioni degli esuli
gialloneri né quelle degli autori sovietici di regime, a rendere giustizia alla
fedeltà imperiale e alla lotta per la rivoluzione, ma questa evidente consapevolezza non basta a chiarire un problema e una
contraddizione che si ripresentano di continuo. Roth e Babel' sono
particolarmente vicini a ciò che raccontano, a quella vita di cui celebrano il
fluire, le lacerazioni, l'impeto e il tramonto; in parte hanno vissuto o
almeno visto da vicino quegli eventi che rievocano e rappresentano.
Ma, perfino nel loro caso, la voce che racconta e lo sguardo che contempla si
sollevano al di sopra dell'immediatezza direttamente vissuta e collocano nel
quadro tanto più vasto delle relazioni generali - umane e storiche - quel
dramma che il singolo patisce nel furore dell'immediatezza, sentendolo e
vivendolo quindi come una realtà assoluta. Chi
racconta, anche per celebrare, relativizza l'esperienza e la persona di cui
narra, la inquadra in una prospettiva che la trascende e la guarda da una
distanza che la ridimensiona. La rappresentazione, anche quella più partecipe,
non può non essere ironica, perché ironico è il divario fra l'aspirazione
all'assoluto - che ognuno prova, mentre è in gioco l'essenziale della sua vita
- e l'immensa complessità del mondo, di cui quella vita e la sua aspirazione
sono una piccolissima parte.
Ironico è lo scarto fra ciò che ognuno vuole e crede di essere e ciò ch'egli è
realmente nel contesto globale della realtà, che egli non può scorgere; ironico
è il dislivello fra la parte che ognuno pensa di recitare nella vita e quella
ch'egli recita veramente. Un poeta, che non voglia negarsi e scadere a
falso agiografo, non può non mostrare quell'ironia: ed ecco la goccia che
scende dal naso di Francesco Giuseppe o la sua mente che si perde nel passato,
nel romanzo di Roth, oppure la spavalda elementarità dell'armata a cavallo
nelle pagine di Babel'. Non solo un
poeta, ma ognuno mette in evidenza quell'ironia, nel momento stesso in cui fa
del destino di un altro, o di alcuni altri, un oggetto del proprio giudizio e
della propria rappresentazione, scrivendone in un libro di storia o parlandone
al caffè. In tutto ciò vi è un'indubbia prevaricazione, che spiega le reazioni
rabbiose di chi si comporta, nel dibattito storico-politico o nella vita
quotidiana, come i legittimisti asburgici e Budjonnyj. È la prevaricazione di
chi parla di un altro, e di ciò che gli è accaduto sulla sua pelle, pretendendo
di sapere più di lui e anzi di spiegargli che cosa gli è veramente successo,
che cosa c'era dietro, oltre o al di sopra del suo destino, quali fila
muovevano i suoi atti, ch'egli credeva soltanto e assolutamente suoi;
pretendendo magari di insegnargli che cosa avrebbe invece dovuto fare in quella
circostanza e di svelargli il significato della sua vita.
Tutti partecipano di quest'arroganza: lo storico che spiega a un
partito o a un movimento quali sbagli esso ha commesso e qual è la sua vera
natura; il critico che chiarisce a un poeta qual è la sua autentica vocazione,
a lui stesso ignota, e dove e come egli l'ha tradita, rinnegando la sua più
intima personalità; gli amici che commentano gli errori commessi da uno di
loro, che in quel momento è assente, e prevedono quelli che egli commetterà;
chi ama ed esige dalla persona amata la fedeltà all'immagine ch'egli se n'è
fatta, imponendo un dover essere alla sua pura e semplice esistenza.
Chi riceve questi giudizi, questi suoi ritratti stesi da altri, si
sente frainteso; per ognuno di noi sarebbe imbarazzante ascoltare, non visto,
ciò che gli altri dicono di lui credendolo assente. Ogni vita recalcitra al significato che le viene attribuito e a coloro
che glielo attribuiscono replica, protervamente amara e ferita: tu non c'eri, non
sai, non puoi capire. Il rantolo del cosacco colpito a morte non esce dalla
gola di Babel', anche se egli è lì accanto, e il morente gli nega
implicitamente il diritto di parlarne, così come gli viene negato il diritto di
parlare d'una sciabola che si abbassa su un avversario, perché non è sua la
mano che la brandisce.
Vi sono dei casi nei quali l’incomparabilità fra l'esperienza e la sua
rappresentazione emerge con particolare evidenza: per esempio, i traumi
drammatici che hanno colpito intere comunità o gruppi etnici, sradicandoli dal
loro mondo e votandoli spesso a un esilio spettrale, che impedisce loro di
crescere e di inserirsi in una nuova vita, tenendoli prigionieri in
un'ossessiva ripetizione del passato e di quell'esperienza traumatica.
Chiunque parli loro di quell'esperienza, con rispetto e con amore ma
cercando di capirla e non solamente di soffrirla con le viscere, viene inteso
come reo d'oltraggio: tu non c'eri, gli si dice, non sei stato scacciato quella
notte dalla tua casa, non puoi capire. La stessa cosa accade anche quando a
parlare di quel destino è uno che l'ha vissuto e condiviso, che è stato
anch'egli scacciato in quella notte: nel momento stesso in cui egli cerca di
comprendere, nel suo complesso, ciò che è avvenuto, egli lo trascende e lo
relativizza, e si attira l'accusa di traditore, magari di se stesso. Le viscere
non tollerano di venir comprese nella loro natura, il sangue che circola nelle
vene non sa e non vuole sapere nulla del sistema circolatorio.
Nessuno ha la verità dalla sua: né la ragione che disprezza
l'immediatezza viscerale né le viscere che si rifiutano furibonde alla ragione;
né la vicinanza appiccicosa che non sa distanziarsi da ciò che accade, né la
lontananza intelligente che non sa rifarsi continuamente vicina al pulsare
della vita e delle sue ferite. Questo conflitto non viene superato, ed è
rarissima la comunicazione fra i due piani, le due sfere, i due destini. Il
cieco rancore di chi rimane prigioniero del dramma che ha vissuto non può
capire chi rispetta quel dramma e celebra il coraggio col quale è stato
affrontato ma esorta ad andare oltre, a «superarlo, a vincerlo e a lasciarselo
indietro», come diceva Ibsen nel Rosmersholm.
La storia contemporanea è terribile perché tende a degradare la
tragicità nel grottesco, ad avvilire la grandezza della tragedia umana
costringendo gli uomini, come aveva detto Marx, a ripeterla in forma di
commedia. Nessun individuo e nessun gruppo accetta facilmente che gli venga
svelato questo ruolo comico, ch'egli vive senza saperlo. Questa lacerazione
corre all'interno di ognuno, nell'attimo in cui l'individuo si china a capire
se stesso, e il medesimo fondo scuro della sua vita si ribella allo sguardo che
la sua coscienza, dall'alto, punta sulla sua viscosa oscurità.
Ognuno vorrebbe venire celebrato con ottusa e connivente agiografia,
come nelle recensioni complici con i best-sellers dell'anno, che possono
esaltare questi ultimi perché non li pongono in alcuna connessione con tutto il
resto e perciò sbiadiscono nel nulla, in poche settimane, al pari dei libri
falsamente celebrati. Ogni vita pretende eternità, diceva Nietzsche, e perciò
rilutta a essere illuminata nelle sue contraddizioni; l'amore che vuole
illuminarle è frainteso da chi non vuole ammetterle.
Quando, cinque anni fa, scrissi su un giornale tedesco un articolo su
uno degli scrittori che più mi sono cari, Knut Hamsun, a protestare non furono
persone irritate dell'eccessiva simpatia per un autore colpevole di collaborazionismo
con i nazisti, ma un'«Associazione Knut Hamsun»
norvegese di adepti dello scrittore. Ogni
vita vuole eternità, ma la confonde con l'immobilità e vorrebbe ripetere senza
fine il suo istante significativo; intanto però il mondo è mutato e
quell'istante, ripetuto tale e quale, diviene una parodia.
L'amore ammonisce quella vita a salvarsi dalla parodia, le insegna che
la vera eternità, come dice il verso di Goethe, è un continuo morire e
divenire: ma chi, oscuramente, sente di non poter più divenire, avverte in
questo monito, con risentimento, solo la sentenza del morire.
CLAUDIO MAGRIS, Itaca e oltre, 2005, 16°, pp. 302, € 11,50
In questa raccolta di saggi brevi, Claudio Magris insegue e analizza le due grandi, antitetiche direzioni del viaggio – essenziale, culturale e politico – contemporaneo: il ritorno e la fuga, la conquista e la dispersione dell'identità, la continuità e la metamorfosi dell'individuo.
Attraverso l'indagine di grandi autori – da Svevo a Musil, da Ibsen a Flaubert, da Mann a Walser, da Singer a Borges – Magris rivive la disgregazione di un'idea armoniosa del mondo con i beni e i mali ch'essa comporta, le nuove strade ch'essa apre e le insidie di cui le cosparge.
Il dialogo con i temi del pensiero contemporaneo si affianca al confronto con la condizione storica, l'interpretazione letteraria si alterna alla testimonianza autobiografica e all'intervento politico, l'osservatorio del moralista distaccato si salda all'impegno personale nelle grandi tensioni ideali del presente, l'ambiguità e la reticenza della letteratura s'intrecciano alla chiarezza etica. Il taglio obliquo del saggio sceglie la via indiretta per dissimulare ma anche soprattutto per dire – con tutta l'incertezza e la discrezione imposte dall'ora storica – l'irriducibile esigenza di una verità provvisoria.
IN LIBRERIA DAL 14 MAGGIO 2001
Cettina Lascia Cirinnà
Poesie d'estate
2011, 8°, pp. 96,
illustrazioni di Fabio Montalto
€ 12,00
Collana OPERA PRIMA n. 23
Nasce a Noto (SR) il 29 gennaio 1959, si diploma al Liceo Scientifico E. Majorana di Noto e si iscrive alla facoltà di Lettere Moderne dell’Università di Catania. Per motivi personali e di lavoro si trasferisce in Lombardia dove si occupa principalmente della famiglia e lavora nella Pubblica Amministrazione.Ha iniziato a scrivere le proprie emozioni da due anni circa, dopo aver assistito in prima persona alla trasformazione dei tratti del viso di una madre a causa di un evento doloroso.
Cettina scrive i suoi versi senza rispettare la metrica perché vede, quest’ultima, come un bavaglio alle sue emozioni, sente il bisogno di comunicarle a chi vuole avvicinarsi a quella forma d’espressione che traduce le emozioni, cioè la Poesia. Le sue poesie nascono da un velo di tristezza che lascia subito il posto alla speranza e coglie l’attimo fuggente della felicità che ognuno di noi deve inseguire e perseguire a tutti i costi.
La consapevolezza di ricorrere alla meraviglia dello spettacolo della natura per descrivere le emozioni, si fa strada pian piano dentro la sua anima, tesa come le corde di un violino che aspetta con ansia una mano abile, capace di tradurre il suo suono celestiale in parole vibranti diretti al cuore, con l’obiettivo di arrivare ad una vera osmosi con il lettore che non ha paura di mostrare la vulnerabilità dell’essere, certo di possedere la fantasia per superare qualsiasi ostacolo alla felicità.
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IN LIBRERIA
DA SABATO 7 MAGGIO 2011
Paola Liotta
Di Aretusa e altri versi
2011, 8°, pp. 88, € 10,00
ARABA FENICE, n. 39
ISBN 978-88-96071-40-3
(...)Non si tratta di poesie ermetiche, bensì di poesie colte nell’euritmia del verso così come nella scelta del lessico, ben armonizzato con l’interiorità del sentimento espresso, sia esso amore o sentimento del tempo, ricordo come memoria del passato o percezione del presente. La poetessa, infine, si dichiara come in una sorta di epitaffio epigrammatico nella sua veste umana e spirituale nelle liriche “L’amicizia. Che cosa è, veramente?” e “Come sono veramente”, il cui epilogo riporta le note già evidenziate: … vorrei/sempre essere quel tipo di persona/sanamente disposta al rischio/di perdersi per le proprie idee...
Grazia Maria Schirina'
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